Portogallo, al voto senza sovranismi

di

4 Ottobre 2019

Se la narrazione dominante in Europa ha delle zone d’ombra, è importante come la politica non speculi sulle migrazioni

Il prossimo 6 ottobre il Portogallo va alle urne per rinnovare il Parlamento. Si chiude così una legislatura iniziata nell’autunno del 2015 con una vittoria risicata della destra, insufficiente a darle una solida maggioranza parlamentare, seguita dal patto delle sinistre che diede la Presidenza del Consiglio al socialista António Costa.

Per quattro anni Costa ha governato sulla base di quell’accordo che, in cambio di un programma economico contrario alla vecchia austerità, gli ha garantito l’appoggio esterno dei partiti alla sua sinistra.

In realtà il premier è stato molto abile nel servirsi anche dei voti (o dell’astensione) della destra quando i compagni non gli lasciavano passare certe misure, si veda la riforma della legge sul lavoro o il “black out” delle progressioni di carriera per i professori.

È stata infatti una politica di apertura al sociale, ma non senza un austero, a tratti doloroso, controllo della spesa pubblica affidato al Ministro delle Finanze, Mário Centeno (nel frattempo nominato anche presidente dell’Eurogruppo).

Il successo di questo esperimento governativo è risultato, all’estero, quasi indiscusso, con lodi più e meno caute da parte di tutta la stampa internazionale. In casa gli entusiasmi non mancano, ma sembrano più freddini. Contrariamente a certe previsioni, infatti, l’alleanza non pare aver sfiancato la sinistra radicale né, stando agli ultimissimi sondaggi, avrebbe stracciato gli avversari di destra. Sebbene dunque il primo posto sembri garantito, i socialisti potrebbero ancora aver bisogno di alleanze. Dove andranno a cercarsele?

A sinistra circola da tempo una battuta, dice che i socialisti sono come i bambini, non li si può lasciare soli in casa.

Perciò sia il Blocco di sinistra che il Partito comunista fanno appello a un voto che permetta loro di vigilare per altri quattro anni sull’operato del governo. L’altro partito che aveva firmato un accordo di legislatura con il Ps è il Pev, ossia i verdi.

Ma i verdi portoghesi sono bambini che non hanno mai imparato a camminare da soli: da sempre si presentano in coalizione (su liste bloccate) con i comunisti e da sempre risultano appiattiti sull’alleato più forte. Tanto è vero che non saranno probabilmente loro a surfare l’ “onda verde” che sta attraversando l’Europa. La vera novità, su questo fronte, è il Pan.

Del Pan i critici più cattivi dicono sia il partito di chi posta gattini sui social network. Alieno alla storia dei verdi europei ed emblema di una sorta di naturismo post-ideologico, fu fondato una decina di anni fa come Partito degli Animali e della Natura.

Più di recente hanno pensato bene di cambiargli il nome in Persone Animali Natura: l’acronimo restava uguale, ma correggeva il tiro di un movimento così esclusivamente animalista da dimenticarsi della famosa “gente”. Nel Parlamento cessante aveva un deputato, André Silva, che spesso si è allineato al voto della maggioranza di sinistra, ma ha saputo anche distinguersi per iniziative autonome capaci di una certa ripercussione politico-mediatica, come quelle sull’obbligo dell’alternativa vegetariana nelle mense scolastiche, oppure nell’eterna lotta degli animalisti iberici contro la corrida, puntando il dito ai vantaggi fiscali dei toreri lusitani.
Alle recenti Europee il Pan ha eletto un eurodeputato e ha quasi triplicato i voti, soprattutto fra i giovanissimi. Stavolta il risultato potrebbe essere tale che a Costa, per governare, basterebbe il sostegno degli animalisti. Eventualità temuta a sinistra dove, paradossalmente, si potrebbe beneficiare dell’inattesa rimonta della destra.

Popolari e socialdemocratci (il nome non inganni: anche questi ultimi appartengono al gruppo dei popolari europei) avevano governato tra il 2011 e il 2015, durante l’intervento della troika. Poi, per una buona parte di questa legislatura, hanno puntato tutto su un secondo disastro finanziario per tornare al potere. La crescita del Pil e la capacità dimostrata dai socialisti di stare con un piede nelle politiche redistributive e un altro nei patti con l’UE li ha spiazzati, spingendoli a rincorrere la sinistra radicale nella critica alle carenze di servizi e diritti di base (salute, scuola, trasporti, casa), strozzati dalla severa spending review di Centeno e dalla liberalizzazione dei mercati di cui, però, sono sempre stati i paladini. Infatti è un terreno su cui risultano fatalmente meno credibili.

