Portogallo, il lato oscuro dell’agricoltura

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19 Maggio 2021

Un focolaio Covid ha portato all’attenzione dei media lusitani le condizioni dei braccianti immigrati

Lo scorso 7 maggio, al Porto Social Summit, il Presidente del consiglio europeo Charles Michel, nel suo discorso inaugurale, faceva la solita citazione dotta e piaciona che i politici europei usano prendere dalla cultura del Paese in cui si trovano a parlare in quel momento.

Michel aveva scelto Grândola Vila Morena, la canzone di José Afonso che nel 1974 fu usata come parola d’ordine per dare inizio alle operazioni militari che avrebbero portato alla caduta della dittatura. “In ogni angolo un amico, in ogni volto l’uguaglianza”, dice la canzone che ha nel titolo la cittadina di Grândola, nella regione meridionale dell’Alentejo, terra di latifondo e di lotte contadine per tutto il ‘900.

Chissà se Michel era stato informato di quanto accadeva proprio in quei giorni pochi chilometri a sud di Grândola, nelle campagne di Odemira, cittadina incastonata fra un’ampia porzione di quell’antico latifondo e uno dei tratti di costa più belli d’Europa.

Sul fronte Covid-19, con lo scivolone di Natale, un inverno in cui si sono toccate vette di oltre 16mila contagi e centinaia di decessi al giorno e dopo un nuovo lockdown molto severo, per il Portogallo pare sia iniziato un periodo di riapertura che si spera definitiva, speranza confortata anche da una discreta campagna vaccinale.

Eppure, proprio una parte della provincia di Odemira era stata dichiarata zona rossa. Il motivo: alcuni focolai fra i braccianti della zona.

Così il virus ha avuto lo strano merito di far scoprire ai portoghesi le condizioni di vita di migliaia di immigrati, soprattutto asiatici, che con il loro lavoro tengono in vita uno dei settori più forti dell’export lusitano. Se nei supermercati di Milano, Amsterdam o Berlino vi capita di trovare gelsi, lamponi e mirtilli freschi, date un’occhiata all’etichetta. Molto probabilmente vengono da quelle enormi distese di serre dell’ “oltretago”: l’Alentejo, appunto.

È un vasto territorio che Salazar aveva eletto a granaio della nazione e trovava la sua manodopera a basso costo nei braccianti locali, poveri e privi di diritti. Dopo i tentativi falliti di riforma agraria e una difficoltosa ripresa negli anni dell’ingresso del paese nella CEE, quando spesso e volentieri si finanziava la dismissione dell’attività agricola, oggi questa regione ospita centinaia di imprese piccole, medie e grandi e pare aver ritrovato la sua vocazione, il richiamo della terra.

Peccato che tutto ciò si stia ripetendo con altra manodopera non più locale, ma altrettanto povera e priva di diritti.

Vengono sia dall’est europeo (Romania, Bulgaria, Ucraina), sia dall’oriente più lontano (soprattutto India, Nepal, Tailandia). Pagano per il viaggio, pagano per lavorare, pagano per avere un tetto, un letto e non sempre un bagno. E generano un volume d’affari che ha persino distolto la regione dall’altra sua grande vocazione, quella turistica.

Con un turismo spesso “troppo” attento all’ecosostenibilità, all’interno di una vasta area protetta, molti si sono riversati sull’affitto sicuro tutto l’anno (e spesso rigorosamente in nero) a questi lavoratori silenziosi e poco esigenti che hanno continuato a rifornire di frutta e verdura i supermercati nazionali e stranieri anche in piena pandemia.

Iniziato una ventina d’anni fa, questo flusso migratorio ha visto un’impennata dal 2017, anno in cui una nuova legge, elaborata dal governo socialista con i partiti alla sua sinistra, facilitava l’ingresso ai lavoratori stranieri.

Le intenzioni erano le migliori, ma tutto il resto rimaneva nelle mani, nel migliore dei casi, delle multinazionali del lavoro interinale, mentre la magistratura portoghese continua a indagare sul possibile coinvolgimento delle mafie del reclutamento, che per dieci o quindicimila euro possono catapultare dall’Oceano Indiano all’Atlantico migliaia di lavoratori disposti a tutto pur di trovare il loro buco d’accesso in Europa.

I risultati, ora che a Odemira i bar devono restare chiusi mentre nel resto del Paese riaprono, sono arrivati fino ai tg di prima serata: villette immerse nel verde, forse un tempo dotate di quel decoro modesto e borghese, ora abitate da trenta o quaranta persone, sei per stanza in letti a castello, servizi senza acqua calda e docce fatte a secchiate. Intorno a questi nuclei fiorisce tutto un sottobosco di agenzie immobiliari, società di consulenza e piccolo commercio locale spesso alternativo al commercio tradizionale, dove invece si mugugna.

Ma a mettere altra legna al fuoco delle polemiche ci ha pensato il ministero degli Interni. Per ridistribuire una trentina di persone da tenere in isolamento ha deciso di confiscare un ostello della gioventù e un villaggio turistico privato, nato proprio come oasi di turismo ecosostenibile (con tanto di aiuti di stato da parte dell’agenzia governativa per il turismo e l’investimento) e fallito circa un paio di mesi fa.

Qui, nei giorni scorsi, la polizia ha fatto irruzione all’alba scatenando le proteste dei proprietari (certi lotti di terreno erano stati nel frattempo venduti o ceduti in affitto), i quali avevano già fatto ricorso contro la confisca del governo.

Le proteste finora, eccetto qualche tentativo di strumentalizzazione di una certa parte politica, sono rimaste nei limiti della civiltà e non hanno sparato nel mucchio della “piaga” dell’immigrazione.

In una regione che tradizionalmente vota a sinistra, sarà interessante vedere come oscillerà il voto nelle amministrative del prossimo autunno. Volendo peccare d’idealismo si può forse sperare che, dalle parti di Grândola, ci sia ancora gente disposta a vedere “in ogni angolo un amico, in ogni volto l’uguaglianza”. Se non altro quando si fa impossibile continuare a fingere di non vedere.