La giusta distanza

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4 Marzo 2021

Gli effetti indiretti della pandemia

Dopo le precedenti riflessioni sulle possibili conseguenze psicopatologiche direttamente connesse all’idea del virus e del contagio, esaminiamo ora gli effetti indiretti della pandemia. Intendiamo con ciò le conseguenze legate alla necessità di isolarsi materialmente dal contesto sociale per evitare la diffusione virale: un comportamento mirato a preservare se stessi ma anche la comunità di appartenenza.

È necessario subito suddividere la casistica in due grandi ambiti, apparentemente opposti, a seconda di come venga “subita” la domiciliazione coatta resa necessaria da questa pandemia: in solitudine o in coabitazione forzata con altri. Infatti, potremmo considerare queste persone come vittime di due tipi diversi di trauma: nel primo caso il trauma è l’assenza materiale di altri esseri umani; nel secondo caso il trauma è, al contrario, la presenza materiale continuativa di questi ultimi.

Occorre ora una precisazione preliminare per espungere dalla casistica tutti i casi appartenenti alla patologia e sottolineare subito che la fenomenologia che intendiamo approfondire non è riferita alla malattia mentale manifesta, ma è quella relativa a persone adulte autosufficienti e psicologicamente normali, anche se con una particolare “vulnerabilità” alla altrui protratta assenza/presenza materiale, imposta dalle circostanze esterne.

Non ci occuperemo perciò di dinamiche psicopatologiche per cui coloro che si sentono “abbandonati” o “oppressi” reagirebbero assumendo un ruolo attivo e, divenendo anaffettivi, farebbero il vuoto dentro di sé e il nulla fuori di sé, agendo cioè la pulsione di annullamento. Tale reazione non è la causa della fenomenologia in oggetto, in quanto chi è da noi preso in esame non rende se stesso attivo ma, al contrario, subisce passivamente, dolorosamente, l’assenza o la presenza materiale altrui, senza però perdere il filo, per quanto tenue, del rapporto interumano. In definitiva, possiamo dire che essi sono vittime di una vicenda carenziale non arrivando a rendersi anaffettivi come coloro che sono protagonisti di una vicenda pulsionale.

Coerentemente al metodo psicoterapeutico che, pur prendendo atto della fattualità, mira a evidenziare il senso che tali fatti hanno per quella specifica mente umana, è necessario precisare che la capacità di “distanziarsi” dagli altri non è un fatto spaziale, ma una funzione della mente, anzi, sarebbe forse più giusto dire, della propria identità psicologica. Tale distanza quindi ha un senso specifico per le soggettività in questione che, a seconda dei casi, può assumere i connotati di una minore o maggiore comunanza e condivisione, oppure libertà e indifferenza.

Ora, l’obbligatoria impossibilità di avvicinarsi o distanziarsi fisicamente non fa che mettere in evidenza, in taluni soggetti, che l’incapacità di saper stare a lungo vicini agli altri o lontani dagli altri è innanzitutto un fatto mentale: è un’impossibilità di movimento non del corpo, ma di una “mente” incapace di “avvicinarsi” a colui che è lontano o, al contrario, di “allontanarsi” da colui che ci è di fronte, detto altrimenti di tenere la giusta distanza psicologica dagli altri. Questa dizione ci interessa: l’incapacità di tenere tale giusta distanza psicologica rende insopportabile sia l’assenza fisica altrui, percepita come manifestazione di un vuoto insostenibile, sia la presenza fisica altrui, vissuta come fonte di oppressione e d’invadenza.

Riteniamo che per tenere tale giusta distanza sia necessaria l’acquisizione di un’identità personale autonoma psicologicamente e pertanto di una certezza di sé che ci permetta di non soffrire l’assenza altrui come perdita, o vivere la presenza altrui (ovviamente non violenta, né materialmente né psicologicamente) come soffocamento. Ipotizziamo che le persone di cui ci stiamo occupando abbiano certamente un’identità umana sana, ma che essa sia carente di quei requisiti psicologici che permettano di avviarsi in quel percorso fisiologico definibile come autonomizzazione, indispensabile per l’evoluzione psicofisica di ogni essere umano.

L’autonomizzazione è definibile come il lungo processo a più tappe che conduce da quell’assoluta dipendenza fisica e psicologica, che contraddistingue l’identità dei nostri primi mesi di vita, alla autonomia adulta totale, cioè materiale e psicologica.

In questo percorso fisiologico il lattante, soddisfacendo il desiderio di risposte affettive e intelligenti, aumenta così sia la propria sensibilità umana, che viene sempre più stimolata, sia la propria reattività umana, che viene capita e accettata in un rapporto felice con un adulto adeguato a dialogare con lui.

In altre parole egli amplifica la vitalità dei propri pensieri (immagini) non coscienti che, via via che anche i sensi fisici divengono sempre più certi della realtà materiale, si fondono allo sviluppo della coscienza. Senza conflitto e senza scissione tra inconscio e coscienza.

