Egitto, Al-Sisi sulle orme del faraone eretico

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11 Novembre 2020

Le scoperte archeologiche e le tensioni con le autorità religiose: il regime del Cairo sempre più autocratico

Poche settimane fa, nel deserto dell’Egitto, sono state riportate alla luce decine di antichi sarcofagi, parte di una vasta necropoli situata a Saqqara, a sud del Cairo.
Si tratta di manufatti sigillati oltre 2600 anni fa sotto la 26ª dinastia (664-525 a.C.), l’ultima autoctona prima dell’invasione dei persiani di re Cambise.

Due delle bare, a titolo rappresentativo, sono state aperte davanti agli occhi di giornalisti ed esperti nel corso di un’apposita conferenza stampa. Una delle tante cerimonie in pompa magna che, più o meno indirettamente, contribuiscono a dare lustro al governo guidato da Abdel Fattah Al-Sisi.

E il leader egiziano già si frega le mani al pensiero di poter presto tagliare il nastro del nuovo Grand Egyptian Museum di Giza, progetto “ereditato” da Hosni Mubarak che il Generale potrà fregiarsi di inaugurare nel 2021.

Scorrendo la storia dell’Antico Egitto in prospettiva odierna, c’è un periodo in particolare che sembra prestarsi – con le dovute proporzioni e contestualizzazioni – a similitudini con l’attualità: è quello del “faraone eretico” Akhenaton. Una forzatura, si intende, un funambolismo narrativo che può però rivelarsi utile a tracciare uno spaccato del particolare momento politico che sta vivendo l’Egitto.

Nato nel 1353 a.C. (18ª dinastia del Nuovo Regno) da Amenhotep III e Tiy, per cinque anni Akhenaton regna con il nome di Amenhotep IV per poi, evidentemente assuefatto al potere, avviarsi su una strada che mai prima un faraone aveva osato intraprendere: rompe con il diffuso culto di Amun per passare a quello di Aten (è a questo punto che acquisisce il nome di Akhenaton, o Akhenaten), abolisce i riti religiosi tradizionali cancellandoli anche con decisi interventi iconoclasti e istituisce una sorta di culto monoteistico (e meglio enoteistico) in cui il faraone non è più solo protetto dalla divinità ma la incarna in prima persona.

Uno schiaffo alle tradizioni e alle più alte cariche religiose, ma una mossa le cui ragioni profonde non si limitano a fede e ideologia: in un’epoca in cui i sacerdoti, in particolare quelli devoti ad Amun, erano arrivati a rivaleggiare con i faraoni per potere e ricchezza, la politica di Akhenaton va probabilmente letta anche nell’ottica dell’accentramento e dell’esautorazione dei circoli di potere che ne insidiavano l’autorità.

Ed ecco che, a quasi 34 secoli di distanza, sulle rive del Nilo si sta giocando una partita non così dissimile: il controverso rapporto tra Ahmed Al-Tayeb, Grande Imam della moschea (e università) di Al-Azhar, e il presidente Al-Sisi ha raggiunto quest’anno un climax di tensione quando quest’ultimo ha tentato di far approvare dal parlamento un disegno di legge che avrebbe modificato la struttura istituzionale del Dar al-Ifta (l’organismo giuridico incaricato mediante il Gran Muftì dell’emanazione delle fatawa, pronunciamenti giuridico-dottrinali) rendendolo del tutto autonomo da Al-Azhar e ponendolo sotto il controllo diretto dell’esecutivo.

Il progetto, tra le altre cose, conferiva al presidente il potere di nominare e rimuovere il Gran Mufti e prevedeva la creazione di un centro di formazione per giuristi in seno all’istituzione stessa. In chiara sovrapposizione alle competenze della secolare università cariota, massima istituzione di formazione religiosa e guida spirituale di riferimento per i sunniti egiziani e non solo.

Nominato già nel 2010 da Mubarak, Al-Tayeb ha passato indenne sia la deposizione del dittatore nel 2011 sia quella del primo leader eletto della storia d’Egitto, Mohamed Morsi, domando sia l’ondata rivoluzionaria delle Primavere Arabe sia quella “restauratrice” di Al-Sisi.

