Riportando tuttə a casa – La partita aperta del Recovery Fund

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10 Novembre 2020

Appunti di viaggio per capire struttura, contesto e sfide del Recovery Fund

Questo 2020 ci sta presentando, in maniera abbastanza dura, un mondo sociale, politico, economico, in una parola umano, che deve sapersi confrontare (e imparare a convivere) con lo “sconosciuto” e l’”incontrollabile”. Una crisi come nessun’altra fino ad ora, inedita e inaspettata è di per sé uno shock. Nella realtà, con il facile senno di poi, si sta trattando di una crisi immaginabile date le condizioni ambientali, sanitarie ed economiche in cui versa il nostro pianeta.

Ma questa è un’altra storia.

L’inaspettato in politica economica

La pandemia ci sta portando a fare cose impensabili fino a qualche mese fa e anche la politica economica sta sperimentando cose inedite. Anche in questo caso, con il facile senno di poi, immaginabili (e auspicabili) oggettivamente già da prima, da molti, e “in assenza” di uno shock così forte, come quello pandemico.

Spesso nella storia, anche economica, ci vuole una forte scossa per accelerare alcuni processi oppure per imboccare alcune direzioni piuttosto che altre. Chi avrebbe immaginato solo fino a dicembre scorso che il 3% di deficit pubblico non fosse più un tabù insuperabile, anzi.

Il nostro Paese era a rischio di procedura di infrazione per il non rispetto delle regole del Patto di Stabilità e crescita nella primavera/estate del 2019 (Patto e Fiscal Compact prevedono: tetto massimo del 3% del deficit pubblico, riduzione del debito pubblico verso la “normalità” del rapporto debito pubblico/Pil al 60%, con una traiettoria di riduzione di 5 punti l’anno, il pareggio di bilancio o l’avanzo di bilancio). Oggi, per il 2020, invece, il Governo stima un deficit pubblico del 10,8%, un debito pubblico che veleggia fiero verso il 158% e un disavanzo primario del 7% (Nota di Aggiornamento dal DEF).

Il “Recovery Fund” nasce in questo quadro, di complessivo ridisegno delle politiche economiche dell’Unione Europea ed è stata tutto sommato una bella notizia per chi ha sempre creduto nel progetto europeo “diverso dal solito”.

Alle prime lezioni di economia politica, nelle aule universitarie, si spiega (nella semplificazione del modello IS-LM) come politica fiscale e politica monetaria debbano essere coordinate per essere efficaci, ossia per aumentare redditi, produzione e occupazione.

Eppure, in Europa esiste una politica monetaria comune ma non una politica fiscale, il che ha sempre reso la zona euro una zona monetaria “eccezionale”. Così come, nelle prime lezioni di storia economica, si racconta come uno Stato (o un ordinamento giuridico simile) si autodetermina a livello economico quando accentra la imposizione fiscale, il debito pubblico, la spesa e la moneta unica.

Perciò, semplificando notevolmente, ai 19 Paesi della zona euro mancava qualcosa. E questa pandemia ha accelerato il percorso per colmare il vuoto. Vediamo di cosa si trattano questi primi passi.

 

 

Il Recovery Fund: cosa?

Il dibattito a livello europeo nei primi mesi della pandemia è stato aspro e i primi interventi per contrastare la pandemia messi in campo anche dalle istituzioni europee sono stati sicuramente importanti, tempestivi in alcuni aspetti e differenti rispetto alle crisi precedenti.

Li ricordiamo per brevità:

  • Quantitative easing pandemico per 1350 miliardi (il cosiddetto “PEPP”), circa 100 miliardi al mese di acquisti straordinari di bond sul mercato secondario da parte della BCE (e già si prevede un rilancio a fine anno dello strumento);
  • Sostegno straordinario per finanziare i sussidi contro la disoccupazione di 100 Miliardi (“Sure”, per l’Italia sono stati attivati 27 miliardi), risorse recuperate tramite l’emissione di obbligazioni dirette al mercato da parte dell’Unione Europea, che hanno riscontrato una risposta molto positiva nel mercato finanziario;
  • Il MES (European Stability Mechanism) pandemico (il famoso e controverso “fondo salva stati” per sostenere le spese sanitarie), circa 240 miliardi;
  • i Fondi BEI per sostenere gli investimenti delle imprese per circa 200 miliardi con garanzie appostate di 25 miliardi;
  • i Fondi della politica di coesione CRII+, che hanno mobilitato circa 40 miliardi;
  • la normativa temporanea sugli aiuti di stato e, appunto, la clausola di sospensione del Patto di stabilità e di crescita.

