Parlare di razzismo attraverso l’arte

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2 Febbraio 2019

Musei e scuole come “spazi sicuri” per il dialogo interculturale

Ma di’ un po’: come si può star quieti a pensare che c’è uno che si affanna a persuadere gli altri che tu sei come ti vede lui, e a fissarti nella stima degli altri secondo il giudizio che ha fatto di te e ad impedire che gli altri ti vedano e ti giudichino altrimenti?

Luigi Pirandello

 

 

CIGNI BIANCHI E TESTE NERE

 

Questa storia inizia con l’incontro fortuito, e anche fortunato, tra gli insegnanti del Centro di Accoglienza Straordinario (CAS) Il Gelsomino e Stefania Vannini, l’allora responsabile dell’ufficio Public Engagement del Museo delle Arti del XXI secolo MAXXI di Roma.
Stefania ci ha invitato a tornare al museo e si è offerta di accompagnarci in una visita guidata.

Così ci ritroviamo a passeggiare al suo interno, un po’ abbagliati dalle opere d’arte e dalla sua architettura luminosa. Il nostro sguardo viene subito attratto da The Emancipation Approximation di Kara Walker, con i suoi eleganti cigni bianchi sormontati da teste di donne africane. Da lontano sembrano immagini decorative e innocue, esteticamente riuscite, poi mettiamo a fuoco i particolari più macabri. Quelle stesse teste sono state mozzate da una ragazza dalla pelle chiara, l’aria altezzosa e l’espressione annoiata.

foto di Francesca Messineo

Stefania ci ha raccontato chi è questa artista afroamericana che affronta il tema della schiavitù negli Stati Uniti, lavorando sul ricordo della violenza e sulla violenza che questo ricordo continua a generare.

Grazie all’osservazione mediata da un’esperta, ascoltiamo con attenzione ciò che l’opera vuole comunicare e accogliamo l’invito a confrontarci con essa, filtrando attraverso l’immagine la nostra esperienza e le nostre emozioni, per riceverne indietro una versione più concreta, comunicabile e condivisibile.

Così decidiamo di lavorare in classe su questo tema e di partecipare con i nostri studenti, il 27 marzo 2018, sempre presso il MAXXI, a uno specifico evento di Narrazione “da Museo a Museo”.

Questa attività si inserisce all’interno di un progetto più ampio, nato nel 2014, che mira a promuovere la partecipazione attiva dei soggetti considerati più fragili o svantaggiati, all’interno degli spazi protetti dei musei. La metodologia operativa consiste nell’assegnare un’opera del patrimonio artistico/culturale al gruppo dei partecipanti, i quali la “rielaborano” e la raccontano di fronte ad un pubblico, collegandola a esperienze di vita e interpretazioni personali. Una tecnica pedagogica che favorisce il dialogo e l’incontro tra comunità e culture diverse, supportata anche dall’UNESCO (2003), uno stimolo per parlare d’arte in prima persona, avvalendosi di voci non-esperte, evocazioni inusuali e vicissitudini soggettive.

CORSI E RICORSI STORICO-CULTURALI

L’opera di Kara Walker evoca con immagini forti uno dei periodi più bui della storia moderna: lo schiavismo messo a valore in un’economia capitalista ed estrattivista di scala. Guardando i suoi lavori, subito affiorano immagini di uomini e donne incatenate e costrette a lasciare la propria terra per lavorare nelle piantagioni americane. L’Enciclopedia Britannica stima che circa un 1/4 dei neri trasportati sulla rotta atlantica del mercato degli schiavi sia morto durante il viaggio.

Saranno i mari trasformati in cimiteri, la pelle nera come comune denominatore, il clima politico razzista, l’autosuggestione indotta dalla visione di opere d’arte così evocative, la contingenza di trovarmi con un gruppo di ragazzi richiedenti asilo, ma emergono alla mia mente altre imbarcazioni che oggi viaggiano traboccanti di persone, paure e speranze nel mar Mediterraneo.

Poi divago un po’ e i pensieri vanno al colonialismo e alla segregazione razziale, al razzismo istituzionalizzato di oggi e di allora. Ma non fraintendetemi, non voglio certo tracciare una linea continua tra la schiavitù nelle Americhe e le migrazioni mediterranee. Sebbene la prospettiva di paragonare questi due fenomeni sia allettante, è meglio non abbracciare una grossolana semplificazione; è un errore a cui sottrarsi per amore di conoscenza, ma anche di giustizia. Banalizzare un problema non aiuta a risolverlo, è necessario invece non accontentarsi delle apparenze e studiarlo a fondo.

