Al cuore del villaggio Morelli

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19 Febbraio 2021

La prima puntata del reportage di Martina Ferlisi, scelto nel 2020 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo

La prima puntata del reportage di Martina Ferlisi, scelto nel 2020 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo

In Valtellina, nei primi decenni del ‘900, vengono poste le basi di quello che diventerà uno dei più grandi complessi sanatoriali d’Europa, specializzato nella cura della tubercolosi ma soprattutto segno di un diritto universale alla salute perseguito con determinazione da medici e architetti, convinti della necessità di strutture ospedaliere radicate nel territorio, funzionali e accessibili a tutti. Cosa resta di quella visione in tempi segnati da una nuova pandemia e dal bisogno fondamentale di cure? ll Villaggio Morelli di Martina Ferlisi è uno dei due reportage scelti a Festivaletteratura 2020 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo per essere sviluppati a puntate sul sito del Festival e qui. La prima puntata si addentra nella storia del sanatorio e nelle sue architetture, attingendo anche alle fonti conservate presso il Museo dei Sanatori di Sondalo.

 

1 puntata.

Al cuore del Villaggio Morelli

di  Martina Ferlisi

Per accedere al Villaggio bisogna passare per una galleria. È un tunnel nero, leggermente in salita. Lo percorri, che tu sia a piedi con il fiato corto o comodamente seduto in auto, e il buio si fa via via più chiaro. Grandi aperture sui lati disegnano archi di luce sulla strada e puoi intravedere le sagome scure delle montagne e scorci di intenso azzurro. Finché ti viene da stringere gli occhi, finché ti vedi davanti una forte luce, l’uscita. Ti ritrovi così quasi teletrasportato, quasi per uno sbalzo temporale o per magia, in un viale di tigli con rami scheletrici come dita sottili, via Antonio Zubiani.

Il tunnel di accesso al Villaggio Morelli.

Non poteva che portare il suo nome questo viale che parte dal paese di Sondalo, lo attraversa e sale fino al Villaggio Morelli, il sanatorio più grande d’Europa dal 1946 al 1973. Antonio Zubiani non è stato solo un medico originario di Sondalo, ma è il medico che ha dato inizio alla storia dei sanatori in Italia: proprio nella stessa pineta, quella del monte Sortenna, dove tutto ha inizio, raggiunge il suo culmine e poi la sua fine. Figlio del segretario comunale del paese, impegnato fin da molto giovane nella lotta politica e fedele ai suoi ideali socialisti, sognava di costruire un sanatorio popolare, per classi meno abbienti. Credeva nella salute come diritto per tutti e non come privilegio, vedeva nella povertà la prima causa di malattia. La sua idea tuttavia, non funzionò con gli investitori alla ricerca di profitto. Zubiani dovette dunque arrendersi e costruire una struttura per ricchi. Nel 1903, viene inaugurato così il primo sanatorio d’Italia, Pineta di Sortenna. Un edifico dalle forme leggere ma ricercate, tipiche del liberty e di una bellezza quasi pittorica e sognante. È distante anni luce da quello che diventerà il Villaggio Morelli, sebbene non sia poi così distante. Sarebbe potuto sembrare un hotel di lusso con tanto di sala biliardo, sala per la musica, teatro e biblioteca, pareti affrescate e mobilio Thonet di Vienna. La vita al suo interno d’altronde, non doveva essere tanto diversa da una villeggiatura: riposo, svago, sole, cibo e aria buona, se non fosse stato per quel “mal sottile” che dalla fine dell’800, non lasciava speranze ai poveri, ma colpiva anche i ricchi. Antonio Zubiani ne era il direttore.

