Il grido di dolore dell’Amazzonia che brucia

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26 Agosto 2019

Da settimane la foresta amazzonica sta bruciando. Migliaia di ettari andati in fiamme con la distruzione di flora e fauna in un’area unica al mondo per la sua biodiversità

L´Amazzonia non è una regione qualsiasi. È la maggiore area di foresta tropicale esistente al mondo. Qui si trovano un terzo dei boschi primari che assorbono le emissioni di carbono prodotte dal pianeta, il 20% dell’ acqua dolce non congelata e oltre il 30% della flora e fauna esistenti sulla Terra.

Nei sette milioni di chilometri quadrati distribuiti tra nove paesi (Brasile, Bolivia, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname, Venezuela e Guyana) che compongono l’ area amazzonica vivono circa tre milioni di indigeni appartenenti a 400 diversi popoli, 60 dei quali si trovano ancora in situazione di isolamento volontario.

Se é vero che l´Amazzonia è un’area condivisa da vari paesi, è però il Brasile lo Stato che da solo occupa quasi i due terzi del territorio. Un territorio che in particolare tra il 1970 e i primi anni 2000 i governi brasiliani hanno sfruttato in maniera selvaggia.

Uno studio promosso dalle Nazioni Unite attraverso la FAO calcola che dal 1970 sino all’inizio del 2000 siano andati distrutti almeno 700mila chilometri quadrati di foresta amazzonica in Brasile. Una superficie di oltre il doppio del territorio italiano per intenderci.

Per fare fronte a questo disastro, a partire dal 2004 l’ex presidente Lula iniziò una politica di protezione e conservazione della foresta amazzonica creando nuove aree protette, incrementando le misure di monitoraggio volte alla conservazione della flora e della fauna, implementando una serie di sanzioni nei confronti degli agricoltori che violavano l’intangibilità dei territori
destinati alla conservazione.

Purtroppo, a partire dal 2014, l’arrivo della grave crisi economica e politica che ha messo in ginocchio il Brasile e successivamente lo stesso governo di Dilma Roussef che era succeduta a Lula, ha aperto lo spazio a gruppi economici, in particolare legati al settore agricolo dei grandi produttori di carne bovina (di cui il Brasile é il primo esportatore al mondo) e soia (secondo produttore mondiale).

Con il favore del nuovo governo neoliberista al potere dal 2016 e il pretesto dell’esigenza di aumentare la produzione di soia e carne  per assicurare maggiori livelli di esportazione al paese, è stato quindi gioco facile tornare impunemente ad impulsare la deforestazione e l’avanzamento della frontiera agricola all’interno delle aree in teoria protette dell’Amazzonia brasiliana.

Con l’elezione del presidente Bolsonaro (gennaio 2019) arrivato al potere, come dicono i brasiliani, con l’appoggio delle 3 B: Biblia, Bala y Buey, cioè con il supporto delle chiese evangeliche ultra conservatrici; gruppi che promuovono la diffusione delle armi e interessi economici legati all’industria agricola e all’allevamento di bestiame, si chiude definitivamente la speranza di riprendere un processo di protezione e conservazione della foresta amazzonica.

Al contrario, si assiste allo scempio. Prima dichiarato, con Bolsonaro che sin dalla campagna elettorale affermava che le aree naturali potette del Brasile erano un ostacolo alla possibilità di crescita economica del paese e che era quindi necessario “aprirle” allo sfruttamento commerciale.

Poi con i fatti, una volta eletto, da un lato procedendo ad eliminare le sanzioni per vari reati contro l’ambiente e, dall’altro, offrendo incentivi fiscali e cambiando i criteri di demarcazione e sfruttamento non solo agricolo, ma anche minerario e forestale dei territori indigeni, la maggioranza dei quali si trovano nell’area amazzonica.

Data la situazione non sorprende quindi che durante i primi sei mesi del governo Bolsonaro, tra gennaio e giugno 2019, secondo quanto riporta l´Istituto Nazionale di Ricerche Spaziali (Inpe) la parte brasiliana dell’Amazzonia avrebbe perso oltre 3mila chilometri quadrati di aree boscose, con un aumento del 39% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e addirittura dell’80% comparando il periodo giugno 2018 – giugno 2019.