Così il rapporto tra fenomeni lontani – nel tempo e nello spazio – non può essere analizzato in una prospettiva di continuità e di linearità. I rapporti causa-effetto esistono, possono essere evidenti o meno, ma l’analogia non è mai stata lo strumento prediletto dalla storiografia.

Tuttavia c’è qualcosa che persiste nel corso dei secoli e dei millenni: è la “cultura” intesa – nella sua accezione antropologica – come l’insieme di saperi, comportamenti, tecniche, abitudini e credenze condivise all’interno di un gruppo sociale. La cultura, con le sue categorie e le sue norme più o meno elastiche, è durevole – non immobile – per definizione. Basti pensare a superstizioni e religioni, a certi atteggiamenti sessisti assimilati in modo così profondo da renderli invisibili, ai carnevali e a tante altre feste, alle lingue che parliamo… La “tratta degli schiavi” è un capitolo chiuso della storia mondiale, ma si può dire lo stesso delle sue conseguenze in termini di “categorie culturali”?

Le società occidentali hanno catturato schiavi neri per secoli e secoli; una volta resa illegale questa pratica, la compravendita dei loro corpi e di quelli dei loro discendenti è continuata; poi è stata abolita la schiavitù, ma le discriminazioni verso le persone di origine africana non sono cessate. Si fa riferimento a un periodo che – al ribasso – va dal XVI secolo, con le prime grandi deportazioni dall’Africa, passando per l’abolizione della schiavitù negli USA nel 1865, con il XIII emendamento. Fino agli anni sessanta quando, con il Civil Rights Act (1964) e il Voting Rights Act (1965) viene finalmente messa fuori legge la segregazione razziale e sancita la parità di diritti per tutti i cittadini americani.

Nonostante le grandi vittorie, non è possibile cancellare secoli di storia in una manciata di decenni. Le abitudini si incarnano. Nel tempo abbiamo prodotto una “forma mentis”, un “sistema di rappresentazioni” che ha giustificato e ancora giustifica l’inferiorità degli uomini, delle donne e delle culture africane. I numerosi episodi di discriminazione subiti da persone di colore ne sono la prova brutale e lampante.

Personalmente ho riflettuto su questo tema e ho cercato di trovare un “evento emblematico” che raccontasse uno dei modi in cui si è consolidato questo pensiero – anche inconscio – che attribuisce un’inferiorità “totalizzante” alla pelle nera. Credo di averlo trovato in Spagna a Valladolid, nel 1550. Qui, un gruppo di studiosi e religiosi si riunisce per dibattere sull’umanità degli indios americani. E’ un obiettivo ambizioso quello che anima Bartolomé Las Casas, fautore della tesi per cui anch’essi hanno un’anima e devono essere trattati secondo i dettami della fede e gli insegnamenti di Nostro Signore. La disputa si conclude con un nulla di fatto, la questione non verrà chiarita, le popolazioni locali continueranno ad essere umiliate e massacrate.

Interessante è l’assenza di un dibattito simile riguardo agli schiavi neri, altri grandi vittime della colonizzazione. E’ come se nel silenzio più totale fosse stata sancita “di fatto”, per consuetudine forse, senza nemmeno un contraddittorio, la loro alterità assoluta, la loro non-umanità. Un non-detto, un implicito dalle conseguenze enormi.

RAZZISTI A CASA NOSTRA

Certo l’America della canna da zucchero e delle piantagioni di cotone ci sembra lontana, dal 1550 di strada ne abbiamo percorsa. Ma il razzismo è un fenomeno complesso, fatto di infinite sfaccettature. Pezzi frammentari di una lunga storia dimenticata. Guardando all’Italia, molti si stupiranno di scoprire tracce profonde di questo passato mai elaborato.

Il colonialismo italiano in Africa copre un arco di tempo molto significativo nella breve storia del nostro paese. Ufficialmente prende avvio con l’acquisto da parte del Governo Italiano della Baia di Assab il 10 marzo 1882 e la fondazione della Colonia di Eritrea il 1° gennaio 1890,  successivamente si mescola con le ideologie suprematiste e fasciste del Ventennio nella campagna di Etiopia (1935-36), per concludersi con i Trattati di pace di Parigi del 1947, che tolsero all’Italia le sue colonie (Etiopia, Eritrea, Libia), ad eccezione di un breve mandato fiduciario sulla Somalia che durò fino al 1950.

