Fino a qui tutto bene?

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26 Marzo 2019

Ho iniziato a scrivere questo articolo l’8 marzo, molto prima di quanto successo a San Donato Milanese. Con questo articolo non voglio commentare l’accaduto né altri fatti di cronaca, ma piuttosto condividere una delle risposte che mi sono data alla domanda “cosa ci insegna la storia?”. Anche perché questo è davvero il momento di imparare dalla storia.

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All’alba di mercoledì 6 marzo 2019 è iniziato lo sgombero della tendopoli di S. Ferdinando, per cui sono stati reclutati oltre 900 uomini appartenenti a diversi corpi delle forze dell’ordine – un rapporto di quasi 1:1 con i braccianti.

La decisione è stata fortemente voluta dal Ministro dell’Interno dopo l’ultimo incendio in cui ha perso la vita un giovane senegalese di 29 anni, Moussa Ba, che lavorava nelle campagne della zona. Il ragazzo è stato solo l’ultima vittima in ordine di tempo in una lista che conta anche Surawa Jaithe, bracciante gambiano di 18 anni, e Becky Moses, 26enne nigeriana, entrambi morti durante dei roghi notturni nella tendopoli.

Nel ghetto di S. Ferdinando non si muore solo d’incendio: Soumaila Sacko, 29enne maliano, bracciante e attivista del sindacato di base USB, è stato ucciso il 2 giugno scorso da un colpo di fucile sparatogli alla testa da Antonio Pontoriero, abitante della zona, mentre con altri due amici stava raccogliendo delle lamiere per la loro baracca. E se gli incendi sono indicativi del pessimo stato in cui versano le baraccopoli dei braccianti, l’omicidio di Soumaila Sacko ci dice molto sull’insofferenza e sull’astio nei loro confronti da parte di molti residenti.

Lo sgombero, le sue modalità, le ragioni per cui molti dei braccianti che vivevano nel ghetto non abbiano voluto spostarsi nei CAS e/o SPRAR ma soprattutto la nascita di una nuova tendopoli dall’altro lato della strada quasi simultaneamente alla demolizione della baraccopoli sono state già raccontate da altri giornalisti.

Mentre leggevo queste notizie mi sono venuti in mente degli articoli che ho letto un po’ di tempo fa per spiegare ai miei studenti il razzismo istituzionale, nato alla fine degli anni ‘60 negli Stati Uniti. Ho iniziato a pensare alle baraccopoli dei braccianti in parallelo con i ghetti degli Stati Uniti (un vero e proprio simbolo del razzismo istituzionale), con i quartieri dell’Inghilterra in cui alcune comunità vivono segregate, con le banlieue di Parigi e con tutte quelle altre zone in cui “segregazione” e “marginalità” sono concrete.

La storia degli Stati Uniti è legata a filo doppio alla tratta degli schiavi, che ha posto le basi di una segregazione razziale che nel tempo non è scomparsa, ma ha solo assunto forme diverse.

Alcune delle città dove la maggior parte degli Afro-Americani si spostò nei primi decenni del ‘900, come Los Angeles, Chicago, Detroit e New York, sono anche quelle in cui, in seguito, si sono sviluppati alcuni dei ghetti più conosciuti, come Harlem e Watts; teatro di scontri violenti a più riprese durante tutto il secolo scorso e quello attuale.

Le possibilità ridotte di accedere a un’educazione di buon livello o a un lavoro ben pagato per chi vive in zone marginalizzate (non parlo di posizione geografica, ma di accesso a servizi) hanno cause strutturali di lunga durata, a cui si aggiunge un trattamento discriminatorio e aggressivo da parte della polizia. La necessità di combattere il racial profiling[1], gli omicidi di Afro-Americani da parte delle forze dell’ordine, il loro tasso sproporzionato di incarcerazione e, in generale, contro questa violenza sistemica, ha dato origine nel 2013 al movimento Black Lives Matter.

Negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, una prima ondata migratoria proveniente da parte di ex-colonie dell’Impero britannico, per lo più India e isole caraibiche, raggiunse il Regno Unito. Anche se formalmente cittadini del Commonwealth, il loro arrivo creò non poche tensioni – contrariamente alle reazioni suscitate dalla migrazione di altri con pari status ma di pelle bianca.