 

Il Quarto, il Chirurgico, l’Incrociatore

Il viale a lui intitolato si inerpica sulla montagna in grandi curve e prosegue poi come un grosso serpente, percorrendo il Villaggio tra viadotti soprelevati e imponenti muraglioni di pietra. Per primo, incontra il Quarto padiglione, dove Quarto non indica nessun ordine numerico o cronologico. Il Quarto, il Chirurgico, l’Incrociatore: questi sono i nomi con cui è conosciuto. Probabilmente fu chiamato così perché il quarto dei dieci padiglioni di degenza, previsti dal progetto iniziale, non fu mai costruito. C’è tuttavia una versione molto più affascinante sulla ragione di questi nomi. Si racconta una storia su questo edificio dalla forma di piroscafo incagliato su una montagna, una diceria o una leggenda, che vera o falsa che sia, gli regala un ulteriore alone di mistero. Si dice che la sua costruzione è stata portata a termine grazie alla determinazione del tisiologo valtellinese Eugenio Morelli. Le finanze stanziate per il sanatorio dall’INFPS (Istituto Nazionale Fascista di Previdenza Sociale, dal 1943 INPS) erano da tempo finite, ma Morelli era convinto della necessità di avere anche un padiglione dedicato alla chirurgia, all’interno del villaggio sanatoriale. Pensa dunque di servirsi di uno dei suoi pazienti in cura per tisi, Michele Bianchi, uno dei quadrumviri della Marcia su Roma. Si reca insieme a lui da Mussolini in persona per convincerlo. Al posto di quattro incrociatori da battaglia il duce ne fa costruire tre. Al posto di una quarta nave da guerra viene costruito il quarto padiglione. I tre incrociatori salpano e vengono affondati dalla Marina Inglese nel 1941, nella battaglia di Capo Matapan. Il quarto padiglione è ancora sul monte Sortenna.

Il Quarto Padiglione visto dal viadotto.

Eugenio Morelli e il principio della funzionalità

In ogni leggenda c’è quasi sempre un fondo di verità. E dunque se anche quanto tramandato fosse solo un’invenzione, rimane il fatto che Morelli aveva a cuore un principio, oggi spesso dimenticato, quello della funzionalità: forme e geometrie non dovevano nascere dalla fantasia astratta dei progettisti, ma dalle esigenze concrete dei pazienti. Per questo un padiglione chirurgico era importante, fondamentale. Non dovevano essere i malati a inseguire i chirurghi, ma il contrario. Morelli lo sapeva bene. Aveva infatti dedicato buona parte della sua attività di ricerca all’approfondimento delle tecniche di progettazione e di edilizia ospedaliera. Aveva fatto allestire all’interno della Clinica della Tubercolosi e delle malattie respiratorie dove insegnava, un padiglione sperimentale per gli studi preliminari e per le prove di materiali ed attrezzature. Con l’aiuto di ingegneri e architetti, non solo studiò l’orientamento, l’altezza, l’architettura della facciata e la capienza che il sanatorio “ideale” – il sanatorio tipo – doveva avere, ma anche la cubatura delle stanze e la grandezza di porte e finestre. Non tralasciò di progettare neppure i letti, i lavandini e le sputacchiere. Fino agli anni Cinquanta e alla scoperta della rifampicina non esisterà infatti una vera e propria terapia contro la tbc. I sanatori non erano dunque solo luoghi in cui si veniva curati, ma quasi la cura stessa. Le innovazioni e le indicazioni di Morelli diventano così, un punto di riferimento per l’Ufficio per le costruzioni sanatoriali dell’INPFPS e per la realizzazione del Villaggio Morelli, iniziata nel 1932 e terminata dopo la Seconda guerra mondiale. Avrebbe dovuto chiamarsi “Villaggio Sanatoriale Benito Mussolini” e, se è così imponente da sembrare ad alcuni addirittura ingombrante, in parte lo si deve anche agli scopi propagandistici del fascismo e ad una sorta di competizione con la vicina Francia. Dopo la sconfitta del regime si decise però di dedicarlo a lui, a Eugenio Morelli. Del resto, era stato proprio lui ad aver guidato l’imponente piano di costruzione pubblica dei sanatori dell’INFPS. Era stato proprio lui a volerne uno sui monti della Valtellina, i suoi monti, e a seguirne i lavori, dalla progettazione alla realizzazione di ogni più piccolo particolare: le piastrelle stondate tra le pareti e il pavimento per permettere una pulizia accurata, adottate ancora oggi in tutti gli ospedali, si devono a lui. Ma non c’è solo la funzionalità al Villaggio. A fianco del medico vi era infatti l’architetto, a fianco della grande mente organizzatrice di Morelli vi era quella visionaria di Mattiangeli, responsabile della supervisione progettuale, disegnatore e artista, attento agli effetti estetici e compositivi.
La funzionalità la vedi, la poesia la respiri.