A fatica io stessa ripercorro questa storia e la sua violenza. Difficilmente ricordiamo o studiamo nelle scuole che le leggi razziali arrivarono in Italia prima della guerra, e non furono solo quelle contro gli ebrei del 1938. Nel ’35 la legge autorizzò il lavoro forzato dei neri nelle colonie d’oltremare e sancì lo status giuridico “speciale” dei figli meticci di uomini italiani e donne africane. Nel ’37 venne legalizzata l’apartheid dei cittadini etiopi, a cui era impedito di risiedere in specifiche aree delle proprie città o persino di frequentarle. La ferocia del colonialismo italiano è stata studiata e documentata ed è ormai comprovata grazie al lavoro di molti storici e giornalisti: basta pensare all’uso pionieristico di armi chimiche, ai massacri nei luoghi di culto in Etiopia o ai campi di sterminio in Libia.

Oggigiorno i più sono consapevoli di tutto ciò, eppure continuiamo a pensare che il razzismo in Italia sia un fenomeno recente, recentissimo. E così restiamo fermi, incapaci di fare i conti con il nostro “piccolo” passato coloniale, incastrati nel mito degli “italiani brava gente”, analizzato con tenacia da Angelo Del Boca.

Per fortuna c’è sempre più fermento attorno a questi temi. Le università organizzano convegni e seminari, Igiaba Scego propone una bellissima rassegna delle recenti proposte editoriali, Wu Ming 2 e amici performano atti di resistenza creativa per eliminare dalle nostre città la toponomastica fascista e razzista, molti documentaristi ne parlano, i movimenti sociali se ne interessano.

Affrontare la rimozione di questo passato recente significa voltarsi indietro. Non per tracciare paragoni e fare forzature, ma per leggere il presente, ragionando insieme sulle origini delle nostre categorie culturali.

Questo processo è importante per navigare in tempi bui, per fronteggiare la marea di razzismo e di odio che ci sta portando alla deriva. L’antica, la vecchia Italia è ormai affetta da una sorta di demenza senile; tuttavia basterebbe guardare sotto i tappeti, grattare le incrostazioni di smog dai muri della capitale per permettere ai ricordi di riaffiorare.

ETNOGRAFIA DI UNA LEZIONE DI ITALIANO

La complessità di questo fenomeno è solo una delle difficoltà che abbiamo dovuto fronteggiare una volta deciso di confrontarci in classe su questi temi. La nostra è una scuola d’italiano attiva all’interno di un centro di accoglienza per richiedenti asilo: alla difficoltà linguistica si aggiunge l’eterogeneità dei paesi di provenienza degli studenti e la loro esperienza personale marcata (nel migliore dei casi) dall’attesa impaziente dei documenti, dalla solitudine per la lontananza da casa, dall’estraneità e dal rifiuto percepito nel luogo di arrivo, spesso gli studenti stessi sono stati vittime di episodi di razzismo in Italia o durante il viaggio.

Se per me il razzismo è un fatto politico e sociale, per loro è una questione tutta personale; parlarne apre al dolore, alla rabbia e alla frustrazione.

Perché allora sforzarsi, perché parlarne non solo in classe, ma di fronte a un gruppo di estranei all’interno di un Museo? Molti ragazzi non riconoscevano l’utilità di un confronto neppure tra noi e sostenevano che la scuola è fatta per imparare la lingua e le sue regole, non per discutere di questi problemi; altri erano addirittura contrari ad eventi pubblici di sensibilizzazione sui temi del razzismo e delle migrazioni.

Allora abbiamo cominciato noi insegnanti, sostenuti da un gruppetto di studenti, a mostrare – non certo a spiegare – perché secondo noi questa attività poteva avere un valore: “Aiutate noi italiani a capire le vostre esperienze, non tutti hanno la fortuna di parlare con tanti ragazzi migranti come ce l’abbiamo noi”.

Così piano piano alcuni, sempre più studenti, si sono uniti al gruppo dei “favorevoli”. “Gli italiani e gli africani devono imparare a conoscersi”, “l’incontro crea ponti e elimina gli stereotipi”, “sono intervenuto ad un incontro di Amnesty e ho conosciuto tante persone simpatiche”, “possiamo dire cose belle sui nostri paesi”, “così mettiamo un mattone per costruire una casa di amicizia che ci protegga dal razzismo”. Nel corso di un piccolo viaggio durato un paio di lezioni, abbiamo cominciato a parlare e poi a scrivere di razzismo, concentrandoci in particolare sullo sguardo altrui, sull’accoglienza o dis-accoglienza percepita.

Alcuni ragazzi hanno cercato di definire il razzismo nei suoi aspetti più freddi, giuridici o sociologici. Tanti hanno parlato del razzismo in Italia: la gente che si alza sul tram, le signore che stringono a sé la borsetta, le occhiatacce e i commenti razzisti per la strada, la paura di essere vittima di uno di quegli episodi di violenza di cui parlano spesso i telegiornali. Chi ha additato l’odio, chi la paura.

