Ricordati di santificare le feste

di

20 Novembre 2020

Di 4 novembre e martiri della Patria, della Chiesa e della scuola

Mettiamo che qualcuno vi racconti questa storia: «Sai che sono insegnante per il sostegno in questo liceo classico del milanese. Ecco, sai che siamo in dad da qualche settimana. Bene, l’altro giorno – era il 4 novembre – mentre ero lì seduta in casa mia ad assistere a una lezione virtuale di greco, dall’audio proveniente dal riquadro della collega sento fuori campo la voce rauca dalla forte intonazione milanese di un uomo che dice: “Ah, vedi! Sto ricevendo tantissimi auguri per il mio onomastico perché oggi è san Carlo!”.

Nella classe virtuale parte un mormorio: sono le studentesse e gli studenti che prima sorridono divertiti dell’intrusione e poi iniziano ad offrire i loro auguri alla persona che ancora non si vede ma che evidentemente si sente e abita il riquadro della lezione insieme alla collega.

Qualcuno ha dimenticato il microfono accesso mentre dice: “No raga, però. Pure gli onomastici no! Ma che vuol dire farsi fare gli auguri per il nome?!”.

Intanto, a lato della collega seduta, accompagnate dal suono di pantofole trascinate per casa, spuntano due gambe e mi accorgo che è da loro che proviene il fuori campo, ormai diventato a tutti gli effetti un “dentro il campo” – tutto questo mentre io mi domando: ma non c’è una normativa sulla privacy per la dad che dice che nessuno eccetto gli autorizzati può intervenire in una lezione scolastica virtuale soprattutto in presenza di minorenni e senza l’autorizzazione dei genitori? Va bene, scusa la divagazione, mi sono distratta. Dicevo, le gambe riprendono, rivolte alla collega, evidentemente la moglie: “Lasciami dire una cosa importante a questi ragazzi. – E rivolte ora espressamente agli studenti, quindi mio malgrado, anche a me – Ragazzi, vi dico questa cosa importante perché i governanti e le istituzioni non ne parlano più e sono persone senza … senza … Oggi è il 4 novembre, e oltre ad essere san Carlo, è anche e soprattutto la giornata della gloriosa vittoria dell’Italia: Contro a te già s’infranse il nemico, / che all’Italia tendeva lo sguardo: / non si passa un cotal baluardo, / bla bla bla.” (Forse non era La Canzone del Grappa ma di sicuro l’impeto lirico era il medesimo).

 

Tratto dal sito "1418 documenti e immagini della Grande Guerre"

 

E mentre la collega raccoglie le fila tutte imbrogliate del discorso, mi accorgo che gli studenti hanno assunto, chi più chi meno, un’espressione assai interrogativa, ad alcuni scappa una mezza risata subito autocensurata, ma la maggior parte semplicemente è disorientata. E io? Lo ammetto, non ho avuto la prontezza di reagire. Ma nella mia testa immediatamente si sono prodotte molte immagini e molte domande. Sarà stata la raucedine unita al tono declamatorio e patetico della voce autrice dell’invasione di campo, ma le ho immediatamente associato il volto e le fattezze di Ignazio La Russa [Nota alla narrazione: Ignazio La Russa attuale vicepresidente del Senato, eletto nelle fila dei Fratelli d’Italia (!), qui citato quale ex ministro della Difesa nel governo Berlusconi IV e principale sostenitore, alla vigilia del 150° dell’Unità, della reintroduzione del 4 novembre, Giornata dell’Unità nazionale e delle Forze Armate, come festività nazionale nel calendario civile della Repubblica].

