Libano, la rabbia e il sistema

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22 Ottobre 2019

Le misure di austerità proposte dal governo hanno fatto esplodere proteste di massa in tutto il Paese

Da oltre cinque giorni il popolo libanese è sceso in strada dando vita a quella che è stata definita una delle più grandi manifestazioni nella storia recente del Libano. ‘Rivoluzione’ e ‘Il popolo vuole la caduta del regime’ sono gli ormai noti canti rivoluzionari delle proteste che da giovedì 17 ottobre risuonano in quasi tutte le principali strade e piazze del Paese.

Non solo nella capitale Beirut, infatti, ma anche a Tripoli nel nord, nelle città di Saida e Nabatiyeh a sud e a Baalbeck nella valle della Bekaa, manifestanti di tutte le età ed estrazioni sociali hanno dato vita a cortei di massa di impressionante affluenza e raduni festosi che si sono alternati a sporadici scenari di scontri e guerriglia urbana.

Moltissime strade principali sono bloccate dai manifestanti che bruciano gomme e spazzatura, sollevando nuvole di fumo nero fino al mattino. Scuole, banche e molti esercizi commerciali sono stati chiusi almeno fino a lunedì.

Nei social network c’è chi la chiama ‘la rivoluzione in motorino’, riferendosi ai moltissimi giovani che dalle periferie più neglette e marginalizzate del Paese sono sopraggiunti in scooter per sfilare nel cuore della capitale.

Le proteste sono iniziate giovedì scorso in seguito all’annuncio di nuove imposte, tra cui quella, poi subito ritirata, che proponeva una tassa sulle chiamate via internet, una misura marginale ma simbolica in un paese dove i servizi telefonici si pagano già a caro prezzo.

 

foto di Daniele Napolitano

 

L’ipotesi di nuove tasse, come quelle sul tabacco e la benzina, e l’aumento dell’IVA al 15%, non è infatti andata giù ai cittadini libanesi che ancora una volta si sono trovati a pagare le conseguenze del malgoverno strutturale.

Indipendentemente dalle coalizioni che si sono susseguite al potere dalla fine della guerra civile (1975-1990), che ha sancito il trionfo del confessionalismo e della spartizione consociativa di potere e risorse, le élite politiche non hanno risolto i gravi problemi endemici del Paese e ne sono ormai considerate le principali responsabili, accusate di anteporre interessi economici privati a quelli dei cittadini.

Nonostante un debito pubblico tra i più alti al mondo (oggi al 151% del PIL), lo Stato non è infatti in grado di garantire i più basilari servizi come acqua, elettricità e gestione dei rifiuti, così come un’adeguata istruzione e salute pubblica.

Carenze a cui solo la popolazione più abbiente riesce a rispondere ricorrendo a fornitori privati o ai favoritismi dei leader politici e confessionali, animando una società che ancora fatica a riconosce il cittadino come titolare di diritti e vede le logiche clientelari, spesso su base confessionale, dettare le regole del gioco della sopravvivenza.

 

foto di Daniele Napolitano

 

‘Non possiamo permetterci di vivere nel nostro Paese’ si legge nei cartelli, facendo riferimento al costo sempre più elevato della vita che permette una quotidianità dignitosa ad una fetta sempre più ristretta di pochi ricchi. ‘Siamo qui per dare un futuro ai nostri figli’, si legge inoltre.

foto di Daniele Napolitano

 

Non solo il crescente tasso di disoccupazione giovanile, che in alcune aree del paese supera il 30%, costringe chi può ad emigrare, ma sempre più grave è anche la situazione ambientale: cementificazione, deforestazione, discariche abusive e contaminazione delle fonti idriche vedono infatti il paese in uno stato di emergenza cronica.

Nei mesi estivi, inoltre, la campagna di legalizzazione lanciata dal ministero del Lavoro contro il lavoro informale, nata per colpire i lavoratori stranieri presenti nel paese, in particolare siriani (oltre un milione e mezzo dal 2011, secondo stime ufficiali), aveva messo a rischio le già poche opportunità di lavoro anche dei circa 400mila palestinesi libanesi.

La misura aveva infatti infiammato diversi campi profughi del Paese dove in centinaia avevano manifestato per chiedere il diritto al lavoro, già fortemente limitato dall’attuale legge che non permette agli stranieri di lavorare legalmente nel Paese, se non in alcuni limitati settori.

