Dove bisogna stare

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7 Dicembre 2018

L’ultimo documentario di Gaglianone: un’Italia che pratica, ancora, umanità

Il titolo dell’ultimo documentario di Daniele Gaglianone e Stefano Collizzolli (nato da una collaborazione con Medici senza Frontiere) presentato alla 36ma edizione del Torino Film Festival, non è una domanda, ma la risposta forte e chiara che le quattro donne protagoniste di questo film straordinario hanno voluto dare a tutti noi, lasciandoci generosamente accedere alla loro quotidianità.

Elena Pozzallo, Jessica Cosenza, Georgia Borderi e Lorena Fornasir non potrebbero essere più diverse e, allo stesso tempo, più simili. Quattro donne di diversa età, appartenenza geografica, formazione, che hanno scelto di stravolgere le loro vite e di confrontarsi quotidianamente con la drammatica realtà della vita dei rifugiati e con l’inadeguatezza di un sistema di accoglienza che era già punitivo e repressivo all’epoca in cui il documentario fu girato e che, come spiega Lorena, psicologa di Trieste e infaticabile volontaria nell’assistenza ai rifugiati, non potrà che peggiorare ulteriormente con l’entrata in vigore del Decreto Sicurezza: “Le scene che avete visto si riferiscono all’anno scorso e alla primavera di quest’anno, sono scene attualissime, ma superate in tragedia da quello che sta avvenendo e che avverrà in modo ancora più brutale nei prossimi giorni. Ai nostri confini è in corso una tragedia umanitaria, ci sono migliaia di persone, siriani, curdi, iracheni, gente che avrebbe tutto il diritto di entrare in Europa secondo il diritto internazionale e che invece è bloccata. Allora anche il titolo di questo film ci fa capire che fin da ora sappiamo dove dobbiamo stare, da quale parte dobbiamo stare. La mia forma di vita è quella di una esistenza-resistenza e anche di disobbedienza civile, perché non basta più indignarsi, non basta più lamentarsi, bisogna imparare la disobbedienza civile e la resistenza, se vogliamo un mondo migliore anche per i nostri figli.”

Georgia, invece, non ce l’ha fatta a raggiungere Torino da Como, ma ha voluto mandare un messaggio per scusarsi: “Mi dispiace, ci ho provato fino all’ultimo, ma il mio collega non poteva sostituirmi, abbiamo le tende riscaldate che possono contenere meno di 50 persone, peccato che in strada ne abbiamo quasi il doppio e quindi dobbiamo capire cosa fare, e non sarà semplice.”

Georgia è giovanissima, curiosa, dinamica, avrebbe potuto trascorrere i suoi sabato pomeriggio al cinema, con gli amici o magari semplicemente a fare shopping, e invece ha scelto di passarli (come il resto della settimana) cercando una soluzione per chi in quella tenda riscaldata non potrà entrare. Sono così le donne che ci racconta Gaglianone, quasi inconsapevoli di quanto straordinaria sia stata la loro scelta di vita in un paese sempre più refrattario all’accoglienza, alla
solidarietà, all’ascolto, alla condivisione. Sempre più incapace di empatia. Elena, valsusina, che ha accolto in casa sua Mathieu e i suoi piedi bruciati dal gelo della neve che aveva cercato di superare nottetempo per raggiungere la Francia, non riesce a trattenere le lacrime dopo essersi rivista sullo schermo: “Scusatemi, è la mia rabbia che si trasforma in pianto”.

E la commozione travolge, di nuovo, tutti noi. Jessica, giovanissima di Cosenza, dalla simpatia e carisma veramente irresistibili, gestisce insieme ad altri ragazzi dei centri occupati e trasformati in alloggi da destinare a chi ne ha bisogno, italiani o stranieri: “Il problema non è solo dei migranti, il problema è un’assenza di diritti tutelati e questa assenza la avvertiamo noi, e loro più di noi. Insieme si può scardinare questa logica.”