Chi crede che i paesi africani siano molto più accoglienti dei nostri nonostante la maggiore povertà; chi invece è preoccupato per una sorta di “effetto boomerang” per cui le vittime di razzismo sviluppano un atteggiamento aggressivo e intollerante a loro volta, allontanando sempre più i popoli e le persone. Qualcuno ha parlato del passato coloniale. Altri della diffusione del razzismo anche fuori dall’Italia e dall’Europa. C’è chi ha raccontato esperienze personali, chi ha scelto di non farlo. La metafora della casa è rimasta come linea guida: abbiamo immaginato di costruire una casa contro il razzismo, piano piano, con le nostre mani e le nostre voci, un mattone alla volta.

L’INCONTRO

Questo è il percorso personale, collettivo e didattico che mi ha portato al MAXXI, il 27 marzo 2018, insieme a un gruppo di studenti richiedenti asilo.

Il gruppo di lavoro di Art Clicks, di cui faccio parte, ci ha accolto con calore e rispetto; noi eravamo emozionati e un po’ titubanti. Accanto avevamo anche altri ragazzi migranti, minori non accompagnati presi in carico da Civico Zero e dal Centro Astalli, che avevano svolto un lavoro simile al nostro durante le loro attività.

La tensione si è affievolita di fronte all’opera di Kara Walker, in cerchio lo sguardo si muoveva veloce tra la galleria del museo, i narratori – non solo migranti ma anche storici dell’arte, educatori, artisti – e tutti gli altri partecipanti. Abbiamo parlato in tanti, italiani e stranieri, ciascuno ha raccontato qualcosa dell’opera d’arte dal proprio punto di vista; ragazzi in visita scolastica si fermavano ad ascoltare.

Mi è sembrato un momento di grande libertà comunicativa ritagliato all’interno della sfera pubblica, in cui la differenza di linguaggi e di mezzi espressivi era non solo accettata, ma valorizzata e trasformata in uno strumento per “accorciare le distanze”.

Foto di Morteza Hosseini
Foto di Morteza Hosseini

La giornata è proseguita con una visita al Museo Etrusco di Villa Giulia. Il direttore, Valentino Nizzo, ci ha accolto mostrandoci una statuetta votiva raffigurante Enea con in spalla il padre Anchise, in fuga da Troia.

Con questo gesto ha voluto ricordare le mitiche origini di Roma, fondata da profughi in fuga dall’Asia Minore, approdati dopo molte peripezie sulle fertili coste del Lazio. Ha poi delineato la vastità delle rotte commerciali, delle relazioni e delle influenze che intercorrevano tra popoli italici e il resto del Mediterraneo, spingendosi ben oltre le coste e il deserto, fino al cuore del continente africano. Noi ci siamo divertiti a rintracciare immagini che ci ricordassero l’Africa negli antichi reperti del Museo.

Foto di Morteza Hosseini

 

 

Non so dire con certezza che cosa abbiano imparato o quali conclusioni abbiano tratto da questa esperienza gli altri partecipanti. La mia sensazione è che abbia alimentato la curiosità e – almeno momentaneamente – la speranza. Tutti quelli con cui ho parlato hanno affermato di essere soddisfatti dell’esperienza vissuta. “Scambiare idee”, “trovare solidarietà e accoglienza parlando con altre persone”, “l’importanza della storia da ricordare per noi stessi e per le generazioni future”, “sapere che ci sono persone pronte ad ascoltare”, sono alcune delle considerazioni fatte dagli studenti.

Personalmente, credo che le istituzioni scolastiche e culturali siano strumenti privilegiati di trasmissione dei valori e della cultura dominante, e insieme luoghi centrali per rinegoziare e mettere in discussione quegli stessi saperi. Le scuole e musei possono veramente fare tanto per favorire un tipo di incontro molto peculiare, orientato all’ascolto e alla fiducia: veri e propri spazi di libertà comunicativa e conoscitiva che gli esperti di studi interculturali amano chiamare “zone di contatto”, riprendendo un’espressione coniata dall’antropologo statunitense James Clifford (1997).

Sono perciò convinta che l’utilizzo di linguaggi non convenzionali, la natura sociale di questi spazi, il clima di confidenza e di prossimità che si crea a scuola o davanti a un’opera d’arte siano risorse preziose e necessarie. Da custodire, potenziare e difendere con tenacia e intelligenza.

Mediateca

Il sito di Kara Walker

ArtClicks - MAXXI

Un laboratorio formativo e di progettazione partecipata sul tema del dialogo interculturale

CivicoZero

Un centro che, a Roma, interviene in favore di minori migranti e non, tra i 12 e i 18 anni

Centro Astalli

Servizio dei Gesuiti per i rifugiati in Italia

MAXXI

Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma