Seaspiracy

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11 Maggio 2021

Il documentario che ha fatto molto discutere: esiste una pesca sostenibile?

Partiamo da una certezza: il documentario Seaspiracy, una produzione Netflix, non risponde alla domande che pone nel sottotitolo. Esiste la pesca sostenibile?

In realtà rispondere a questa domanda è praticamente impossibile, perché sono tanti e controversi i punti di vista, pur partendo da quello che è un dato di fatto: la pesca intensiva è devastante. Ma posto questo punto, come ogni evidenza scientifica dimostra, Seaspiracy si è spinto oltre – anche troppo oltre – ponendo una questione differente.

La questione posta è se sia possibile immaginare ai giorni nostri che possa esistere una pesca sostenibile, in equilibrio con ambienti e territori. Per gli autori del documentario, la risposta è no, ma non riesce a dimostrare praticamente nulla.

Andiamo per gradi. Seaspiracy ha un grande merito: ha portato un tema come la pesca – spesso misconosciuto, anche in società come quella italiana che pure hanno un legame forte con questa cultura e questa economia – su un media mainstream e ha suscitato un dibattito forte. E questo è un merito, come quello di porre domande, sempre, ma il problema del documentario è che arriva a delle conclusioni senza un supporto complesso e completo di punti di vista e dati.

Ecco, i dati. Come sottolineato da un gran bell’articolo di Ferdinando Cotugno per RivistaStudio, “Seaspiracy non vuole informarci, vuole trasformarci”. Si tratta di un prodotto di advocacy, evidente, che ha il fine di sostenere la fine del consumo di pesce nelle abitudini alimentari e di supportare – in maniera palese – il lavoro di SeaShepard, nobilissima organizzazione, ma che praticamente a tratti nel documentario è l’unica voce.

Non c’è nessun problema nell’avere una posizione netta contro il consumo di pesce, anzi, ma non si può elaborare questo come la ‘naturale’ conclusione di un’inchiesta giornalistica.

Uno dei limiti grossolani del documentario di Alì Tabrizi, il regista, è questo: racconta di una conclusione e non di un dubbio, ma non riesce a dimostrare al sua conclusione.

 

Il documentario, al di là di uno stile che può piacere o non piacere, ha delle evidenti lacune. Lo stile ‘esperienziale’ dei documentari di Netflix, con un autore sempre davanti alla camera, che parte dalle sue esperienze personali, che ci racconta i rischi mortali che corre, o i suoi stati d’animo, è una scelta stilistica e ciascuno è libero di apprezzarla o meno.

Quello su cui, invece, non si può soprassedere è l’utilizzo dei dati e delle fonti, se il documentario vuole presentarsi come un’inchiesta. La Bbc ha analizzato i ‘numeri’ citati nel documentario, evidenziando come la maggior parte delle conclusioni dell’autore è basata su dati vecchi, superati da nuovi studi.

Come ha giustamente sottolineato Daniel Pauly – un’autorità in materia –  in un articolo su Vox, l’autore è partito da una convinzione forte, personale, che va rispettata, ma è finito per mettere sullo stesso piano elementi differenti e forzando le conclusioni.

C’è lo sfruttamento intensivo dei fondali e della pesca a strascico, c’è la devastazione dovuta all’arrivo dei pescherecci industriali in un numero impressionante, c’è l’inquinamento, che la pesca contribuisce ad aggravare, c’è la schiavitù di molti lavoratori del settore e molto altro ancora. Ed è tutto vero.

Solo che non c’è traccia di centinaia di migliaia di realtà che, in tutto il mondo, si battono per una pesca in armonia con l’ambiente e i diritti, con la qualità e la salvaguardia di una cultura millenaria e del mondo che ci circonda.

Invece esistono, si battono, ogni giorno. Sono pescatori, sono organizzazioni (ci sono anche quelle poco trasparenti, come racconta il documentario, ma non si può generalizzare come viene fatto in Seaspiracy). Esiste un’itticoltura fatta male, malissimo, ma c’è anche impegno e ricerca, altrove, per far bene le cose. Ecco di tutto questo, della complessità, degli esperimenti, delle ricerche e dell’impegno di molti non c’è traccia.

Inoltre il lavoro di Tabrizi si concentra sulla pesca industriale, che è sbagliata a prescindere, per impatto, per qualità del cibo, per condizioni di lavoro dei pescatori impiegati, ma ignora un mondo di pesca locale, di filiere, di comunità, di persone che si impegnano a rispettare quel mare che sfama da generazioni.

Una scena del documentario racconta per certi versi questo conflitto narrativo. Liberia, comunità locali distrutte dalla pesca intensiva dei grandi pescherecci cinesi illegali. Alcuni pescatori si avvicinano, chiedono cibo, hanno fame.
Quante comunità, nel mondo, si sfamano con le economie locali legate alla pesca? Questo è un dato che può essere ignorato?

In quella piroga ci sono tutte le complessità di un mondo, che non può essere risolto con risposte ideologiche.
Scelta di tutto rispetto quella di smettere di mangiare pesce, ma non può essere presentata come un’inchiesta che arriva a conclusioni evidenti e indiscutibili.