Queste donne ci restituiscono la fotografia di un paese molto diverso da quello in cui questo governo vorrebbe che si trasformasse, ci costringono a confrontarci con la realtà di persone simili ad ognuno di noi, senza ambizioni eroiche, guidate solo dall’istinto viscerale e così semplicemente umano del “portare cura” a chi ne ha bisogno. Ci inchiodano alle nostre responsabilità, ci obbligano ad immedesimarci e a chiederci: “E noi, noi cosa stiamo facendo?”.

Hanno le idee chiare, queste donne, hanno la mente lucida e il coraggio di chi si è reso conto della gravità della deriva umana e umanitaria che sta riguardando l’Italia (ma non solo) e ha deciso di non lavarsene le mani, compatibilmente con la propria natura e con le proprie possibilità. Non rappresenteranno, forse, la maggioranza di questo paese, ma certamente ne rappresentano la parte migliore e sapere che esistono, grazie a Daniele Gaglianone, ci fa sentire un po’ meno soli.

INTERVISTA A DANIELE GAGLIANONE

Quando potremo vedere “Dove bisogna stare” in sala?

Il film uscirà a metà gennaio distribuito da Zalab.

I tuoi documentari e i tuoi film sono sempre stati focalizzati sull’attualità, da quella della guerra dei Balcani a quella del movimento NO TAV, da quella delle periferie degradate a quella della
devastazione dell’ambiente. Questo tuo ultimo lavoro non fa eccezione. Da quale urgenza è nato questo progetto? Perché oggi (per te) parlare della situazione dei migranti e dei rifugiati è una
priorità?
“A guardare la mia filmografia si potrebbe pensare legittimamente che io mi riconosca nella figura di un registra militante, ma non è così. Come cittadino penso di essere abbastanza imbranato, non molto adeguato alla militanza, mentre col cinema riesco spesso ad entrare in relazione, a mettermi a confronto con situazioni che, come cittadino, mi prendono sempre un po’ in contropiede. Attraverso la mediazione del cinema riesco a capire situazioni molto complesse, che altrimenti non riuscirei a comprendere. Penso che occuparsi di migranti sia prioritario, perché la questione della migrazione è una questione fondamentale per il nostro tempo, per il nostro mondo, perché è un fenomeno che mette in evidenza tutte le le ipocrisie di un sistema che per anni si è auto-incensato come democratico e invidiabile. Durante il periodo della guerra fredda l’Europa occidentale ha cavalcato il mito secondo cui tutto il mondo avrebbe voluto essere come noi e quando poi l’Occidente ne è uscito vincitore e il resto del mondo ha preteso – giustamente – di adeguarsi agli standard occidentali, la risposta dell’Europa è stata: “Ci dispiace, il nostro sistema economico si basa su una profonda diseguaglianza tra noi e voi, non venite a bussare alla nostra porta o metterete in evidenza anche tutte le disuguaglianze interne al nostro mondo, che sono altrettanto drammatiche. Per questo io credo che parlare di “loro” significhi parlare di “noi” e forse il problema è proprio che bisognerebbe parlare di tutti.”

Il fatto che le quattro protagoniste di “Dove bisogna stare” siano quattro donne sembra non essere un caso, così come il fatto che siano tutte accomunate dall’essersi avvicinate quasi per caso, senza una storia pregressa di militanza, al mondo dell’accoglienza, alcune tra loro stravolgendo completamente la loro vita. Quanto è importante, secondo te, in questo momento storico per il nostro paese, avere il coraggio di mettersi in gioco in prima persona? E che idea ti sei fatto del ruolo delle donne nel mondo dell’accoglienza ai rifugiati?

Io credo che le donne abbiano una grande responsabilità per il futuro del pianeta, nessuno meglio delle donne riesce a conciliare pragmatismo e idealismo, a immaginare nel concreto un modo diverso di concepire le relazioni fra le persone e questo, secondo me, le porta più facilmente a prendere delle decisioni che, magari, sembrano basate solo sull’istinto ma che in realtà sono delle decisioni “naturali” e per questo, forse, decisioni che per la loro stessa natura non hanno bisogno di chissà quale ponderatezza. Mi trovo infatti sempre più spesso a pensare che essere ragionevoli possa essere pericoloso e che la ragionevolezza possa portare anche a dei disastri.