 

Respirare poesia: gli altri edifici

La rotonda in inverno.

Se prosegui lungo il viale, se oltrepassi il tornante sospeso su grandi arcate che ti sembrano – e non a caso – un acquedotto romano; se non ti lasci distrarre dai giardini all’italiana o dal delicato scroscio della piccola sequenza di cascate del fiume Rio; se non decidi di perderti tra gli alberi del bosco, nei percorsi sui terrazzamenti; se non ti fermi a respirare il profumo di glicine nelle rotonde con pergolato o ti lasci distrarre dal panorama, ma vai avanti… li incontri tutti, gli altri edifici che compongono il Villaggio. Immersi tra le ombre e le cromie rossicce e blu-verdastre del parco, spiccano gli otto grandi padiglioni di cura. Non puoi sbagliarti, le grandi verande non lasciano dubbi. Verande panciute, per dar spazio ai gomiti dei medici in visita con le loro cartelle cliniche, ai pazienti lasciati sui lettini a prendere il sole. Sono tutti orientati a sud per favorire l’elioterapia. Sono tutti identici, varia solo la tonalità del loro colore terranova – arancione per quattro e rossa per altri quattro – e un altro piccolo particolare: quattro sono ancora funzionanti e compongono l’ospedale Eugenio Morelli, altri quattro hanno i vetri delle finestre rotti e nessuno li sostituisce più.

Le verande del sanatorio. Archivio del Museo dei Sanatori di Sondalo.

Salendo ancora, ecco la piazza Morelli, il centro del Villaggio. Qui, Morelli avrebbe voluto che sorgesse un grande cinema-teatro, capace di accogliere tutti gli ospiti del sanatorio, di riunire medici, infermieri e pazienti. E allora ti fermi, anche solo un secondo, ad immaginare 1.500 uomini prima di quell’attimo, quando si apre il sipario, quando lo spettacolo ha inizio, quando le chiacchiere nei dialetti di tutta Italia diventano brusio e poi si fanno silenzio e meraviglia. Arrivi a percepire quello stesso silenzio rispettoso, carico di aspettative e stupore, ma ti accorgi che è rimasto solo lui, e un busto con le braccia conserte e lo sguardo serio di Morelli. Alle sue spalle, una grande lastra di pietra lo ringrazia con queste parole: “All’insigne tisiologo strenuo assertore e organizzatore della lotta contro la tubercolosi in Italia è dedicato questo villaggio sanatoriale ideato dalla sua mente geniale”.

Il busto di Eugenio Morelli.

Più in alto ci sono poi tutti gli altri edifici. Il padiglione amministrativo, con le due torrette semicircolari in mattoncini rossi e accanto a questo, quello dei servizi centrali che ospita i magazzini, la lavanderia, il guardaroba, la sartoria e la cucina. Spicca per il suo colore giallo, i suoi angoli smussati e i suoi finestroni opalescenti che lo fanno sembrare un’enorme lanterna. E ancora, la chiesa e il padiglione dei servizi funebri, l’autorimessa e per ultima la centrale termica e la sua ciminiera. Ti sembra di esserci già stato qui, o forse di averlo già visto da qualche parte, questo posto. Se il tuo occhio è allenato e la tua sensibilità artistica pure, ti renderai conto di trovarti dentro un quadro di Sironi o di De Chirico, con le sue piazze desolate, i suoi edifici industriali e squadrati e quelle ciminiere metafisiche: senti che nascondono un enigma, pur non afferrandolo completamente. Adesso ne hai la certezza, non è solo un sanatorio quello che è stato costruito. Non è un semplice assemblaggio di edifici differenti con funzioni differenti, ma qualcosa di molto più complesso che ha le caratteristiche di una cittadina e l’identità di un’opera d’arte.