A quel punto ho avuto giusto il tempo di vedermi riflessa nello schermo per notare, quando era ormai troppo tardi per ritrarle, che le mie mani avevano preso ad agitarsi e mulinare autonomamente in quel gesto “molto italiano” che verbalizzato sarebbe suonato una cosa del tipo: “Se vabbè, eccolo là! Ma che veramente? Esaltiamo la guerra del ‘15-‘18 a valore della vita di 21 quindicenni del 2020?! Che poi guardali, di possibili discendenti diretti e puri di quella italianità “sancarloborromea” e nazionalpatriottica se ne contano sì e no sulla dita di una mano a fronte di una molteplicità di studenti di origini regionali e extraregionali, provenienze e confessioni religiose diverse?!”.

Insieme alla faccia di La Russa, infatti, il mio cervello ha registrato l’espressione interrogativa proveniente dai 21 riquadri dei membri della classe, espressione di disorientamento comune che ha a sua volta acceso una serie di domande cui non sono riuscita ancora a dare risposta: ma cosa stanno pensando ora queste ragazze e ragazzi? Cosa evoca nella loro testa quel verso declamato e quell’espressione “gloriosa vittoria”?».

 

Tratto dal sito "1418 documenti e immagini della Grande Guerre"

 

Mettiamo ora che il racconto sia finito e che la persona si aspetti da voi una reazione magari consolatoria, che allevi l’impressione di avversione e ribrezzo comunicata dal suo volto e dal suo tono di voce. E invece di una risposta mitigatrice che riporti la storia nella sua dimensione di eccezione episodica, vi vengono in mente i dettagli di un evento vero, accaduto, talmente vero e accaduto da essere già finito su tutti i giornali, documentato da un testo che nelle sue parti più significative suona così:

«Agli studenti delle scuole marchigiane. In questo giorno il nostro reverente pensiero va a tutti i figli d’Italia che dettero la loro vita per la Patria, una gioventù che andò al fronte e là vi rimase […] consapevoli che ‘Un uomo è vero uomo se è martire delle sue idee. Non solo le confessa e le professa, ma le attesta, le prova e le realizza’. Combatterono per dare un senso alla vita, alla vita di tutti, comunque essi la pensino. […] per questo ricordando i loro nomi sentiamo rispondere, come nelle trincee della Grande Guerra all’appello serale del comandante: PRESENTE!»

Si tratta della comunicazione che il 4 novembre 2020 Marco Ugo Filisetti, direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale delle Marche, ha fatto pervenire alle scuole secondarie di secondo grado della regione. Avreste voluto dire che state citando a memoria le parole di un documento storico delle strategie propagandistiche e culturali in uso nell’era fascista: di come, cioè, il regime si impegnasse a far aderire anche i più piccoli e i più giovani al patriottismo e al nazionalismo militaristi, al sentimento del sangue e del suolo, alla religione del sacrificio e del martirio.

Di come il regime permeasse la vita degli italiani di quel Ventennio, fin dall’educazione e dalla scolarizzazione dei più piccoli come avamposti al più generale progetto guerrafondaio: educare i giovani oggi per essere sicuri di averli mobilitati come leve nella guerra domani. E invece no. Quel documento non è un esempio di laboratorio sulle fonti per la storia contemporanea all’interno di un percorso interdisciplinare dell’appena reintrodotta Educazione civica.

Il suo autore non è il direttore-camicia nera di una scuola marchigiana che negli anni Trenta invita i suoi giovani-studenti-balilla a festeggiare romanamente l’Anniversario della Vittoria. La sua iniziativa non è stata imposta da un codice educativo di regime ma da una personale elaborazione della memoria storica del Primo conflitto mondiale di stampo nazionalista e di piglio fascista e volitivo. 

 

Tratto dal sito 1418 documenti e immagini della Grande Guerre

 

È così che, in un attimo, il racconto bizzarro sull’intrusione della voce larussiana, di san Carlo Borromeo e del monte Grappa nella classe di greco durante una pandemia globale nell’autunno del 2020, assume i contorni del fatto reale, l’immaginata insegnante per il sostegno che lo aveva riportato diventa una persona in carne e ossa e una luce sinistra accende di imbarazzante realtà un certo “approccio storiografico” ancora in uso nel discorso pubblico italiano.