Tale realizzazione psicofisica del sé è evidente per tutti in quel particolare momento in cui il bimbo si vede per la prima volta allo specchio e si riconosce pur senza essersi mai visto prima. Si riconosce e ride felice di questa scoperta.

Egli diviene certo della propria individuale soggettività grazie alla vitalità di un pensare con fantasia che, attribuendo un “senso” personale alla percezione cosciente del proprio volto allo specchio, delinea i contorni della propria identità, permettendo al suo autore di riconoscersi per la prima volta.

In tal senso lo “svezzamento” propriamente detto rappresenta quella prima tappa che, all’incirca verso il compimento del primo anno di vita, conduce ad una iniziale autonomia, specificatamente psicologica.

Egli inizia così quel lunghissimo percorso esistenziale che lo porterà, tanti anni dopo, con la trasformazione fisica della pubertà e il superamento fisiologico della sessualità adolescenziale, alla certezza della propria identità umana totale, psichica e fisica, in quanto completata dalla dimensione sessuale, divenendo con ciò realmente autonomo.

Affermiamo che un’identità carente dei requisiti dello svezzamento è anche, di conseguenza, deficitaria del requisito della autonomia mentale, ovvero di quella libertà interiore necessaria per pensare con la testa propria e non con quella dei genitori o della cultura a cui, senza scelta, ci si è trovati ad appartenere; ma, soprattutto, necessaria per pensare con fantasia, cioè per avere un pensiero non solo basato positivisticamente sui dati sensoriali del rapporto cosciente con la realtà, ma anche sulla creazione personale di immagini interne e fantasie coscienti.

Questa dizione creazione personale di immagini interne e fantasie coscienti necessita di alcune note esplicative sulla sua origine e significato nell’ambito della Teoria della nascita, elaborata dallo psichiatra Massimo Fagioli, a cui noi facciamo riferimento.

Il punto di partenza è la scoperta che nella specie umana la nascita biologica si accompagna immediatamente anche alla nascita psichica (caratteristica specie-specifica) la quale, permeando di sé tutta la realtà biologica del neonato, fornisce ad essa quel plus, quello specifico umano, la psiche, che si manifesta in una speciale sensibilità e reattività che definiamo come vitalità umana.

La caratteristica comune a tutta la materia vivente, che è la sensibilità agli stimoli, ha un modo specifico di esprimersi nella nostra specie: quella di essere stimolata dalla realtà psicologica altrui. In tal caso gli stimoli provengono specificatamente da altri esseri umani e quindi hanno sempre una valenza psichica, un senso più o meno decifrabile. Valenza positiva o negativa, a seconda del senso veicolato da tale stimolo: confermare o disconfermare una presenza umana all’esterno del percipiente. La vitalità umana si appoggia sul funzionamento della sensibilità corporea, si serve del concreto contatto sensoriale con la realtà, tramite cui essa offre la possibilità di percepire somaticamente la verità del rapporto interumano, ovvero il senso della comunicazione altrui.

Anche l’altra caratteristica della materia vivente che è la reattività ha una sua specifica umana che si esprime innanzitutto a livello somatico con quelle reazioni psicofisiche dette affetti che, a seconda della positività o negatività dello stimolo, possono esprimersi come desiderio, curiosità, interesse oppure, nel caso che tale verità sia percepita come alterazione peggiorativa della nostra identità, rabbia e odio fino all’estremo del suo estinguersi nel fenomeno opposto dell’anaffettività. Nel caso della percezione negativa di uno stimolo, una vitalità valida si può estrinsecare anche con una reazione definita resistenza; allorché la realtà esterna non “corrisponda” al soggetto e venga percepita come lesiva, la resistenza ad essa è la difesa, protratta nel tempo, che impedisce una lesione, chiaramente di tipo psichico. È importante sottolineare che la resistenza, anche nella sua massima espressione che è l’indifferenza, non annulla il rapporto con lo stimolo esterno, ovvero con una realtà umana violenta o deludente. Essa però impedisce il crollo interno e permette alla struttura psichica di fondo, che possiamo definire identità, di non frantumarsi o alterarsi di fronte a rapporti umani nocivi.

Al di là degli affetti, la reattività umana trova però la sua specifica espressione a livello mentale con l’attivazione della capacità di immaginare, facoltà specificatamente umana. Quest’ultima crea internamente immagini del latente della realtà umana esperita, idee-immagini non fotografiche, ma “inventate” per esprimere la propria verità soggettiva dei personali vissuti relazionali. Allo stato di sonno essa si evidenzia come attività onirica, mentre nella veglia tali affetti e tali immagini interne vanno a comporre, nel rapporto cosciente e comportamentale con la realtà, quella attività propriamente umana detta fantasia.