Piazza Morelli e gli altri edifici del sanatorio.

Il museo dei sanatori di Sondalo

Ma tu sei ancora all’uscita della galleria, fermo. Ti senti stranito, vagamente disorientato e non capisci bene il perché. Ci vuole un grande spirito di osservazione o la giusta dose di consapevolezza o ancora meglio, un occhio sapiente che te lo faccia notare. “Sai a cosa serve questa galleria?” dice la professoressa Luisa Bonesio. “Proprio a nulla. Questa galleria non attraversa nessuna montagna”. Le montagne sono ovunque, come pareti infinite che circondano la conca su cui svetta il Villaggio. Alle tue spalle però, proprio sopra la galleria, c’è solo il cielo azzurro. La professoressa Luisa Bonesio è una delle massime studiose e conoscitrici dell’ex sanatorio Morelli. Docente di estetica all’Università di Pavia e geo filosofa, è la direttrice del Museo dei sanatori di Sondalo. Un museo piccolo ma così intriso di storia da strabordare. In due piani è riassunta tutta la storia dei sanatori costruiti in Valtellina durante il Novecento, grazie a una collezione di foto, di progetti originali disegnati a mano e di oggetti ritrovati al Morelli, come le sedie a sdraio per stare in veranda. E poi ci sono gli strumenti medici, scientifici e diagnostici del tempo, molti dei quali inventati presso il Villaggio stesso, luogo di ricerca e di innovazione anche in questo campo. Siringhe, microscopi, ferri per la broncoscopia, antenati del saturimetro e delle bilance di precisione.

L'interno del Museo dei Sanatori di Sondalo.

“Sono conservati benissimo e nei magazzini ce ne sono a centinaia, di pezzi così. Potremmo fare dieci musei come questo.” Inaugurato nel 2015, è stato ricavato nei locali di quella che un tempo era l’accettazione dei pazienti, ritrovata in stato di abbandono e degrado e riportata al suo antico splendore. “I materiali sono originali, dell’epoca, un restauro ultra filologico che ha ricevuto premi internazionali.” Al secondo piano, una scala a chiocciola di legno chiaro che alla luce per poco non brilla, si contorce su se stessa ed è quasi il simbolo della cura e precisione con cui ogni singola cosa è stata pensata e realizzata all’interno del sanatorio. “Tutti ci chiedono chi sia l’architetto, ma è stata realizzata da un artigiano. Sapete questa scala bellissima dove va? È un po’ paradossale, ma va al bagno.”

La scala del Museo.