È quindi tutto vero, vero e possibile che si affronti un tema come quello del 4 novembre, la sua storia come data nella storia italiana e mondiale, e come data nella storia della costruzione del calendario delle festività civili del Paese con la pura, semplice e altisonante riproposizione di una retorica nazional-patriottica sempre uguale da circa (o almeno) un centinaio di anni.

Dal 1919 con le prime celebrazioni della “grande vittoria” come esito della Quarta guerra d’Indipendenza – così il Regno d’Italia declina il Primo conflitto mondiale a soddisfazione delle proprie mire irredentiste; al 1921 con l’oceanica cerimonia di incastonatura nell’Altare della Patria della salma del Milite Ignoto. Fino al 1922 e avanti per vent’anni quando, su quello e sugli altri milioni di cadaveri della Grande guerra, si fionda la rapacità della mitografia bellicista e sanguinolenta dell’era fascista e si ritualizzano lo spirito e l’azione delle guerre future.

 

Tratto dal sito 1418 documenti e immagini della Grande Guerre

 

Il commento più appropriato e che ben sintetizza l’inopportunità dell’accaduto è quello prodotto da un gruppo di docenti di storia delle università marchigiane – un gruppo folto anche se non foltissimo e soprattutto assai geolocalizzato a fronte di una questione che se non altro per le sue evocazioni ha chiaramente un carattere nazionale e avrebbe ben goduto dell’adesione di quante e quanti più studiose/i, ricercatrici e ricercatori, storiche e storici italiani possibile.

«Ora – scrivono questi nel commento a Filisetti – come il lavoro di alcune generazioni di storici ha dimostrato, la partecipazione alla Grande guerra è stata anche espressione di idealità di varia origine, tutte accomunate però dalla convinzione che la guerra rappresentasse la soluzione ai mali del presente. E ha indubbiamente svolto un ruolo importante nella nostra storia nazionale. Ma, ciò non toglie che sia del tutto fuori luogo ogni retorica della “bella morte” di fronte a una tragedia pagata con la perdita di circa 10 milioni di giovani, con un numero ancora maggiore di feriti, con milioni di mutilati e centinaia di migliaia di giovani impazziti o sfigurati.»

La retorica della “bella morte”, infatti, è ciò che fa dell’intervento nel corso della lezione di greco di un ginnasio milanese e di quello del direttore dell’Ufficio scolastico regionale delle Marche due esempi inquietanti di quello che resta, a più di 100 anni dai fatti, della narrazione storica del Primo conflitto mondiale. Quasi nulla, soprattutto se si guarda agli esiti di quelle ricerche evocate nella risposta degli storici marchigiani.

A permanere e permeare il discorso su quegli eventi della storia italiana e mondiale sono lo stile e il dizionario retorico, il modello rituale e l’aura sacrale della “bella morte” tali e quali sono stati prodotti dall’interventismo prima e riprodotti fino al parossismo dal regime fascista poi. Lo dimostra il fatto che anche il 4 novembre 2020 non viene sottratto a una tale evocazione. Non importa cosa stia accadendo lì fuori, è sempre un giorno utile per ricordare e riproporre a degli adolescenti nel pieno della loro funzione di studenti di tenersi ben saldi al credo del martirio per la Patria e di una grande vittoria anche quando le loro facce esprimono chiaramente il dubbio e il disorientamento di chi non ha ben chiaro di quale vittoria e di quali martiri si stia parlando: che san Carlo Borromeo abbia vinto pure una guerra?

 

Tratto dall'Archivio Luce

 

Ed è proprio questo il punto: cosa arriva a questi adolescenti-studenti del 2020 di queste invocazioni, evocazioni, inviti all’emulazione a dirsi pronti alla “bella morte”? Il messaggio di Filisetti – ricco di citazioni da D’Annunzio a Gentile e inequivocabile per chi mastica la materia di cui esse sono fatte – a chi parla?

