Brexit, la variante scozzese

di

22 Gennaio 2021

Trovato l’accordo sulla pesca, ma burocrazia e promesse non mantenute infiammano la protesta in Gran Bretagna

Tra polemiche, ritardi e dibattiti, alla fine, la Brexit è ormai realtà. Durante gli infiniti negoziati per evitare il ‘no deal’, il tema della pesca è stato uno dei nodi più complessi degli accordi. Come è andata a finire?

Un accordo c’è (un testo che supera le 1.200 pagine, con un’intera sezione e diversi allegati dedicati alla pesca) e, per semplificare, di fatto comporta le seguenti conseguenze: entrambe le parti hanno concordato che il 25% dei diritti di pesca delle barche dell’Ue nelle acque del Regno Unito saranno trasferite alla flotta di pesca della Gran Bretagna in un periodo di cinque anni.

Le barche dell’Ue continueranno a pescare nelle acque del Regno Unito per alcuni anni a venire, ma i pescherecci del Regno Unito otterranno una quota maggiore di pesce dalle acque nazionali britanniche, calcolata in modo graduale in un periodo transitorio fra il 2021 e il 2026, con la maggior parte della quota trasferita quest’anno. Dal 2026 in poi, ci saranno negoziati annuali per decidere come le quote di pescato saranno ripartite tra la Gran Bretagna e l’Ue.

Tecnicamente, il Regno Unito avrebbe il diritto di escludere completamente le barche dell’Ue dopo il 2026, ma l’Ue potrebbe rispondere con pesanti tasse sulle esportazioni del pesce britannico in Europa o negando addirittura l’accesso delle barche britanniche alle acque dell’Unione.

Questo è noto come “periodo di adattamento”, pensato per dare alle flotte dell’Ue il tempo di regolarsi con i nuovi accordi. L’Ue voleva che fosse più lungo, il governo di Londra voleva che fosse più breve, si siano incontrati a metà strada, con una data finale del 30 giugno 2026.

Secondo i piani delineati nell’accordo, la quota di pesca dell’UE nelle acque del Regno Unito sarà ridotta del 15% nel primo anno e di 2,5 punti percentuali ogni anno successivo.

Come funzionava prima? Come parte del suo legame con l’UE, il Regno Unito era soggetto alla Politica Comune della Pesca (PCP). Molte delle regole della PCP sono state stabilite per la prima volta negli anni ’70, ogni paese controllerebbe l’accesso alla propria Zona Economica Esclusiva (ZEE), che si estende fino a 200 miglia nautiche dalla costa, o a un punto marittimo a metà strada tra paesi vicini.

Nell’Ue, i diritti di pesca sono negoziati annualmente dai ministri di ogni stato membro, che si riuniscono per una maratona di colloqui ogni dicembre per contrattare il volume di pesce che può essere catturato da ogni specie. Le quote nazionali sono poi divise utilizzando dati storici che risalgono agli anni ’70, quando l’industria della pesca britannica aveva sempre lamentato di aver ottenuto un brutto accordo. I leader del movimento per la Brexit, Johnson in testa, hanno cavalcato fin dall’inizio questo tema, ma alla prova dei fatti hanno fatto un favore o no ai pescatori britannici?

Entro il 2026, si stima che le barche del Regno Unito avranno accesso a un extra di 145 milioni di sterline di quote di pesca ogni anno. Nel 2019, le navi britanniche hanno catturato 502mila tonnellate di pesce, per un valore di circa 850 milioni di sterline, all’interno delle acque del Regno Unito.

Il documento stabilisce anche i dettagli di come ogni specie di pesce sarà ripartita tra il Regno Unito e l’UE durante la transizione. La flotta britannica può aspettarsi un aumento delle quote per 57 dei 90 tipi di pesce catturati nelle acque del Regno Unito ogni anno, ma le quote per alcune specie come il merluzzo della Manica, di cui le barche dell’UE (principalmente dalla Francia) catturano più del 90% ogni anno, rimarranno invariate.