Tornando al tema in questione, possiamo vedere come tali immagini e fantasie nella misura in cui siano fragili, poco solide, poco resistenti al passare del tempo o al verificarsi di eventi traumatici, cioè siano carenti di vitalità, possono determinare una scarsa tenuta all’eccessiva assenza o presenza materiale altrui. Partendo dall’assenza, questa viene allora ritenuta colpevole di provocare un vuoto interno che rende insopportabile la solitudine coatta in quanto non colmabile, mancando la certezza della altrui e propria esistenza e validità; le immagini interne si sbiadiscono e si deteriorano facilmente lasciando dentro un doloroso senso di assenza; assenza di quella fantasia che dovrebbe sostenerci nel “sapere” del nostro rapporto con gli altri e che solo malamente è compensata da continue richieste di conferme e rassicurazioni.

D’altro lato, parlando invece della presenza continuativa imposta da questa situazione, è sempre la fantasia ricca di vitalità che ci permette anche di “volare via” con la capacità di immaginare e, contemporaneamente, rimanere “coi piedi per terra” nel vitale rapporto con la realtà altrui. Sinteticamente essa permette la possibilità di “allontanarsi” mentalmente senza divenire anaffettivi.

Sapersi “allontanare” internamente, cercando i propri spazi mentali senza per questo perdere l’affettività per il partner è la dinamica per cui una coppia di amanti può passare un tempo indefinito in uno spazio definito, magari anche piccolo, senza tentare di invadere lo spazio mentale altrui e contemporaneamente, pur facendo o pensando cose diverse ognuno per conto proprio, mantenere sempre sottotraccia un invisibile rapporto affettivo con il partner, la cui presenza continua ad essere percepita in modo subliminale.

E, ancora meglio, potremmo pensare ad una madre che, mentre sogna, con la sua capacità di immaginare va “lontanissima” dal luogo fisico in cui dorme, ma basta un piccolo rumore proveniente dal suo bimbo vicino a farla svegliare immediatamente e, con fantasia, trovare la favola giusta per farlo riaddormentare felice.

Se i soggetti “abbandonici” avevano bisogno di contatto fisico per sentirsi amati e accettati, i soggetti “oppressi” hanno bisogno della distanza fisica per sentirsi liberi e autonomi. Entrambi non hanno internamente quel senso della giusta distanza e quell’autonomia che permette di mantenere un rapporto affettivo, da un lato svincolato dall’obbligatorietà della fisicità e dall’altro coniugabile con la propria irrinunciabile libertà mentale. Apparentemente all’opposto, in realtà, entrambi manifestano la stessa deficitaria acquisizione di quella vitalità e fantasia che sono alla base della certezza dell’identità. Questo obiettivo, non raggiunto né dagli uni né dagli altri, non permette di mantenere nel tempo una lontananza o una vicinanza interumana.

 <<Né con te, né senza di te>> è il sigillo della loro relazionalità monca, della loro autonomia zoppa.

Lo svezzamento malriuscito, per mancato incremento della vitalità necessaria ad acquisire libertà e autonomia, costringe costoro a potersi muovere solo nello spazio, ad avere solo l’elemento spaziale come criterio di valutazione della vicinanza o lontananza dagli altri.

È soltanto la differenza ambientale, è soltanto il contesto che costringe gli uni e gli altri ad esprimersi con sintomatologie diverse, e possiamo, ora sì, parlare senza remore di sintomatologie in quanto, se la situazione carenziale di partenza non è certamente patologica, purtuttavia la vulnerabilità psicologica presente mette a rischio la salute mentale di soggetti che non manifestano tanto anaffettività o dissociazione, quanto vivono l’angoscia di divenire anaffettivi o dissociati. Non vi è perciò una psicosi in atto, quanto il timore di poter impazzire.

Per questi motivi nonostante le due situazioni ambientali siano agli antipodi la terapia è la stessa per entrambi. Ovvero ad ambedue occorrerà vivere una relazione interumana non deludente che, come tutte le altre, è composta di presenze e di assenze, cioè dell’usuale alternanza di momenti, anche intensi e difficili, di rapporto e di separazione. E, come tutte le altre, si svolge a livello sia conscio che non cosciente. La differenza con le altre è che questa speciale relazione non viene solo vissuta, rivitalizzando così la dimensione non cosciente, ma anche “compresa”, interpretata, affinché, la relazione stessa si modifichi, divenga sempre più vera, sempre più reale per potersi infine concludere, diversamente da quanto “normalmente” accade, in modo bello, con una realizzazione reciproca, al momento della separazione. Questa relazione si chiama psicoterapia.

 

Cooperativa Sociale di Psicoterapia Medica

Giovanni Del Missier, Francesco de Michele, Piera Maria Galeandro, Matteo Reggio d’Aci, Luana Testa

BIBLIOGRAFIA

Massimo Fagioli (1972), Istinto di morte e conoscenza, L’asino d’oro ed., Roma 2010

Massimo Fagioli (1974), La marionetta e il burattino, L’asino d’oro ed., Roma 2011

Massimo Fagioli (1975), Teoria della nascita e castrazione umana, L’asino d’oro ed., Roma 2012

Massimo Fagioli (1980), Bambino donna e trasformazione dell’uomo, L’asino d’oro ed., Roma 2013

Massimo Fagioli (2019), Left 2016-2017, L’asino d’oro ed., Roma 2019.

foto di Filippo Trojano