La proposta di nuove tasse è dunque arrivata in un momento di tensione sociale e di grande risentimento da parte dei cittadini verso l’incapacità di agire dello Stato libanese. Nelle scorse settimane infatti una serie di grossi incendi, dilagati in diverse aree del Paese, aveva colto le istituzioni impreparate (alcuni elicotteri dei vigili del fuoco erano fuori servizio per mancata manutenzione) e l’emergenza era stata superata solo grazie all’aiuto dei paesi vicini e alla mobilitazione spontanea di centinaia volontari.

 

foto di Daniele Napolitano

 

Una protesta spontanea, senza organizzazione e microfoni, come non era mai capitato prima. A dirlo è la gente in piazza che in questi giorni si incontra non più raccolta sotto un leader o simboli di partito, ma sotto la sola bandiera libanese contro l’intero establishment politico.

foto di Daniele Napolitano

 

 

In questo senso, le proteste hanno però radici più profonde e si pongono in continuità con gli esercizi di partecipazione sociale che negli ultimi anni si sono espressi in modo sempre più vivo contro la corruzione dilagante e il rigido regime consociativo su base confessionale che impedisce lo sviluppo sociale e civile del paese e limita la responsabilità dei governi.

Un attivismo che negli anni non solo ha sollevato una voce in diverse sfere della vita pubblica (dai matrimoni civili, alla difesa dei diritti, alla promozione della democrazia), ma che ha in primo luogo rivendicato la necessità di un senso libanese di cittadinanza che si contrapponesse alle appartenenze particolari e settarie sancite da quel sistema di governo, sorto con gli accordi di Ta’if (1989), che divide le varie cariche politiche in base all’appartenenza religiosa.

Almeno dal 2011, la sfiducia verso i leader politici tradizioni ha visto uno sviluppo di movimenti trascendenti ai vecchi partiti e alle logiche confessionali che sembra gradualmente uscire dalle avanguardie della società civile per abbracciare un numero sempre più ampio di cittadini.

Nel 2015, la campagna YouStink (Tol3et Re7tkom), che fino ad oggi costituiva la più grande dimostrazione apartitica di piazza dalla fine della guerra civile, aveva mobilizzato migliaia di persone contro la modalità di gestione dei rifiuti e nel rivendicare migliori servizi si era estesa ad accusare di corruzione e inefficienza l’intera ‘casta’ di leader politici e confessionali.

La differenza oggi non è solo la mancanza di leader di movimento, ma anche l’emergere della rottura tra i partiti politici tradizionalmente più forti, come i partiti di Saad Hariri o di Nabih Berri, e il loro elettorato.

Se la piazza era prima animata da chi non si riconosceva nei partiti politici tradizionali, oggi sembra lo stesso elettorato dei partiti al potere a sfiduciare i propri rappresentanti e a prendersela con i simboli e i leader delle proprie comunità.

foto di Daniele Napolitano

 

Al quinto giorno di protesta, il popolo libanese sembra non aver alcuna intenzione di abbandonare la piazza, con manifestazioni e blocchi stradali previsti almeno fino a lunedì prossimo e alcuni manifestanti che dichiarano di voler rimanere in strada fino alle dimissioni del governo.

Nella giornata di venerdì Saad Hariri, capo del governo di unità nazionale, ha dato ai suoi ministri 72 ore, per accordarsi su una soluzione alla gravissima crisi economica e sulla nuova legge di bilancio che sbloccherebbe circa 11 milioni di dollari di prestiti e donazioni della comunità internazionale.

Il pacchetto di riforme, presentato domenica, non ha placato l’indignazione generale, proteste e manifestazioni si sono susseguite senza sosta anche nella giornata di lunedì.

Nel suo discorso di venerdì, il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, ha riconosciuto che le proteste ‘sono oneste e spontanee’, ma di non appoggiare la caduta del governo.

Anche nell’eventualità di un rimpasto o di nuove elezioni, infatti, l’attuale scenario politico e una legge elettorale proporzionale, ma di fatto maggioritaria, che divide i seggi su base confessionale, non permetterebbe un reale cambiamento e finirebbero a trovarsi al governo le stesse persone. Lo scenario è dunque incerto, con le riforme richieste che sembrano improbabili con l’attuale sistema.

Tra le promesse e rischi delle rivolte arabe, una cosa sembra però certa: il rafforzamento di una coscienza nazionale trasversale che vuole cambiare la cultura politica del paese e desidera ardentemente una gestione più responsabile della cosa pubblica.

 

foto di Daniele Napolitano

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