Il mito dell’Inghilterra multiculturale è basato sulle quelle politiche che, inizialmente volute per dare a ogni minoranza la possibilità di mantenere la propria cultura, sono state applicate in modo distorto e hanno finito per isolarle.

E con l’isolamento sono arrivate, a catena, le proteste e i disordini. Nel 1981 scoppiarono “race riots” in tutta l’Inghilterra, come quelle di Brixton (Londra), Toxteth (Liverpool), Handsworth (Birmingham) e Chapeltown (Leeds).

Nell’estate del 2001, ci furono proteste violente a Bradford, Burney e Oldham, nel West Yorkshire. Nel 2011 ce ne furono altri ancora in vari quartieri di Londra, come Tottenham Hale (da cui partirono), e a Manchester, Nottingham, Bristol e di nuovo nel West Yorkshire.

Quello che tutte le zone colpite dalle proteste hanno in comune non è tanto la presenza di minoranze, ma l’alto livello di segregazione e le scarse condizioni economiche delle stesse. In tutte le aree dove sono scoppiati riots c’erano alti tassi di disoccupazione, condizioni abitative e sanitarie carenti e l’istruzione lasciava a desiderare.

Si potrebbe obiettare che Stati Uniti e Gran Bretagna hanno storie e una struttura politica per certi versi simili, ma di casi ce ne sono molti altri ancora e provenienti da paesi diversi. Penso alle rivolte delle banlieue del 2005, che hanno coinvolto giovani di origine principalmente nord-africana residenti in quelle periferie isolate dal resto della città dove il tasso di disoccupazione è altissimo e le opportunità di accesso e completamento dell’istruzione sono, all’opposto, alquanto rare. Ma penso anche alla lunga serie di proteste e violenze scoppiate nelle favelas di Rio, la maggior parte dei cui abitanti si sono raramente spinti fino al centro città nel corso della loro vita.

Anche in Italia le proteste nate nei ghetti sono già una realtà, una su tutte quella del 2010 che ha visto protagonisti i braccianti migranti di Rosarno, scoppiata dopo l’omicidio immotivato di due ragazzi africani da parte di gente del posto.

Nel, documentario 13th, Kevin Gannon afferma: “la storia non sono solo fatti che succedono per caso”. Le cause di proteste, scontri e violenze, a Rosarno come a Leeds, non vanno cercate nella presunta propensione di questa o quella comunità a delinquere o a vivere in condizioni di degrado, ma nelle dinamiche che danno agli uni la possibilità di accedere a un’istruzione, un lavoro e una casa decente e ad altri no. È l’assenza di istruzione, lavoro, servizi e case adeguate che genera criminalità: quando non ci sono altre scelte, spacciare droga o commettere un furto (ad esempio cercare delle lamiere in una proprietà privata) non sembrano delle alternative così improbabili.

Questo momento storico mi ricorda l’inizio del film L’Odio, non a caso ambientato nelle banlieue di Parigi. Prima che compaia la prima scena, una voce narrante dice: ‘Questa è la storia di un tizio che cade da un palazzo di 50 piani. Mano a mano che cade, il tizio per farsi coraggio si ripete “Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene.” Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.’ L’Italia si trova a un bivio metaforico in cui, da un lato, ha il potere di perseguire nuove politiche che inaspriranno le tensioni tra migranti e non, mentre dall’altro ha quello di ridurre la presenza dei ghetti e delle baraccopoli. Certo, gli sgomberi sono già stati fatti, ma allo stato attuale delle cose sgomberare una baraccopoli è un po’ come aggiustare una maniglia rotta con lo scotch: una soluzione temporanea che ci ripresenterà lo stesso problema da lì a poco.

Per aggiustare questa porta rotta bisognerebbe andare alla radice del meccanismo che non funziona, con tutti gli attrezzi del mestiere e perdendoci tempo e fatica. Fare in modo che i ghetti non abbiano più ragione d’esistere significa prima di tutto lottare contro il caporalato, l’economia sommersa e illegale, ma anche impegnarsi per trasformare la filiera alimentare attuale. Una faticaccia, sì, ma una soluzione a lungo termine per questo meccanismo disfunzionale.

 

[1] Il racial profiling é una pratica messa in atto dalla polizia secondo cui persone di una determinata etnia o colore hanno comportamenti specifici, specialmente se e quando commettono crimini (Cambridge Dictionary, mia traduzione).