Comunità queer in Ghana, tra decolonizzazione, pregiudizi e lotta

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26 Gennaio 2022

La comunità LGBT non ha mai avuto vita facile: fin dal dominio inglese l’omosessualità è stata criminalizzata tramite un atto che sopravvive ancora oggi

In Ghana la comunità LGBT non ha mai avuto vita facile: fin dal 1860, sotto il dominio inglese, l’omosessualità è stata criminalizzata tramite un atto che sopravvive ancora oggi, seppur con delle modifiche.

È un lascito dell’epoca coloniale che il Paese non è riuscito a cancellare nel 6 marzo del 1957, giorno dell’indipendenza, la prima raggiunta nell’Africa subsahariana; i comportamenti sessuali ritenuti innaturali e immorali possono essere puniti con una pena che prevede fino a tre anni di carcere, e anche se raramente la legge è stata applicata in tempi recenti rimane il fatto che gli attivisti queer subiscono ogni giorno numerose discriminazioni e intimidazioni.

Il solo sospetto di avere un conoscente omosessuale spesso distrugge intere comunità: nel 2012, una folla inferocita ha interrotto una festa di compleanno, pensando si trattasse in realtà di un matrimonio tra donne, ma all’arrivo dei poliziotti non sono finiti in manette gli assalitori, bensì coloro che stavano festeggiando; è incalcolabile il numero di persone cacciate dalla famiglia di origine per via dell’orientamento sessuale, o di quelle minacciate e picchiate da gruppi di vigilantes che riferiscono i nomi di sospettati alle autorità locali, pronte a ostacolare in ogni modo l’attivismo.

Infatti a febbraio 2021 la associazione LGBT+ Rights Ghana ha subito un’incursione della polizia nella propria sede principale, culminata nell’arresto di alcuni giovani volontari; stessa sorte toccata a un altro gruppo il 20 maggio del 2021, in un hotel nella città di Ho.

In entrambi i casi tutte le persone sono state accusate di “promozione della ideologia LGBT” e di crimini contro la morale, salvo essere rilasciate per mancanza di prove.

La scorsa estate è stato proposto un disegno di legge ancora più oppressivo, che vieterebbe le dimostrazioni pubbliche di affetto tra persone dello stesso sesso, il crossdressing, la creazione di associazioni a favore della comunità queer, e in generale il suo supporto, sotto qualsiasi forma.

Per chi dichiara apertamente la propria omosessualità, invece, ci sarebbero due opzioni: il carcere, oppure la terapia di conversione.

Le terapie di conversione sono dei trattamenti del tutto antiscientifici volti a “correggere” l’orientamento sessuale di chi vi è sottoposto, e spesso prevedono pratiche umilianti e dannose per la salute. Sebbene la Costituzione ghanese del 1992 sancisca la libertà e l’uguaglianza per tutti i cittadini, quindi, il mondo LGBT potrebbe essere colpito dall’ennesima legge discriminatoria. 

È come se la storia recente del Ghana avesse due versioni: una ufficiale e valida per la maggioranza della popolazione, e un’altra, quella della comunità queer, che viaggia su binari totalmente differenti.

Nel 1957 è arrivata la libertà, ma non per tutti; nel ’92 il Ghana ha scelto la democrazia e la pace, ma non per chi si discosta dalla tradizione.

E proprio alla tradizione si appella il governo ghanese per giustificare l’omofobia: “In Ghana c’è una mentalità ancora molto bigotta, si pensa che la omosessualità sia contro natura e non faccia parte della nostra società, ma sia come una moda importata dall’Occidente”, mi spiega Mohammed Abdul-wadud, responsabile della comunicazione per LGBT+ Rights Ghana.

Lui e gli altri attivisti stanno lottando duramente contro la disinformazione diffusa dallo Stato e gli attacchi mediatici per screditare la loro battaglia: alcuni hanno subito outing (la pratica con cui si rivela l’orientamento sessuale di qualcuno senza il suo permesso), con pesanti ricadute in ambito personale e lavorativo, altri sono stati nominati nelle discussioni parlamentari, additati come pericolosi sovversivi o cattivi maestri per i più giovani. 

Tra i più accaniti detrattori spicca un ente locale, la National Coalition for Proper Human Sexual Rights and Family Values, che fin dagli anni ’60 opprime la comunità con il pretesto di difendere i valori familiari e nazionali.