Il tuo documentario è stato proiettato al TFF due giorni dopo l’entrata in vigore del “Decreto Sicurezza”. Rispetto allo scenario già drammatico che abbiamo potuto vedere nel tuo documentario, quanto ancora pensi che la situazione dei rifugiati potrà peggiorare con questo decreto?

Credo che la gestione del fenomeno migratorio sia una gestione miope e arroccata su di un principio ingiusto di conservazione dei privilegi e che questo decreto sicurezza non farà altro che esasperare le tensioni. Quello che tutti dovrebbero capire è che questo non è solo un decreto contro i migranti, ma è un decreto che amplifica la guerra ai poveri, che è attualmente l’unica vera lotta di classe esistente, una guerra spietata portata avanti dai pochi privilegiati da questo sistema economico e politico planetario contro i poveri (e non contro la povertà, sia chiaro, in quel caso ci troveremmo in un mondo illuminato, progressista e socialista). La colpa dei migranti è quella di incarnare l’immagine della povertà e il riflesso di un possibile destino che potrebbe riguardare tutti noi e che non vogliamo vedere. Questo decreto sicurezza, tra l’altro, diventa operativo nel peggior momento possibile, cioè di inverno. Avremo delle persone buttate per strada in un momento in cui ci sarà un freddo cane e sono convinto che questa sia stata una decisione scientemente pensata e, comunque, indice della crudeltà di fondo di questo nuovo meccanismo della legalità. Un’altra cosa che non mi stanco mai di ripetere, poi, è che il potere ha sempre sperimentato sulle fasce più fragili della società, utilizzandole come una sorta di laboratorio di controllo e di repressione, che in futuro potrà essere applicato anche ad altre situazioni. La gente sbaglia a pensare che quello che sta accadendo ai migranti non li riguarda e che chi è attualmente all’interno di questo “mondo della cittadinanza” ne sia preservato. È un’illusione piuttosto ingenua, perché io credo che se oggi certi principi possono essere applicati ad alcuni, domani potranno essere applicati anche a tutti gli altri. E questa idea che si possa essere perseguiti anche se non si è commesso alcun reato, per il solo fatto di possedere un corpo, apre una breccia molto pericolosa.

Dove bisogna stare ha ricevuto una magnifica accoglienza al TFF, oltre al premio “Occhiali di Gandhi” del Centro Sereno Regis per la cinematografia non violenta. Di fronte alla sala piena, hai dichiarato: “Spesso mi chiedo chi me lo faccia fare, poi di fronte a una sala così mi do la risposta.” Quanto è difficile oggi fare cinema in Italia? E quanto lo è fare un cinema come il tuo?

In Italia è difficile fare cinema, così come è difficile fare tante altre cose. C’è sempre più fragilità, più precarietà, parlerei quasi di una vera e propria “rarefazione dei diritti”. La sicurezza di cui bisognerebbe sentire la mancanza, quella di cui nessuno parla, è la sicurezza del lavoro, la sicurezza di poter pensare ad un futuro per sé stessi e per i propri figli (sempre che uno abbia il coraggio di farne). Il punto è che chi fa cinema condivide i problemi di tutti e, quindi, è sempre più difficile fare cinema esattamente come è sempre più difficile trovare un lavoro decente e fare mille altre cose. Non mi sento di lamentarmi più di quanto possa fare un'altra persona, fare cinema è anche una fortuna, quando lo si riesce a fare come si desidera, perché ti dà la possibilità di esprimerti e di sentirti realizzato provando emozioni che difficilmente si proverebbero altrimenti (a volte solo per qualche frangente, altre per un lungo periodo). Quello che continua a spingermi, nonostante tutto, a fare cinema è che rendermi conto che il mio modo di sentire le cose è condiviso da altre persone (che siano poche o tante può fare la differenza, ma non è fondamentale) è un modo per cercare di sopravvivere e di restare umani. Ecco, per me fare cinema vuol dire sostanzialmente questo.