Si è trattato, però, di un pacchetto di misure da subito considerate insufficienti a fronteggiare in maniera efficace l’emergenza straordinaria dell’oggi e la ripresa del domani, soprattutto rispetto a quanto ipotizzato e quanto fatto per esempio dagli USA (acquisti illimitati da parte della Federal Reserve, anche di bond di società rischiose, e un piano federale “Cares Act” nella prima versione di oltre 2,2 mila miliardi).

Perciò, dopo vari interventi di moral suasion (si ricorderanno quello del Presidente Conte sul Financial Times del 19 Marzo “Giuseppe Conte calls on EU to use full financial firepower” e quello di Mario Draghi il 25 Marzo “Draghi: we face a war against coronavirus and must mobilise accordingly“), finalizzati a spingere l’Unione Europea a valutare proposte più incisive per fronteggiare la crisi, il dibattito si è concentrato su varie proposte, tra cui sostanzialmente l’emissione di “CoronaBond” straordinari per recuperare direttamente risorse, a beneficio degli Stati membri, nel mercato finanziario. Lo strumento, proposto sostanzialmente dai Paesi “mediterranei” del Sud Europa, è stato al centro dello scontro con i Paesi “austeri” del Nord (alcuni di seguito, gli autodefiniti “quattro  frugali”).

A sciogliere questa prima fase di aspra discussione e dare avvio alla nascita di Next Generation Eu è stato di fatto un accordo franco-tedesco, abbastanza storico nei contenuti, del 18 Maggio 2020.

Come nella nascita dell’euro, il compromesso franco-tedesco risulta determinante per le scelte europee (e questa volta lo zampino italiano è stato forse più rilevante che in passato). Si è così sbloccata la situazione dall’empasse in cui ci si trovava, che avrebbe potuto mettere a rischio di fatto, per l’ennesima volta (dopo Brexit), il progetto europeo.

Il senso dell’accordo è stato appunto quello di creare un Fondo comune, in capo al bilancio Europeo, finanziato con emissione di titoli dell’Unione Europea a carico di tutti, in stile Eurobond, per fronteggiare le spese straordinarie dovute all’emergenza e alla necessaria ripresa economica, risorse da distribuire internamente ai paesi membri.

Così nasce la proposta della Commissione del 28 Maggio,  che viene definitivamente sbloccata con l’accordo che farà nascere il NextGeneration EU nel Consiglio Europeo del 17/21 luglio 2020, accordo ovviamente frutto di ulteriori negoziati su cifre e strumenti da utilizzare. L’ammontare complessivo delle risorse al momento è di 750 miliardi di euro.

La novità più importante del pacchetto delle proposte è il Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza (Recovery and Resilience Facility, RRF) per 672,5 miliardi di euro, composto da una parte di risorse a prestito verso gli Stati membri (360) ed da una parte di sovvenzioni (312,5), che compongono così di fatto debito comune europeo.

Accanto a ciò nuovi appostamenti sono stati fatti per un nuovo fondo, denominato REact EU, quasi 50 miliardi di euro, un appostamento ulteriore per il Fondo per la transizione giusta di 10 miliardi (Just Transition Fund), circa 6 miliardi per InvestEU, 5 per Horizon e 7,5 per lo sviluppo rurale.

