Specchi Scomodi: le deformazioni dell’aiuto umanitario in Libano

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30 Marzo 2019

Il libro dell’antropologa Estella Carpi riflette sui controversi effetti dell’intervento umanitario nel Libano

Il lavoro umanitario o di sviluppo viene spesso considerato come buono in sé. Si aiuta chi è più vulnerabile, e in nome di ciò si accetta tutto, è sufficiente “fare del bene”.

Per chi opera in questi settori, il tecnicismo e la ricerca dell’efficienza sono pratiche talmente diffuse e consolidate da far dimenticare la cosa fondamentale: i recettori degli aiuti stessi, i quali non sono monadi, bensì persone con storie proprie e connessioni ben precise al contesto in cui si trovano.

Specchi scomodi. Etnografia delle migrazioni forzate nel Libano contemporaneo” di Estella Carpi (Mimesis Edizioni) ha il grande merito di accompagnare il lettore in una profonda riflessione su come la politica degli aiuti umanitari si riverberi sulla vita di individui e comunità, contribuendo a modificare relazioni, vite, mondi emotivi.

Il caso studio è il Libano, piccolo quanto intricato Paese in cui diversi flussi migratori forzati si sono susseguiti negli anni a causa dei diversi conflitti che hanno investito la regione: palestinesi, iracheni, sudanesi, siriani, senza dimenticare i numerosi sfollati interni della Guerra di Luglio del 2006 di Israele contro Hezbollah.

Aiuti di vario tipo e interventi umanitari hanno di fatto creato linee di demarcazione tra i vari gruppi di “beneficiari”, per usare il vocabolario della cooperazione, in un articolato sistema di inclusi ed esclusi rispetto a risorse intrinsecamente scarse rispetto ai bisogni da soddisfare.

Attraverso le lenti dell’etnografia, l’autrice – antropologa sociale da lungo tempo attiva nella regione – racconta e analizza le esistenze di quattro donne sfollate o costrette alla migrazione e ora residenti a Beirut o nell’Akkar, regione del Libano settentrionale, ognuna con una differente esperienza rispetto all’aiuto umanitario.

Il tutto attraverso una impostazione metodologica ragionata nel dettaglio, come illustrato nel secondo capitolo del libro.

 

 

Souhà, abitante della Dahiye (periferia meridionale di Beirut, considerata la roccaforte di Hezbollah) ha perso tutto durante la Guerra del Luglio 2006. La sua storia mette in discussione l’idea del conflitto unicamente come “guerra guerreggiata” e interruzione della normalità, dimenticando invece la dimensione di continuità dell’oppressione e della violenza.

Iman vive a Hay al-Gharbe, uno slum ignorato dalla ricostruzione post-2006. La distruzione recente ha prevalso su problemi di lungo corso, emarginando ancora di più gli abitanti della zona; rispetto a essi, a Iman spetta il “privilegio” in quanto rifugiata palestinese di poter beneficiare dell’insufficiente e scadente supporto di UNRWA, espressione di una crisi umanitaria ormai datata e incancrenita.

‛Alia, rifugiata irachena residente nella Dahiye, mostra come l’aiuto umanitario, nella sua accurata selezione di target e beneficiari, finisca per escludere sulla base di una sorta di “etnicizzazione dell’aiuto” – come lo definisce Carpi -, chi presenta bisogni similari ma ha un’origine “altra”.

È il caso appunto degli iracheni, ma anche dei sudanesi e degli stessi palestinesi, come accaduto ai rifugiati palestinesi dalla Siria, a lungo lasciati nella zona grigia del rimpallo di competenze tra UNHCR e UNRWA.

Amal, rifugiata siriana installatasi nell’Akkar, racconta effetti e distorsioni dell’intervento umanitario in Libano, in particolare rispetto alla trasformazione della fragile economia locale a seguito del riversarsi di ingenti flussi di aiuti.

Queste storie difficilmente trovano posto nello storytelling del mondo della cooperazione, dominato com’è da una retorica che tende a esaltare solo le storie di successo e a leggere i fenomeni sociali su cui interviene unicamente in un’ottica di efficienza e di performance.

Anche per come sono strutturati i meccanismi di formazione e reclutamento in questo settore, poco spazio viene dedicato alle questioni del potere, delle gerarchie e a solide analisi sociali e antropologiche.

Del “beneficiario” spesso si finisce per avere un’immagine appiattita, in positivo come in negativo, senza dare conto della dimensione emotiva delle persone cui sono indirizzati gli interventi, tanto meno di quelle che restano fuori dalla porta. Questo è un altro apprezzato merito del libro, il racconto dell’emotività all’interno di una robusta analisi teorica che pone molte sfide e domande a chi legge.

Puntualmente Carpi richiama più volte all’importanza di una “solidarietà informata”, che orienti l’azione sulla base di un adeguato bagaglio di conoscenze e consapevoli riflessioni, senza semplificazioni né stucchevole romanticismo.

Una ricerca “trasformativa” come rivendica lei stessa, un intento da accogliere con grande favore, perché ora più che mai l’aiuto umanitario e allo sviluppo ha profondamente bisogno di essere ripensato e rimodulato.

 

 

La foto di copertina è di Estella Carpi. Wadi Khaled (Libano settentrionale), 2012. 

La copertina del libro è di Dima Nashawi