Questa stessa realtà a partire dal 2019 ha ricevuto ampio supporto da altre organizzazioni simili negli Stati Uniti, come il Congresso Mondiale delle Famiglie, che in quell’anno ha presieduto il tristemente noto raduno di Verona a cui hanno partecipato anche alcuni partiti politici italiani, tra cui Lega e Fratelli d’Italia.

È proprio ad Accra che si è tenuta la ultima conferenza generale del Congresso pre pandemia, in cui si è discusso dei presunti danni sociali della omosessualità, primo tra tutti il crollo del tasso di natalità, e secondariamente la sconfitta del cristianesimo.

Non sorprende, quindi, che poco dopo siano arrivate le dichiarazioni alla BBC del vescovo ghanese Philip Naameh, uno dei più strenui difensori della cosiddetta famiglia tradizionale: “I gay e le lesbiche non possono avere figli, e in poco tempo i Musulmani diventeranno la maggioranza nel Paese e fonderanno uno Stato islamico”.

L’omofobia di Stato esiste, sotto diverse forme, da quando esiste la omosessualità, e cioè da sempre, ma tra i due fenomeni sembrerebbe essere il primo ad avere legami con sfere di potere occidentali; la controversa proposta di legge non nasce certo solo grazie al Congresso, ma si può dire che la sua improvvisa popolarità nella opinione pubblica abbia accelerato il processo.

Nonostante tutto, comunque, c’è una consistente parte del mondo ecclesiastico che supporta la associazione, infatti LGBT+ Rights Ghana ha iniziato a organizzare delle live sui social, chiamate Interfaith Dialogues, in cui vengono invitati esperti e figure di spicco delle comunità religiose per abbattere lo stigma sulla queerness.

“È una questione soprattutto culturale ancora prima che religiosa: mediamente le persone in Ghana sono molto credenti, ma non sanno che la loro fede non è in contrasto con la accettazione del prossimo a prescindere dall’orientamento sessuale, anzi”, mi spiega Mohammed, e continua “Il Ghana vuole evolversi, ma non possiamo farlo replicando mentalità vecchie di secoli”.

L’impressione è che la classe dirigente si sia liberata di un passato di violenza, instabilità e colonialismo, ma su alcune questioni rifiuta di aprirsi al futuro. A ottobre la discussione parlamentare è ripresa, e LGBT+ Rights Ghana ha lanciato una campagna di sensibilizzazione tramite Instagram con l’hashtag #KillTheBill, che fino ad ora ha raccolto l’appoggio di numerose personalità di rilievo, in patria e all’estero (es. Naomi Campbell, Idris Elba), com’è successo subito dopo il raid della polizia nella sede della fondazione.

Da allora, gli attivisti stanno lavorando incessantemente per far conoscere la loro battaglia, nonostante il team sia dimezzato, poiché alcuni sono dovuti fuggire dal Ghana, temendo ripercussioni; la maggior parte sono uomini omosessuali, visti dalla società come un’anomalia, che si discosta dall’ideale canonico maschile.

“Ognuno di noi ha un ruolo: chi cura il rapporto coi media, chi si occupa delle grafiche sui social…per fortuna sono tutte cose che possiamo fare anche online. In Ghana è dura essere un uomo gay, perché si pensa che in qualche modo ti renda meno virile. La mascolinità è ancora oggi associata alla eterosessualità, l’uomo è colui che deve mantenere la famiglia e fare figli, rigorosamente con una donna.

Alcuni, più “moderati”, ci dicono che possono tollerare la nostra omosessualità, ma solo se non la mostriamo in pubblico, ecco perché la legge vorrebbe vietare le dimostrazioni di amore”.

Gli attivisti non si sono mai persi d’animo però, e sono fiduciosi: l’intervento degli alleati della comunità, dei media e di alcuni importanti istituzioni internazionali, come Amnesty International, ha aiutato ad accendere i riflettori sulla vicenda.

“Il mondo intero sta guardando ciò che farà il governo, non si tratta solo dell’Africa, questa è una battaglia collettiva”, mi dice Mohammed in una delle nostre ultime videochiamate, e ha ragione: le nuove generazioni del Ghana sono disposte a combattere con ogni mezzo, pur di mostrare a tutto il mondo che non c’è più spazio per le discriminazioni, né in Africa né altrove.