Nella realtà, le vere novità del pacchetto sono REact EU e RRF. Il primo nasce per fronteggiare l’emergenza con una dotazione straordinaria di fondi strutturali (fondi Sie, Fesr e FSE principalmente), nello specifico finalizzati a sostenere gli investimenti in sanità, quelli delle PMI o per mantenere l’occupazione o creare posti di lavoro, soprattutto per certe categorie più fragili. Il secondo, con una potenza di fuoco diversa, considerevole e un raggio d’azione più vasto, è volto a sostenere investimenti e riforme dei Paesi membri.

Per il nostro Paese, si tratterà di circa 207/209 miliardi di euro, a seconda di come si definirà il regolamento del fondo e di quanto cambieranno alcuni parametri di riferimento nel triennio 2020/2021, tra cui il PIL/RNL, il tasso di disoccupazione e la popolazione.

L’art 3, l’ambito di applicazione del RFF, della proposta regolamentare definisce verso cosa queste risorse andranno indirizzate: coesione economica, sociale e territoriale, produttività, transizione verde e digitale, salute, competitività, istruzione e ricerca, innovazione, occupazione e investimenti, stabilità dei sistemi finanziari. Le risorse del RFF saranno da impegnare giuridicamente entro il 2024 e da spendere entro il 2026. Il 70% delle risorse potranno essere utilizzate nel biennio 2021-2022 e il 10% sono anticipabili al primo semestre 2020 (solo React EU ha la possibilità di essere anticipato al 50% nel 2020).

La proposta prevede altresì che i Paesi debbano redigere un Piano nazionale con il quale specificare l’utilizzo di queste risorse, piano che deve essere presentato alla Commissione, a partire dallo scorso 15 ottobre nella sua prima formulazione, e che deve essere “discusso” e poi entrare in vigore formalmente da Aprile 2021, in stretto coordinamento con le procedure di coordinamento fiscale che sono sotto il nome del “Semestre Europeo”.

In sostanza, si tratta di piani “valutabili” dalla Commissione ma che devono essere coerenti con tutti i documenti di programmazione economica dei paesi membri (Documento di economia e finanza di Aprile e Documento programmatico di Bilancio di Novembre su tutti) e le raccomandazioni specifiche della Commissione europea, appunto perché siamo dentro un quadro che tenta di dare sostanza ad una politica fiscale comune dell’Unione Europea.

Il rischio che non si vorrebbe correre (e che la stessa Commissione vorrebbe evitare) è che le risorse non siano effettivamente addizionali ma sostitutive di risorse proprie, rischio che corrono tutti i fondi europei.

 

 

Il Recovery per fare cosa?

Da agosto nel nostro Paese è iniziata la discussione sul cosa fare di queste risorse, con ampio dibattito sui giornali e una prima raccolta di idee progettuali (oltre 500) da parte delle Amministrazioni. Una raccolta abbastanza ampia (per oltre 650 miliardi di euro), che ha ampiamente superato in ampiezza le possibilità ad oggi per l’Italia: circa 209 miliardi di euro, di cui 191,4 (64 a sovvenzione e 18 a prestito) del RFF e 15 da React Eu. Questo primo approccio ha destato non poche prese di posizione e reciproche diffidenze nel rapporto tra Commissione Europea e Italia.

Nella nota di aggiornamento al DEF di fine settembre, il Governo ha sostanzialmente deciso di appostare queste risorse in maniera pressocché equa nei prossimi 5 anni (205 in via preliminare): circa 25 miliardi nel 2021, 37,5 nel 2021, 43 nel 2023, 39,4 nel 2024, 30,6 nel 2025 e 27, 5 nel 2026, stimando un impatto positivo sul PIL dell’uso di queste risorse dello 0,3% in più nel 2021 (6 miliardi), dello 0,4% nel 2022 e lo 0,8% nel 2023.