O meglio, a chi crede di parlare? Cosa sanno e cosa vogliono saperne gli studenti delle superiori marchigiani e italiani di quell’appello cui si deve rispondere “PRESENTE” tutto in caps lock, della sua monumentalizzazione fascista nel sacrario militare di Redipuglia, davanti al quale il soldato-poeta Ungaretti, tornatovi nel ’66, scuote la testa e redarguisce con disprezzo quelli che: «Li hanno messi in fila anche dopo morti…»? Se, come scrivono gli storici in risposta a Filisetti, riferendosi ai giovani del 1915, è «difficile […] augurare a un ventenne di affrontare quell’inferno», quanto è allora più difficile, inutile e fuori luogo farlo da autorità scolastica nei confronti di adolescenti di oggi?

Che sia fuori luogo sembrano dirlo anche le richieste di chiarimento pervenute all’Ufficio scolastico delle Marche da parte di alcune famiglie scandalizzate dall’episodio; lo dice poi, ma solo in seconda battuta, il ministero; l’annunciata interrogazione parlamentare di LEU e, ovviamente, la lettera degli storici marchigiani già citata.

Eppure, se si guarda alla grande vocazione di questo Paese e delle sue istituzioni per la celebrazione della morte e della santificazione dei diversi martiri di tutti i tempi, sembra invece tutto in tono con la gestione istituzionale dei momenti di difficoltà della nazione. Basti pensare alla retorica che in questi ultimi mesi di crisi sanitaria, sociale ed economica si è nutrita e rinnovata – forse sarebbe meglio dire “restaurata” –  di eroi, martiri e sacrifici a partire proprio dagli eventi della pandemia.

Basti pensare alle analogie discorsive, retoriche e rituali che caratterizzano le incombenze pubbliche del presidente della Repubblica di questi tempi: la deposizione della corona di fiori con le altre massime cariche dello Stato all’Altare della Patria proprio il 4 novembre; la visita a Brescia al cimitero di Castagneto per commemorare le vittime del Covid-19; pochi mesi prima la cerimonia funebre a Bergamo per le vittime del Coronavirus. Tanto per citarne solo alcune.

 

Tratto dall'Archivio Luce

 

In tutte si ritrovano gli stessi elementi costitutivi: l’assegnazione di medaglie alle città-martiri; la deposizione delle corone di fiori; l’edificazione di sacrari e memoriali dei caduti delle guerre di ieri e di oggi – sono mesi che ci dicono che contro la pandemia è in atto una guerra; l’istituzione di giornate commemorative delle vittime di queste guerre prima ancora di aver metabolizzato e ragionato sul perché siano morte (e se si poteva evitare e se la guerra sia davvero finita). Tutti insieme, questi elementi, sembrano essere l’unica modalità retorica e rituale – quindi, politica – attraverso la quale si tratta il passato nel presente e si metabolizza il presente attraverso il passato.

La storia marmorizzata e commemorata è una storia semplificata perché appiattita e condensata in quegli elementi retorici, emotivi e rituali che tolgono terreno alla possibilità di affrontarla con gli strumenti della documentazione storica, dell’interpretazione critica e del dibattito informato. Lasciando spazio a fiori, inni, strette di mano, vibranti invocazioni, rombanti aerei militari sfreccianti tricolori nei cieli azzurro-Italia.

Il commento e la presa di parola degli storici marchigiani – ma non degli insegnanti di storia della scuola pubblica (marchigiana e italiana) – smontano il messaggio del provveditore-podestà proprio nelle unità retoriche militariste, superomiste e fasciste di base di cui si è detto fin qui. Allo stesso tempo, però, rendono anche evidenti due questioni rimaste sotto la cenere dei fuochi istantanei della disapprovazione generalizzata.