Dopo la pubblicazione di questi dati, lo scorso mese di luglio, il direttore dell’Inpe, Ricardo Galvao, é stato rimosso da Bolsonaro che lo ha accusato di “nuocere all’immagine del paese”.

Ma il peggio per la povera Amazzonia doveva ancora arrivare. E purtroppo, con la stagione secca, il peggio é arrivato. Dai primi giorni di agosto infatti, in un assordante silenzio internazionale durante oltre due settimane, la foresta amazzonica ha iniziato a bruciare. In maniera vorace, distruggendo, secondo varie fonti, 500mila ettari di bosco durante i primi 16 giorni. Quasi 10mila diversi incendi che hanno coinvolto ben 68 aree protette dell’Amazzonia brasiliana, con un aumento dell’incidenza dell’83% rispetto al 2018.

Dopo un periodo di imperturbabile silenzio, il presidente Bolsonaro ha recentemente accusato la stagione secca e non meglio identificate ONG di essere  responsabili del disastro. Il motivo? Denigrare la sua persona per poi poter intervenire in difesa dell’ambiente. Una tesi assurda, che non merita neppure di essere commentata.

In realtà gli specialisti del settore come ad esempio l’Instituto de Investigación Ambiental de la Amazonía concordano nel considerare che la causa degli incendi è dolosa: provocata per deforestare i terreni e convertirli in zone di pascolo o per ripulire, approfittando della stagione secca, aree precedentemente già deforestate per trasformarle in aree di coltivazione principalmente della soia.

Rispetto al grave problema degli incendi nell’Amazzonia, da pochi giorni a questa parte si sono finalmente attivate reti di informazione e sensibilizzazione a livello internazionale. Tanto repentino e diffuso interesse però, se non è canalizzato in una strategia organizzata di più ampio respiro e proiezione, rischia come successo in altre occasioni di essere solo una dinamica legata ad un effimero comportamento di massa.

Che in realtà non capisce e affronta davvero la problematica. Che nel caso della depredazione in atto nell’Amazzonia, pur se oggi riveste una particolare drammaticità e urgenza, non è un problema di oggi.

La protezione e difesa dell’ambiente, in particolare di un contesto emblematico e rilevante come l’Amazzonia, è una tematica in discussione da tempo. Una questione grave, che dovrebbe essere assunta collettivamente e che è invece lasciata alla responsabilità di pochi.

Quasi sempre sono infatti solo le popolazioni locali, spesso indigene, a dover sopportare il peso – e i rischi – di lottare per difendere le risorse naturali da coloro che con qualsiasi mezzo se ne vogliono appropriare. E purtroppo spesso, troppo spesso, la difesa dell’ambiente costa loro la vita.

Sono recenti i dati riferiti al 2018 della ONG Global Witness che ogni anno pubblica il numero di ecologisti vittime di omicidio per cause legate alla difesa dell’ambiente. Su 164 crimini accertati durante il 2018, oltre il 50% sono avvenuti in America Latina e di questi il 15% (24) proprio in Brasile.

Il secondo paese al mondo che nel 2018 ha registrato più vittime tra coloro che difendevano la natura. Il dato ancora più drammatico che evidenzia il triste registro dei morti che presenta Global
Witness é che le vittime sono soprattutto popolazioni indigene. Sono meno del 6% della popolazione mondiale, vivono su appena il 20% del territorio, ma negli ultimi anni sono state indigene in media ben il 40% delle vittime di omicidio di ecologisti.

Mi auguro di cuore che questo ultimo grido di dolore lanciato dall’Amazzonia in fiamme non rimanga inascoltato. Che serva almeno a risvegliare le coscienze e stimolare sempre più persone ad assumere delle responsabilità concrete in difesa dell’ambiente. L’unico bene davvero collettivo. Sulla cui difesa si gioca anche la definizione della nuova frontiera per la difesa dei diritti umani.