In settembre, il Governo ha proposto al Parlamento le linee guida per la costruzione del Piano nazionale di Resilienza e Ripresa, basate sostanzialmente su 9 linee strategiche: 

  1. Paese completamente digitale
  2. Paese con infrastrutture sicure ed efficienti
  3. Paese più verde e sostenibile
  4. Tessuto economico più competitivo e resiliente
  5. Piano integrato di sostegno alle filiere produttive
  6. Una Pubblica Amministrazione al servizio dei cittadini e delle imprese
  7. Maggiori investimenti in istruzione, formazione e ricerca
  8. Un’Italia più equa e inclusiva, a livello sociale, territoriale e di genere
  9. Un ordinamento giuridico più moderno ed efficiente

E sei missioni di inquadramento dei progetti:

  1. Digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo
  2. Rivoluzione verde e transizione ecologica
  3. Infrastrutture per la mobilità
  4. Istruzione, formazione, ricerca e cultura
  5. Equità sociale, di genere e territoriale
  6. Salute

Fin qui tutto bene, nel complesso. I contenuti di questo piano partono dai problemi (direi pre-pandemici) del nostro Paese, che tutti conoscono da tempo: disuguaglianze territoriali e sociali, con una concentrazione della povertà in certe aree e per certi soggetti, ossia famiglie monoreddito e precari o working poor; concentrazione della ricchezza verso l’alto e un fisco non adeguatamente progressivo, redistributivo rispetto al ceto medio-basso, che pesa molto sul fattore lavoro e meno su quello capitale (per chi ovviamente le tasse le paga); investimenti infrastrutturali nella mobilità (nelle varie modalità: ferroviaria, stradale e portuale/aeroportuale) non adeguati e moderni in maniera omogenea nel Paese (già la sola alta capacità/velocità nel Mezzogiorno vale circa 40 miliardi di investimenti); i livelli di investimento nel campo dell’innovazione e della ricerca, sia pubblici che privati; la bassa occupazione femminile, di dieci punti al disotto della media del resto d’Europa; la disoccupazione giovanile, anche marcatamente più alta che nel resto d’Europa, con picchi in alcune aree del Paese di circa il 50%; i servizi di cura per gli anziani basati ancora poco sul sistema di assistenza domiciliare; i servizi di cura per l’infanzia, carenti nella copertura generalmente nel Paese e spesso, gioco forza, a domanda privata non adeguatamente sostenuta; un settore sanitario all’avanguardia nel contesto internazionale ma depotenziato negli anni e poco strutturato per assistere a livello territoriale i pazienti e offrire così servizi sempre più personalizzati; un mondo imprenditoriale parcellizzato che deve essere accompagnato, se non indotto, a entrare nel pieno della transizione digitale ed ecologica, nonché nella crescita dimensionale, patrimoniale o perlomeno nel rafforzamento delle aggregazioni/reti/filiere; una produttività del lavoro stagnante da attribuire a fattori istituzionali e di contesto come il grado di innovazione nelle imprese e nelle istituzioni o il coinvolgimento dei lavoratori nelle stesse; una bassa diffusione delle competenze digitali, perché non basta avere un computer o un robot ma occorre averne padronanza; una qualità della pubblica amministrazione molto disomogenea; una rete di connessione digitali che non copre in maniera equa tutto il territorio, spesso tra l’altro a rischio di dissesto idrogeologico.

Questo solo per citare le nostre macroproblematiche. Davanti a tutto questa carrellata di problemi economici, allora quali proposte scegliere?

Disuguaglianze territoriali con una ricomposizione del disequilibrio in investimenti e diritti sociali tra Nord e Sud (la fiscalità di vantaggio sul costo del lavoro per 6 miliardi per il 2021 ne è solo una condizione necessaria e compensativa), ad esempio. Una riforma fiscale redistributiva, ad esempio, che sposti l’onere verso l’alto e verso la rendita da capitale. Il potenziamento della rete dei servizi per l’infanzia, per aumentare natalità e conciliazione vita-lavoro, e un grande e massiccio supporto finanziario per aumentare congedi e disponibilità delle famiglie al pagamento dei servizi per l’infanzia. Un massiccio investimento nella formazione dei lavoratori e negli investimenti agevolati per le imprese (evitando un approccio “one-size-fits-all”) per agevolare la transizione digitale e verde dell’economia, ad esempio. Un piano per gestire, tramite una bad bank, la massa di crediti (per ora garantiti dallo Stato o in moratoria con il settore bancario) che probabilmente diventeranno deteriorati, restringendo le possibilità di credito in futuro (stante così regole antiquate e procicliche del sistema bancario). Un sistema sanitario che si struttura con servizi avanzati a livello territoriale, che integrano, anche nello stesso luogo, tutti i soggetti professionali che compongono la filiera (medici di medicina generale, cooperative sociali, servizi socio sanitari, farmacie), ad esempio.