È stata la Professoressa Bonesio ad avere la giusta intuizione da cui ha avuto inizio un processo di riscoperta, valorizzazione e riconoscimento del Villaggio Morelli. Suo padre era responsabile del funzionamento tecnico ed era costretto a vivere all’interno del complesso sanatoriale, per essere sempre pronto ad intervenire; sua madre era una croce rossina. La loro storia è emblematica di molte altre storie: piemontese lui e emiliana lei, si sono incontrati proprio a Sondalo. La professoressa Bonesio è nata e cresciuta all’interno del Villaggio. Dopo un’infanzia diversa dai suoi compagni di scuola che vivevano giù, al paese, un’infanzia che definisce fortunata, per i giochi tra i parchi del Villaggio, la piscine e i campi da tennis per i medici e il personale, un tempo perfettamente funzionanti, la professoressa lascia la Valtellina. Ci ritorna solo 25 anni dopo e ricomincia a interessarsi di quella che era la sua casa. Nel 2010, ha iniziato ad organizzare alcune conferenze, invitando studiosi, accademici, architetti e storici a far riemergere l’eccezionalità dimenticata, forse ignorata, del Villaggio Morelli. Successivamente, grazie alla collaborazione con l’associazione culturale Terraceleste e al Comune di Sondalo, è stato possibile iniziare a organizzare delle visite guidate all’interno del Villaggio. Lo sguardo cambia se la consapevolezza cresce. “Mi era venuta l’idea che in realtà per far capire il Villaggio bisogna portare la gente a vederlo, cioè più propriamente insegnare a vederlo. Tutti gli anni facciamo un certo numero di visite guidate in modo tale che architetti, geo filosofi e storici dell’arte possano spiegarlo, ognuno secondo il proprio sguardo. Questo ha avuto anche un certo peso”. Quest’anno il Villaggio ha infatti ottenuto il riconoscimento del Fai come Luogo del cuore, arrivando terzo tra i “Luoghi storici della salute”. Una piccola vittoria in un’altra grande battaglia che si sta combattendo al Morelli, quella contro l’incuria e la mancanza di memoria.

Il Museo dei Sanatori di Sondalo.

Il passaggio di una frontiera

Non serve a nulla la galleria di accesso al Villaggio eppure non è lì per caso. Nulla è frutto del caso e ti sembra che ogni cosa abbia il suo posto e il suo perché. Perfino gli alberi, perfino l’aria calda che ti batte sul viso e allo stesso tempo, ti rinfresca i polmoni. Passando per la galleria, senti di aver passato un limite, la frontiera di una realtà ai margini del mondo, di un luogo quasi sacro che parla un linguaggio silenzioso di profumi, colori, linee e forme. Linee e forme moderne anzi modernissime tanto da essere ancora attuali o addirittura all’avanguardia, che talvolta citano un passato lontano, ma che non accettano nessun compromesso con i cliché di quello che nella tua testa è un paesaggio di montagna, di quello che ti immagini essere un sanatorio. Creano un nuovo panorama senza essere in rivalità con tutto quello che le circonda, ma anzi valorizzandolo e rendendolo unico. E se da fuori, quando lo guardi dal basso, ti sembra che siano quelle piatte, rette, squadrate, severe, quasi ostili le linee e le forme che prevalgono, è quando sei dentro e arrivi al suo cuore, che capisci che cosa il Villaggio è veramente. Ti stupisci di scoprire i giochi morbidi e sinuosi di curve e rotonde, carezze per gli occhi, che solleticano l’intelligenza e lo spirito. Ti stupisci di scoprire che tutto, dalla composizione d’insieme fino al dettaglio più piccolo, è il frutto di un pensiero di un qualche uomo geniale e di un’alleanza stretta con la natura. Uno sforzo immenso per sconfiggere un essere invisibile. Ti stupisci di pensare che quello che oggi è un ospedale sia “bello” e bello è la parola giusta, l’unica che ti viene e che renda l’idea. Ti stupisci di provare rabbia per chi non lo capisce, impotenza e rammarico, ma anche nostalgia. Ti stupisci e ti commuovi, anche un po’. Forse ci metti del tempo ma poi finisci per sentirlo, è un luogo di cura sì, ma dell’animo.

 

Testo e foto di Martina Ferlisi. La foto delle verande è tratta dalla collezione del Museo dei Sanatori di Sondalo. © Tutti i diritti riservati. Un ringraziamento speciale per la realizzazione di questa prima puntata del reportage va alla disponibilità, gentilezza e professionalità della professoressa Luisa Bonesio e dell’architetto Giacomo Menini, curatori del Museo dei Sanatori di Sondalo. La loro passione sta facendo la differenza.