A merito di questa destra istituzionale va però ascritto il rifiuto, finora, di cavalcare i cavalli di battaglia dell’attuale populismo e sovranismo europeo: giustizialismo, xenofobia, eurofobia.

Dunque scarso allarme immigrazione e nessuna minaccia di “exit” (più popolare a sinistra e messa in questi anni fra parentesi proprio grazie all’accordo con Costa). Il leader del Psd, l’ex sindaco di Oporto, Rui Rio, ha attraversato la campagna elettorale con una souplesse sportiva degna del barone de Coubertin, provocando più malessere in casa che fra gli avversari. E i sondaggi degli ultimi giorni sono stati ballerini, mostrando un distacco dal Ps oscillante fra i quindici e i sette punti percentuali.

La rimonta potrebbe essere solo umorale e passeggera, di certo dipende da un paio di inciampi giudiziari nel governo. Prima lo scandalo sull’acquisto di equipaggiamento per i pompieri (tema delicatissimo in un Paese che solo due anni fa piangeva oltre cento morti nei roghi estivi) ha obbligato alle dimissioni il sottosegretario alla Protezione civile. Poi la caduta definitiva dell’ex Ministro della Difesa, il quale risponderà probabilmente in tribunale per il misterioso furto di armi da una polveriera, in seguito restituite con una goffissima azione coperta da strani depistaggi e indagini parallele non autorizzate.

Ogni imbarazzo socialista è musica per le orecchie di quella sinistra che punta a rinnovare l’accordo, ma non è da escludere neppure che Costa decida di spostarsi, a sorpresa, verso un “grande centro”, purché alla sua destra trovi alleati né troppo forti da fargli ombra, né troppo deboli da risultare inutili. La resistenza di questa destra più abbottonata potrebbe essere utile anche alla conservazione di un’altra eccezione portoghese, forse la più importante: l’assenza dalla scena politica parlamentare di fascismi e sovranismi aggressivi.

Oltre l’arco costituzionale, intanto, resta in agguato un’altra sinistra e un’altra destra, tutte variegate e intente a occupare eventuali spazi vuoti.

A sinistra ci sono un paio di fuorusciti del Blocco delle sinistre, fra cui spicca il Livre (“libero”) dell’ex eurodeputato Rui Tavares, che ha sempre predicato la necessità del dialogo con i socialisti, ma ha sbagliato il timing per sbattere la porta e fondare un suo piccolo partito proprio quando il Blocco cominciava a dialogare.

A destra, invece, si va dalle solite sigle di chi chiede carcere duro, pene di morte e schedature razziali, a quelli che presentano programmi piuttosto simili alla destra istituzionale: Iniciativa liberal, per esempio, propone la detassazione di tutto e proclama il “si salvi chi può” generale; mentre Aliança sin dal nome cerca interstizi in cui infilarsi a caccia di alleanze inedite. A fondarlo, solo qualche mese fa, è stato Pedro Santana Lopes, un ex socialdemocratico che vanta una decennale carriera un po’ ovunque (dalla Presidenza del Consiglio alle squadre di calcio) e ha perso la corsa con Rui Rio alla segreteria del partito.

Atteso al varco anche il Partito democratico repubblicano, forse il caso più esemplare di quello che i portoghesi chiamano scherzosamente “utero in affitto”, cioè quel tipo di partito quasi inesistente, ma utile alla candidatura di questa o quella star politica in ascesa. Quattro anni fa portò a Strasburgo l’avvocato Marinho e Pinto, noto per le sue accese partecipazioni televisive a dibattiti sulla cronaca giudiziaria più scottante.

Oggi il Pdr fa da incubatrice a Pardal Henriques, un altro avvocato, ma camionista convertito, perché ha astutamente preparato il suo cursus honorum iscrivendosi in un sindacato di trasportatori di merce pericolosa (per intenderci, sono quelli che riforniscono i benzinai), di cui è stato vicepresidente e ispiratore di una breve ma intensa stagione di scioperi che ha spinto per ben due volte il Paese sull’orlo di una grave crisi energetica. Negli ultimi mesi l’avvocato camionista ha conquistato prime pagine e telecamere, obbligando il governo a precettazioni sul filo dell’incostituzionalità e dettando l’agenda al resto dei partiti di sinistra, che sul tema dei salari e del diritto di sciopero si sono ritrovati a far da gregari.

Per tutti costoro i sondaggi hanno finora registrato percentuali quasi irrilevanti. Restano strategie in utero da ridiscutere magari lunedì mattina.