Quest’ultimo però non si è mai sforzato di nascondere la propria insofferenza nei confronti dell’unica autorità in grado di mettergli i bastoni fra le ruote servendosi della propria influenza sulla comunità religiosa e – quel che più conta – sulle leve giuridiche ed economiche di cui l’istituzione dispone di concerto con il Dar al-Ifta e il Ministero degli Awqaf (adibito all’amministrazione dei beni delle fondazioni pie, in sostanza un enorme patrimonio di beni immobiliari, capitali e altre dotazioni religiose).

Pur se le tre istituzioni sono nazionalizzate fin dai tempi di Gamal Abdel Nasser e la loro libertà di manovra è stata ulteriormente limitata da Al-Sisi (ad esempio mediante la revoca delle licenze a numerosi imam invisi al regime e l’emanazione di leggi volte a regolare i sermoni pronunciati nelle moschee), esse conservano, al di là della formale indipendenza sancita dalla costituzione, poteri e legami che il governo non ha ancora potuto imbrigliare completamente.

Il sito di Saqqara

Al-Tayeb in particolare sembra essere in grado di tenere testa – almeno dal punto di vista dialettico – al capo supremo dello Stato.

Pur senza mai criticarlo apertamente e – anzi – accogliendo i vantaggi che la congiuntura politica offre (ad esempio la soppressione dei Fratelli Musulmani e la repressione dei salafiti egiziani, gruppi sotto molti aspetti concorrenti dell’università), il Grande Sceicco non assume mai atteggiamenti apologetici del regime, arrivando persino allo scontro pubblico quando è il momento – come nel caso citato – di porre precisi paletti al potere “temporale”.

C’è chi sostiene che non sia altro che una sorta di strategia del “poliziotto buono – poliziotto cattivo” che, facendolo apparire meno asservito al regime per contrasto – ad esempio – con le più incendiarie uscite del ministro degli Awqaf Mohamed Mokhtar Gomaa, consente ad Al-Tayeb di conservare la propria legittimità agli occhi dei credenti (l’ulama-yi akhirat della tradizione islamica indiana, ossia i clerici la cui rettezza morale non si piega alle convenienze politiche).

La recente condanna da parte di Al-Azhar delle proteste anti-regime, invero piuttosto timide e concentrate in zone prettamente rurali, sembrano puntare in tale direzione. Eppure è innegabile che, in un’arena politica in cui il dissenso è azzerato, esiliato o messo dietro le sbarre, il Grande Imam e il Gran Muftì costituiscano l’unico argine alla totale egemonizzazione della sfera politica e religiosa da parte di Al-Sisi. Da cui il tentativo (per ora fallito) del Generale di fare del Gran Muftì un pupazzo in mano ai ventriloqui governativi.

L’altra grande “rivoluzione” introdotta dal faraone Akhenaten, ad accompagnare ed enfatizzare il cambio di divinità di riferimento, fu lo spostamento della capitale, o meglio la costruzione di una nuova città che andasse a sostituire Tebe (l’odierna Luxor), troppo pregna della simbologia e del radicato culto di Amun nonostante l’alacre lavorio dei suoi scalpellini iconoclasti, con una nuova, splendente capitale.

Il faraone, a differenza di Al-Sisi, non ebbe alcun indugio a battezzarla Akhenaton fin da subito, mentre per ora la “Nuova Capitale Amministrativa” d’Egitto, in costruzione a 45 km dal Cairo, viene chiamata Sisi City solo in via ufficiosa. In comune hanno certamente la “pomposità” dei progetti e l’intento di spostarvi in blocco le istituzioni politiche.

Tra i principali scopi ufficiali c’è quello – condivisibile – di decongestionare il centro della metropoli, ma è evidente che la pianificazione ad hoc ed edificazione di nuove sedi istituzionali a grande distanza dal centro nevralgico della città storica permetteranno al governo di controllare molto meglio eventuali proteste popolari, senza contare l’effetto deterrente rappresentato dalla distanza di per sé.

Un altro aspetto chiave derivato dalla costruzione della nuova capitale è quello dello stimolo all’industria edile. Un settore già ipertrofico nel paese, ma il cui foraggiamento è utile a reintegrare nel sistema economico quelle fasce di popolazione (la “massa marginale” nella definizione di José Nun) che altrimenti vivono di espedienti, lavoro informale e rimesse dei parenti emigrati.

Insomma, a dare un po’ di pane a chi magari, con la pancia piena, non avrà motivo di unirsi alle prossime manifestazioni di piazza e imbrattare le immagini del leader sparse per la città. Compito peraltro oltremodo arduo, considerandone la capillarità: chiunque sia stato al Cairo, soprattutto nelle zone popolari, non avrà potuto fare a meno di notare l’immagine del Generale con lo sguardo che scruta l’orizzonte, di solito accompagnata da una frase di sostegno al presidente o d’ispirazione patriottica, affissa su muri, cartelloni, pullman, verande dei caffè e qualsiasi altra struttura, mezzo o oggetto di arredo urbano si presti.

Un culto della personalità che accomuna pressoché tutti i dittatori (ma tanti leader politici “democratici” o presunti tali non sono da meno) di cui fu illustre antesignano anche Akhenaton: il faraone, infatti, fece tappezzare la sua nuova capitale di bassorilievi che lo raffiguravano sia come divinità sia – elemento insolitamente verista per l’arte dell’epoca – in tutta la sua umanità, intento ad accudire le figlie o a svolgere altre attività quotidiane.

Raffigurazioni giunte fino a noi non perché si siano conservate nella città di Akhenaton, della quale resta ben poco, ma perché i suoi successori, tra cui il figlio Tutankhamon (famoso non tanto per le opere in vita quanto per l’integrità del corredo funerario ritrovato nel 1922 da Howard Carter, che sarà presto esposto in tutta la sua magnificenza nel nuovo museo di Giza), si premurarono di abbatterne gli sfarzosi palazzi per poi riciclarne i blocchi di arenaria, oggi chiamati talatat, per i propri scopi edilizi, tra cui il riempimento dei piloni del grandioso tempio di Karnak. Consacrato – ironia della sorte – proprio ad Amon.

Il faraone eretico Akhenaton

A onor del vero – e a conferma che questo parallelismo non vuol essere altro che uno spunto di analisi – va detto che ci sono alcuni aspetti in cui Akhenaton e Al-Sisi divergono innegabilmente: se la differenza più evidente per i posteri risiederà probabilmente nella notorietà della figura femminile che lo affianca (la moglie di Akhenaton fu Nefertiti, resa immortale dal celeberrimo busto, ed è improbabile che l’attuale First Lady Entissar Amer, peraltro poco avvezza ai riflettori, rimanga così plasticamente immortalata nella storia), quella più lampante nell’attualità è individuabile nell’approccio alla politica estera.

Akhenaton, stando le fonti, se ne disinteressava completamente, o al più vi si dedicava in modo fallimentare, tanto che arrivò a perdere preziosi territori nel Levante (da cui già all’epoca si importava il pregiato cedro del Libano, usato per edifici, imbarcazioni e sarcofagi). Al-Sisi, invece, non fa mistero della volontà di rinverdire i fasti di Nasser facendo dell’Egitto la principale potenza militare araba e un attore non ignorabile nel teatro del Mediterraneo.

A testimoniarlo ci sono la palese aggressività diplomatica, l’iperattività in consessi bilaterali e multilaterali e l’ulteriore militarizzazione del Paese, con un respiro internazionale che, se misurato in termini di acquisti di armamenti e attività militare al di fuori del territorio nazionale, non ha precedenti forse proprio dai tempi dei faraoni.

Se Akhenaton potesse scambiare quattro chiacchiere con Al-Sisi, tuttavia, probabilmente non si stupirebbe di sapere che anche il suo lontano successore è alle prese con le mire espansionistiche degli acerrimi nemici anatolici: allora erano gli ittiti di Šuppiluliuma I, oggi i turchi di Erdogan.

Certo, Akhenaton non poté godere a lungo dell’idillio eburneo che si era creato. Morto presumibilmente nel 17° anno di regno, le sue ardite innovazioni furono ripudiate già dagli immediati successori, i suoi palazzi fatti a pezzi e la sua stessa esistenza cancellata dalla storia per molti secoli.

Difficile che Al-Sisi, il cui tentacolare controllo degli apparati politici e soprattutto militari (in Egitto pressoché sinonimo di apparati economici) è molto più saldo di quello scaturito dall’estemporanea avventura autoidolatrica di Akhenaton, vada incontro a una così rapida e perentoria damnatio memoriae.

Al-Sisi, al centro, raccolto in preghiera con, alla sua sinistra, Al-Tayeb, gran imam di al-Azhar