Quali sono, da subito, le conseguenze e le reazioni? Gli esportatori di frutti di mare si sono lamentati delle problematiche insorte alle frontiere. In particolare, la Scottish Seafood Association è furiosa, sostenendo che le nuove disposizioni doganali hanno causato ritardi con interi rimorchi che devono essere controllati invece di semplici campioni. Con un deterioramento fatale per il prodotto.

Uno dei problemi più grandi e la complessa procedura per i cosiddetti Certificati Sanitari di Esportazione, al punto che alcune grandi compagnie di trasporti hanno sospeso il servizio. Un sistema duramente criticato da un tagliente editoriale del Guardian, dal titolo esplicito: The cost of absurdity.

Il governo britannico ha annunciato, il 19 gennaio scorso, uno schema di compensazione di 23 milioni di sterline per sostenere le imprese di pesca, dopo che gli esportatori di pesce hanno tenuto manifestazioni fuori dai dipartimenti del governo nel centro di Londra.

Il governo guidato da Boris Johnson ha anche fatto sapere che investirà 100 milioni di sterline per modernizzare l’industria della pesca e si consulterà su come spendere il denaro nel prossimo mese.

Questo passaggio, per Johnson, sarà delicato. Nessuno ha dimenticato che il primo ministro britannico, il 16 giugno 2016, in piena campagna Brexit, aveva promesso che la Gran Bretagna avrebbe riassunto “una totale sovranità sulle proprie acque nazionali per la pesca” e che i pescatori sarebbero stati supportati. Oggi, dopo la Brexit, i pescatori scozzesi fanno 72 ore di mare per sbarcarlo in Danimarca e venderlo a prezzi sostenibili.

Un grossista gallese ha raccontato alla BBC la sua odissea: con il suo camion contenente quasi 50.000 sterline di aragoste, gamberi e granchi ha subito un ritardo di più di 30 ore durante il suo viaggio verso la Spagna.

Non si parla di casi isolati: nel 2019 l’industria della pesca del Regno Unito ha esportato più di 333mila tonnellate di pesce verso l’Ue. Circa la metà del totale del pescato britannico e circa tre quarti delle esportazioni totali di pesce dal Regno Unito verso l’estero. Alcuni comparti di questo settore – come i molluschi – sono totalmente dipendenti da tali esportazioni.

La sensazione è che il tema sia più politico che pratico. Servivano i voti dei pescatori, delle loro famiglie e dell’indotto, fomentate dal tema ‘sovranista’ delle acque territoriali, senza chiarire le conseguenze doganali, ma Johnson e i suoi sodali sanno anche che la pesca è solo una piccola frazione dell’economia complessiva nel Regno Unito (circa lo 0,02% nel 2019). Secondo l’Office for National Statistics, la pesca valeva 437 milioni di sterline per l’economia del Regno Unito nel 2019. In confronto, l’industria dei servizi finanziari valeva 126 miliardi di sterline, per capirci.

A una prima valutazione delle conseguenze, come hanno notato alcuni commentatori britannici, ottenuti i voti dei pescatori, abbandonarli ai loro problemi non sarebbe un gran danno economico per il governo di Londra, ma è il prezzo politico che diventa interessate.

Il 18 gennaio scorso, davanti a Downing Street, agli edifici governativi di Whitehall e al Parlamento di Westminster, a Londra, una ventina di tir e camion hanno bloccato il traffico. Alcuni di loro appartenevano a quel 90% dei pescatori scozzesi che, nel 2016, al referendum, votarono per la Brexit.

Nicola Sturgeon, prima ministra scozzese, in una dichiarazione pubblicata in Italia dal Corriere della Sera, ha ribadito come la Scozia si senta parte dell’Unione europea e sia pronta a riprendere la lotta per tornare nell’Ue, anche a costo di uno strappo con Londra. La rabbia dei pescatori, se non rappresenta un grattacapo economico per Johnson, potrebbe rivelarsi un problema politico. Uno di quelli che, propaganda sovranista a parte, si presenta quando è il momento di passare dalle dichiarazioni politiche alla realtà.