C’è ancora bisogno di #ReclaimTheseStreets

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17 Marzo 2021

Le manifestazioni in Gran Bretagna, gli arresti e la rabbia, per Sarah Everard e tutte le altre

Sabato sera la MET (Metropolitan Police, la polizia che opera nella zona di Londra) ha arrestato e multato diverse donne che si erano radunate nel parco di Clapham Common per una veglia in onore Sarah Everard, rapita e uccisa da un poliziotto il 3 marzo scorso.

Verso le 9 di sera del 3 marzo, Sarah, una trentatreenne che lavorava nel marketing, era uscita da casa di un’amica a Clapham, Londra Sud, e si era incamminata verso casa propria, a Brixton.

Una telecamera pubblica di sorveglianza la mostra mentre cammina attraverso Clapham Common, poco dopo aver lasciato l’amica con cui aveva cenato, mentre una telecamera installata sopra un citofono la riprende circa 15 minuti più tardi nel sud di Brixton – questa è l’ultima volta che viene vista. Nei tre giorni successivi infatti, Sarah non risponde alle chiamate né della famiglia né degli amici, che danno l’allarme, e la MET apre un’indagine sulla sua scomparsa. Il 9 marzo, il corpo viene trovato in un bosco del Kent e Wayne Couzens viene arrestato per il rapimento e l’omicidio della donna.

La veglia di sabato era stata organizzata dalla campagna #ReclaimTheseStreets per le 6 del pomeriggio e prevedeva che chiunque volesse onorare la memoria di Sarah si recasse a Clapham Common per accendere una candela o una luce.

L’evento era però anche pensato per protestare contro la violenza da parte delle forze dell’ordine, particolarmente importante in questo caso perché l’assassino di Sarah è un poliziotto. La veglia era in un luogo aperto e #ReclaimTheseStreets aveva chiesto espressamente di indossare le mascherine e di osservare il distanziamento sociale. Nonostante l’attenzione alla sicurezza di tutti, la MET non ha autorizzato la veglia argomentando che avrebbe costituito un rischio sanitario e minacciando di multare le organizzatrici per 10.000 sterline. #ReclaimTheseStreets ha più volte cercato il dialogo con la polizia, ma questa si è rifiutata di collaborare, sostenendo che l’unica versione accettabile dell’evento fosse una veglia dalla porta di casa.

Per l’ennesima volta, le donne sono state spinte dentro casa: autorizzare un momento di solidarietà collettiva solo se sulla porta della propria abitazione è un messaggio sottile, che significa che è solo fino a lì che le donne si possono spingere. Negli anni ’70, quando in Inghilterra era scoppiato il caso del serial killer detto ‘Yorkshire ripper’, alle donne venne detto di stare in casa per stare al sicuro. Più di quarant’anni dopo, l’approccio non è cambiato. Ma stare a casa non può essere la risposta, e non solo perché costringe le donne a modificare la propria quotidianità ma perché casa purtroppo non è un luogo sicuro per tutte, come ci è stato ricordato durante questi mesi di pandemia.

Durante il lockdown della scorsa primavera, l’Office for National Statistics ha riportato che i casi di violenza domestica nel Regno Unito sono aumentati del 7% rispetto allo stesso periodo del 2019 e del 18% rispetto al 2018.

A scuotere l’opinione pubblica britannica non è stata quindi solo la morte di Sarah Everard, ma anche la reazione insensibile della MET, che è intervenuta violentemente quando moltissime donne si sono comunque recate a Clapham Common. I video girati in quel momento mostrano chiaramente alcuni agenti mentre ammanettano una ragazza, trascinandola via dal memoriale.

Ma perché è importante parlare di Sarah Everard e della repressione della polizia a Clapham Common, in Italia?

Innanzitutto perché la violenza di genere è dappertutto: l’Eures ha riportato che, nel 2020, c’è stato in media un femminicidio ogni 5 giorni e che, durante il lockdown, le chiamate al numero antiviolenza 1522 sono aumentate notevolmente.

Questo è un ottimo momento per rifletterci, a solo una settimana dall’8 marzo. Nonostante negli ultimi anni sia aumentato il riconoscimento della Giornata Internazionale della Donna come una giornata di rivendicazione di tutte le lotte per la parità di genere fatte e ancora da fare, molte istituzioni e media la presentano ancora come una festa, una giornata bonus in cui dichiarare la loro ammirazione per le donne senza però riconoscere disparità e violenze come sistemiche.

Un’altra riflessione necessaria è di tipo geografico: quando campagne come #ReclaimTheseStreets si diffondono in stati che in Europa siamo abituati a considerare ‘in via di sviluppo’, come in quella anti victim-blaming delle ragazze indiane #Ain’tNoCinderella, la stampa europea li riporta con toni di incoraggiamento e condiscendenza. Ma siamo sicuri che in Europa non ce ne sia più bisogno?

Il dibattito inglese di questi giorni ha riportato al centro della riflessione quanto sia difficile per ogni donna rivendicare un diritto elementare come quello di camminare verso casa sentendosi al sicuro. In Italia, per anni molti politici hanno legato il concetto di sicurezza all’immigrazione (i Decreti Sicurezza sono un ottimo esempio), fenomeno che hanno dipinto come il rischio principale per i cittadini dal punto sia economico che personale. Allo stesso modo, molto spesso le manifestazioni femministe sono state trattate come un problema di ordine pubblico, come nel caso della veglia a Clapham Common.

Quando si parla di violenza domestica e/o da parte delle forze dell’ordine si preferisce invece descrivere la violenza come un fatto isolato causato da individui singoli, magari perché ‘gelosi’ o ‘addolorati per la separazione’, anziché generato e tollerato da una cultura patriarcale vecchia di secoli.

In Italia non c’è ancora nemmeno una traduzione valida del termine ‘catcalling’, perché ‘apprezzamento’ manda un messaggio distorto: prima di tutto perché ho mai conosciuto donne che si sentissero apprezzate se uno sconosciuto per strada ci tiene a fargli sapere che hanno un bel culo e poi perché ‘apprezzamento’ letteralmente significa ‘attribuire un prezzo’.

La morte di Sarah Everard, come tante altre vicende simili che non raggiungono una risonanza pari, rende infine evidente l’infondatezza di tutte quelle insinuazioni che ritorcono la responsabilità dell’aggressione sulla vittima. La sua storia è emblematica: prima di scomparire, la donna portava un giaccone, dei pantaloni, un berretto e delle scarpe da ginnastica.

Come diceva qualche giorno fa Lucia dalla sua pagina Instagram[1], le aggressioni avvengono a prescindere da se una ragazza ha minigonna e tacco dodici o è in tuta. E non succedono solo se si cammina attraverso il parco di notte, succedono di giorno. In centro. Sull’autobus. Al lavoro. All’università. Davanti al supermercato.

Durante le proteste del movimento Black Lives Matter, uno degli slogan più comuni è stato “defund the police”. Qualche giorno fa il Guardian ha raccontato di come alcune grandi città statunitensi l’abbiano fatto davvero, e di come i fondi che prima venivano usati dalle forze dell’ordine siano stati ridiretti verso servizi sociali, culturali, di salute e prevenzione e di salute mentale, a beneficio di tutta la comunità. Per eliminare la violenza di genere non serve la repressione, ma, tre esempi tra tanti, educazione al consenso, iniziative come tariffe notturne ridotte per donne su taxi e mezzi pubblici[2], e un sostegno adeguato ai centri anti-violenza.

NOTE

[1] @laversionedellapatata

[2] Per questa frase ho preso spunto da un post pubblicato dalla pagina Instagram @aesteticasovietica.