Un sistema di incentivi che faciliti le esperienze dei Workers Buyout: in un momento in cui molte imprese falliranno o non avranno successione, i lavoratori potrebbero prenderne collettivamente le sorti, ad esempio. Il sostegno alle esperienze non dedite al profitto, alle cooperative, al terzo settore, che in vari campi di lavoro, coniugano sviluppo e coesione sociale, ad esempio nei territori fragili e nelle aree interne come le imprese di comunità o nella gestione associata di consumi e produzioni energetiche, come le comunità energetiche.

Si tratta allora di un elenco di spese da fornire a piè di lista, oppure si tratta di immaginare come il Paese sarà (o dovrà essere) nel prossimo decennio e forzare il destino di tutti? Può una logica da microprogettazione prendersi in carico la resilienza e la ripresa di una intera collettività?

Di contro, possono essere grandi imprese o lo Stato (per come è sempre stato) da soli ad assecondare uno sviluppo diffuso e integrato nel lungo periodo (in un’economia composta da circa 4 milioni di imprese, il 95% del totale, con meno di dieci dipendenti che occupano quasi la metà degli occupati del settore secondario e terziario, 44%)?

Si può affrontare una discussione con “ciascuno che fa il suo e chiede per sé”, o piuttosto dovremmo evitare i compartimenti stagni e aggredire i mali preferendo una logica di sviluppo olistico (quello sposato dall’Agenda 2030) con scelte chiare, tempi certi e un approccio dal basso, comunitario (quel community-based approach che tanto piace in ambienti europei e internazionali), liberando così potenziale economico e assecondando il protagonismo dei cittadini a seconda delle caratteristiche dei territori e delle comunità che essi vivono?

C’è dentro questa discussione sul Recovery Fund, quindi, il tema di come generare sviluppo, oltre che del cosa.

 

 

Appunti finali

Al netto della tempistica (nel senso che la discussione sul pacchetto di provvedimenti presi a luglio si accompagna a quella sul bilancio pluriennale comunitario e i giochi negoziali tra i Paesi e le istituzioni europee non sono ancora completamente chiusi), le modalità con cui verranno usate queste risorse, oltre che appunto il “quando” dell’attuazione e il “quanto” delle risorse, rappresenteranno una chiave di volta importante e innovativa. Tempi, chiarezza dei risultati, coinvolgimento responsabile delle amministrazioni e di chi ne sarà beneficiario.

Molti immaginano che questi soldi saranno un po’ la panacea di tutti i mali, forse sbagliandosi. I fondi europei generalmente oscillano tra la vulgata salvifica del “tanto ci sono i fondi europei”  e  la vulgata dello spreco continuo “non si usano, si spendono male, ecc”. Nella realtà, ambedue le vulgate sono appunto molto parziali.

Questo è tanto più vero in una situazione in cui stiamo affrontando una crisi il cui impatto è letteralmente incredibile (e questa seconda ondata qualche ulteriore punto interrogativo e dramma a questa vicenda li lascerà, oltre al numero di morti, disoccupati e imprese fallite), per cui già molti ritengono che davanti a questo scenario non bastino più 750 miliardi di euro e soprattutto che non sia abbastanza uno strumento temporaneo ma bensì strutturale.

A condizione ovviamente di non ritrovarsi nella condizione paradossale (e il Patto di Sstabilità e di Crescita con la sua regola “stupida” del 3% potrebbe crearla) di avere le risorse ma non poterle spendere (o di dover alzare le tasse per farlo).

Anche in questo caso, questo maledetto virus ci ha fatto imboccare una strada “sconosciuta” (ai più). Vedremo anche questa dove ci porterà. L’incertezza è una sconosciuta, intanto buona strada!

 

Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autore, espresso a titolo personale