Strike! Le università del Regno Unito in sciopero contro il precariato

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26 Novembre 2019

Mobilitazioni fino al 4 dicembre in tutto il Paese

Dal 25 novembre, il personale accademico di 60 università in tutto il Regno Unito ha iniziato uno sciopero che durerà fino al 4 dicembre.

Tutor, lecturer [1] e professori lasceranno le aule e si organizzeranno in picchetti, cancellando le lezioni e fermando la ricerca. Lo sciopero, indetto dal sindacato University and College Union (UCU), è l’ultima risorsa dopo che le negoziazioni con l’ente che rappresenta il management universitario non hanno portato a risultati soddisfacenti.

Due sono i problemi contro cui la UCU e i suoi membri protestano: da un lato il meccanismo di funzionamento delle pensioni, e dall’altro la precarietà in cui una parte considerevole dei ricercatori e lecturer versa.

Partendo dal primo punto, solitamente il personale universitario viene inserito nello schema Universities Superannuation Scheme (USS). Il suo funzionamento, compreso l’ammontare di contributi che ogni membro deve versare, viene deciso di concerto tra la UCU, che rappresenta i lavoratori, e Universities UK (UUK), che rappresenta invece i dirigenti delle università.

A partire dal 2011, lo USS è diventato molto più oneroso: il sindacato ha calcolato che, in media, ogni membro ha perso 200mila sterline di pensione pur versandone 40mila in più in contributi.

Questo perché l’equilibrio tra i contributi versati dall’ente universitario e il lavoratore stesso è stato sempre più sbilanciato verso quest’ultimo, fino a raggiungere l’attuale rapporto di 65:35.

Facendo un esempio su più piccola scala, un giovane ricercatore con un lavoro part-time di 16 ore a settimana percepisce circa mille sterline al mese, di cui cento sono detratte per i contributi. Se questo calcolo sembrasse ancora favorevole per il ricercatore in questione, ricordiamoci che è basato su Londra, dove è praticamente impossibile trovare una stanza (non casa, stanza) dignitosa per meno di 700 sterline mensili.

Con la domanda che potrebbe legittimamente sorgere sul perché questo giovane ricercatore non lavora a tempo pieno ci colleghiamo direttamente al secondo nodo della questione: il precariato.

Chi come me ha fatto in tempo a laurearsi nel 2012, giusto giusto all’apice della crisi economica, è ormai familiare con questo concetto. Tuttavia, l’ambito accademico e il Regno Unito mantengono una reputazione piuttosto forte di contesto lavorativo e/o geografico sicuro. Diverse persone sono ancora molto legate a un’immagine del professore benestante con tempo e potere di gestire il suo lavoro come più gli aggrada, che percepisce uno stipendio di tutto rispetto.

Questa figura compare anche nella polemica quotidiana, dove dare a qualcuno del “professorone” è un modo per sottolineare un intellettualismo unito a un distacco dalle ristrettezze economiche; gente che insomma si può permettere di essere progressista o “buonista” perché vive nell’agio.

Queste figure esistono ancora, ma sono ormai la minoranza in un mondo accademico che si sta sempre più trasformando in azienda invece che restare fedele al suo ruolo di servizio pubblico. E di certo, l’immagine descritta non riflette le condizioni né dei giovani ricercatori né di quelli che possono considerarsi ormai a metà della loro carriera.

Secondo i dati raccolti dalla UCU, più del 50% del personale accademico (a vari livelli e di varie età) ha contratti a tempo determinato, part-time, o a ore (i cosiddetti zero-hours contracts), con uno stipendio che oscilla tra le 9 e le 17 sterline all’ora per un lavoro altamente qualificato. Ma, al di là della paga oraria di per sé, sono gli obblighi contrattuali e le aspettative che complicano il quadro.

Ad esempio, un tutor che si occupa delle sessioni in cui gli studenti lavorano sui testi o fanno degli esercizi e discutono dell’argomento della lezione frontale, nel mio dipartimento viene pagato 16 sterline all’ora. La paga non è omogenea in tutta l’università, ma varia a discrezione delle varie facoltà.

Ogni ora passata in classe con gli studenti viene moltiplicata per 4, e il totale è la cifra percepita in tutto il quadrimestre. Le 4 ore comprendono la lezione, la preparazione, l’ora di ricevimento, e la correzione delle tesine degli studenti. Ma preparare la lezione in un’ora è fantascienza, e ancora di più lo è attenersi al calcolo secondo cui una tesina da 1500 parole dovrebbe essere corretta in 15 minuti. Infatti non si tratta solo di dare un voto, ma anche di scrivere un giudizio dettagliato sulle parti migliori del saggio e quelle da migliorare. Il contratto dura dal primo all’ultimo giorno del quadrimestre, senza coperture per quando non ci sono lezioni né la possibilità di chiedere un aiuto finanziario per la disoccupazione.

Lo standard di lavoro irrealistico richiesto a un tutor come a un lecturer genera due dinamiche opposte: c’è chi si sovraccarica di lavoro e sfora le ore per cui è pagato e chi si attiene il più possibile al contratto, e di conseguenza non si prepara al meglio o corregge le tesine sommariamente.

Nell’uno come nell’altro caso, chi ci perde è lo studente e, in generale, la qualità dell’istruzione. Nel primo perché un lecturer stremato difficilmente dà il meglio di sé, nell’altro perché la qualità della lezione o del giudizio finale risulta approssimativa.

Il precariato, però, non colpisce tutti allo stesso modo: donne ed ethnic minorities [2] la subiscono in misura maggiore, con differenze nelle condizioni contrattuali tra uomini e donne che, in alcune università, raggiungono il 20%, e una differenza media tra ethnic minorities e non del 10%.

Oltre a minare la qualità dell’insegnamento, le condizione precarie del personale accademico hanno creato una vera e propria epidemia di disturbi mentali legati all’ansia, che si scontrano con una gestione aziendale che non riconosce il peso di queste problematiche e spesso propone metodi discutibili di superarle, come ad esempio sessioni di meditazione (vi prego, non ridete).

Anche se la Union porta avanti entrambe le questioni delle pensioni e del precariato contemporaneamente, la sensazione generale è che sia proprio quest’ultimo il punto attorno a cui si stringono i più degli aderenti allo sciopero, soprattutto i più giovani.

Questo perché quando si lavora con un contratto a ore o della durata di 4 mesi, la pensione sembra semplicemente un pensiero troppo azzardato. Ironia della sorte, ci sono poi anche alcuni che, proprio a causa delle scarse sicurezze derivate dal contratto, non possono permettersi di unirsi allo sciopero.

I prossimi giorni ci diranno come tutto evolverà, ma per adesso l’alta adesione (circa il 70% dei votanti UCU) e il sostegno degli studenti possono far ben sperare.

Il modello universitario inglese e americano sono a volte citati come esempio da chi vorrebbe riformare l’università italiana. Sono ben cosciente che c’è un gran bisogno di miglioramento all’interno dell’università italiana, ma mi sembra anche chiaro che trasformare l’università in un’azienda concentrata sul profitto più che sul benessere dei suoi lavoratori e sull’apprendimento degli studenti decisamente non sia la scelta giusta.

* Non è stato possibile tradurre alcuni termini letteralmente per preservare il senso logico generale dell’articolo. Mi sono comunque attenuta il più possibile al significato originario.

NOTE

[1] Il lecturer è un esperto assunto da un’università con un contratto principalmente di insegnamento, ma che può anche prevedere delle ore dedicate alla ricerca. È inferiore al rango di professore.

[2] Nel Regno Unito, si definisce ethnic minority ogni persona di origine diversa da white British.