La prima questione è quella che riguarda il target degli episodi raccontati accaduti il 4 novembre 2020 nel micro della lezione di greco e nel macro del messaggio urbi et orbi del provveditore: i giovani, le studentesse e gli studenti, gli adolescenti italiani del 2020. Cosa, come, dove collocano gli eventi, le citazioni, i martiri santi e i martiri fanti che si chiede loro di ricordare e santificare – san Carlo come il Milite Ignoto?

La seconda questione è, poi, strettamente collegata alla prima e riguarda proprio quelle storiche e quegli storici, studiose/i, ricercatrici e ricercatori strutturati e indipendenti che si inalberano ogni volta che accadono episodi analoghi, ad ogni passo falso del revisionista o nostalgico di turno ma che per il resto del tempo, invece, mentre viene sgranato davanti agli altari e strumentalizzato nelle aule parlamentari tutto il calendario civile del Paese, restano assenti dalla scena pubblica. Quel «lavoro di alcune generazioni di storici» di cui scrivono i “marchigiani contro” non sembra infatti riuscire a superare più di tanto la soglia delle riviste accademiche, dei centri di ricerca e di studio universitari dove viene condotto ed elaborato.

Sembra arrivare poco e con molto sforzo in soccorso e a sostegno delle migliaia di insegnanti della scuola pubblica desiderosi di strumenti e metodologie che li aiutino a creare occasioni di apprendimento e riflessione sulla storia capaci di conquistare le generazioni che siedono oggi nelle aule scolastiche italiane. Troppo spesso, infatti, la presenza sulla scena pubblica del lavoro degli specialisti viene surclassata dall’egemonia editoriale e dall’ipervisibilità televisiva di personaggi pubblici, giornalisti, opinionisti che coprono con loro uscite editoriali tutte le occasioni offerte dal calendario civile e/o dalla “memoria divisa” del Paese e ora anche dagli eccessi di quella memoria. Se possibile, dividendola o distorcendola ancora di più.

È plausibile rintracciare un legame tra questi fenomeni: ovvero il generale silenzio divulgativo, formativo e didattico degli storici di professione nel discorso pubblico; il disinteresse, il disorientamento oppure l’adesione acritica dei giovani in età scolastica per la storia e per le sue implicazioni civiche nel presente; la ciclica, strumentalizzata e debordante esaltazione retorica, nazionalista, revisionista e ideologica del passato? Be’, se prendiamo gli episodi citati in questo articolo e quelli di cui si sente parlare ad ogni 25 aprile, 1° maggio, 2 giugno, 4 novembre, sembra proprio di sì.

Questo nonostante si sia aggiunto al quadro, ormai da anni, un terreno ulteriore di studi nelle scienze storiche, quello della Public History, ovvero un campo «di attività attinenti alla ricerca e alla comunicazione della storia all’esterno degli ambienti accademici». Tra gli altri obiettivi, queste studiose e questi studiosi che operano anche nelle scuole si pongono quello di contrastare «gli “abusi della storia”, ovvero le pratiche di mistificazione sul passato finalizzate alla manipolazione dell’opinione pubblica». Disseminare le conoscenze storiche e le metodologie di lavoro utili a elaborare nuovi approcci didattici e laboratoriali da utilizzare nella scuola per «avvicinar[si] al passato con rispetto, per comprenderlo dall’interno, non per esaltarlo con facile e dubbia retorica a posteriori», ecco la chiave quindi, lo dicono anche gli storici marchigiani.

Non sono gli adolescenti – martiri di certe prospettive storiche proposte anche nella scuola – a dover essere ammoniti di avvicinarsi alla storia, di sentirla propria con o senza animo patriottico. Sono le scienze storiche che dovrebbero ritornare sulla scena pubblica e cercare nei giovani i propri interlocutori, trovare nel confronto con loro i possibili approcci e strumenti di lavoro per evitare che si levi sempre quella sola invocazione: il comandamento vuoto a ricordarsi di santificare feste di cui, anche volendo, non si conosce quasi più il festeggiato.

 

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