Gli ostinati di Vlahi

di

20 Giugno 2018

In un villaggio fantasma sui monti Pirin, in Bulgaria, un manipolo di visionari lotta per un futuro sostenibile

Questa mattina, aprendo la porta della scuola che è anche la sua casa, Dimitur ha trovato un piccolo involto bianco pieno di croste, con due occhi smarriti. Tremante, l’involto ha mosso la coda e si è alzato sulle zampe, che – sorpresa – sono soltanto tre.

Dimitur gli ha procurato subito del latte e una dose da cavallo di repellente per pulci. Non è la prima volta che qualcuno abbandona un animale davanti alla scuola di Vlahi. La bonaria rudezza dell’uomo che tiene in vita la School of Nature quasi da solo è conosciuta ai quattro angoli della Bulgaria.

Minuto e burbero, ma straordinariamente generoso, mi ha proibito di raccontare la sua storia. I giornalisti, dice, capovolgono la verità, e ne ha fatto le spese troppe volte. Solo lo stretto indispensabile, ho dovuto promettere.

Ecco lo stretto indispensabile. Siamo a Vlahi, villaggio fantasma alle pendici dei monti Pirin. Davanti a noi un’interminabile selva di rilievi boscosi, sotto una luna che appare enorme anche di giorno. Lunare anche il chiarore delle vette lontane, imbiancate dalla prima neve.

La strada sterrata, disseminata da innumerevoli escrementi di pecora, conduce a una piazza di cui la vegetazione sta lentamente prendendo possesso. Un platano fa ombra a una panca scassata e a due monumenti, dalle scritte, naturalmente, sbiadite, che testimoniano un passato molto più burrascoso di oggi.

Qui nacque Yane Sandanski, rivoluzionario, eroe controverso di macedoni e bulgari. Qui, nella seconda guerra mondiale, avvennero combattimenti accaniti e controversi. Oggi, invece, la grande chiesa che dà le spalle alla piazza perde lentamente l’intonaco, e le icone, sbiadite, assumono toni pastello. Due mesi fa, quando è morto l’ultimo abitante autoctono, non c’era neanche più il prete per dire la messa.

Il villaggio, a parte lo spaccio che apre solo la domenica per i pochi che tornano, nel tempo libero, a curare qualche frutteto, sembra ora appartenere alle oche di Dimitur, agli uccelli che banchettano sui sorbi e alle volpi. Eppure, sotto le apparenze, Vlahi è ancora un posto di lotta.

“Quando hai davanti un nemico più forte di te, cerchi di unire le forze”, dice Dimitur. Così, negli ultimi vent’anni, il villaggio si è inaspettatamente trasformato nel quartier generale di alcuni uomini particolarmente testardi.

 

Molto tempo prima il governo comunista, incapace di conquistarsi la fiducia di un villaggio riottoso, aveva deciso di lasciarlo morire, con una tecnica che avevo già visto in Albania: niente strade asfaltate, niente più scuole. Come prevedibile, con le famiglie costrette a trasferirsi in città, Vlahi si spopolò lentamente. “Abbiamo trovato il rudere della scuola, chiusa dal 1974, e l’abbiamo restaurato.

 

Adesso è la nostra scuola”. Quattordici letti, una sala studio, una cucina, e un gatto agguerrito per cacciare i topi. Gli insegnanti e le famiglie della regione, d’estate, ci possono portare figli e studenti.

Con l’aiuto di volontari da tutta Europa, i ragazzi imparano la complessità dell’ecosistema e la difficoltà dell’agricoltura. Imparano a riconoscere insetti, a occuparsi di oche e galline, e anche la consapevolezza di trovarsi nel mezzo di una lotta impari.

A parole infatti, dice Dimitur, sono tutti amici. “Ma il governo ci mette i bastoni tra le ruote, gli speculatori ci odiano, l’Europa ci è indifferente. L’estate scorsa – fa effetto vedere rabbuiarsi un uomo combattivo come lui – ho lottato con un grande incendio, quasi da solo. Il fuoco si è portato via una parte degli orti, le latrine, e minacciava il villaggio.

“Al potere non importa assolutamente nulla di noi”. Però, caparbio, va avanti. La sua organizzazione, CVS, da Sofia, fa quel che può. Il tempo e la fatica, però, ce li mette lui.

Quando l’estate finisce e il villaggio si svuota, è lui che si prende cura degli animali, da prima dell’alba; nelle lunghe serate d’inverno, invece, porta avanti le sue battaglie rannicchiato sul suo portatile. In uno scantinato diroccato nel terreno della chiesa, poi, ha trovato il tempo di far maturare del vino di sua produzione, prodotto con un antico vitigno georgiano, una passione che gli ha fruttato premi e riconoscimenti.

“Ho molti interessi” si schermisce. Non è a Vlahi per lavorare, ma per vivere, “e la vita è anche questo”.

L’altro visionario del villaggio è Sider. Dimitur lo descrive così: “in alcune lingue il suo nome significherebbe sidro di mele, qualcosa di dolce, mentre in altre significa ferro. Così è”.

Quando lo incontro sotto l’ombra del grande platano indossa un cappello militare e – con la sua faccia scura e i capelli lunghi – sembra proprio un guerrigliero. Faceva il pittore, un tempo. Ma un giorno, era il 1992, scoprì una nuova vocazione: salvare il patrimonio culturale e naturalistico delle montagne, che stava svanendo sotto i suoi occhi.

Sider iniziò con la razza dei cani allevate dai popoli nomadi che popolavano le montagne tra la Grecia e la Bulgaria, i Sarakatsani, o Karakachan. Delle bestie splendide e fiere, abituate a battersi con orsi e lupi per difendere il gregge.

Me ne ero già accorto da solo: appena arrivato, mentre gironzolavo per ambientarmi, me ne erano corsi incontro in dieci o venti, ringhiando e spingendomi fino all’orlo di un burrone.

Per fortuna Dimitur aveva fatto in tempo a mettermi in guardia. Dovevo solo dimostrargli, accucciandomi e guardando a terra, senza occhiali, che ero un amico; dopodiché, assicurava, avrei potuto contare sulla loro fiducia. Ci era voluto qualche minuto di puro terrore, in effetti, ma aveva funzionato.

Dopo i cani, per Sider, sono arrivate le pecore. Le karakachan sono una delle razze più antiche esistenti, immutate, sembra, dai tempi dei traci. I passi dei loro piccoli zoccoli risuonano sulla strada come una pioggia delicata. Dal loro ventre pieno di lana ruvida ci si potrebbe immaginare facilmente di scorgere Ulisse e compagni mentre fuggono dall’antro di Polifemo.

Le loro corna attorcigliate, dice Dimitur, si ritrovano nelle maschere funerarie tracie. Sider, con sua moglie e suo fratello, entrambi biologi (lui anche un valido illustratore) hanno girato per anni nelle regioni più remote, alla ricerca di pastori che ne avevano conservate alcune greggi. Hanno costituito un gregge di 400 capi, e adesso l’obiettivo di Semperviva, la loro organizzazione, è rivitalizzare l’allevamento di questa razza, valorizzarne i prodotti, ma soprattutto preservare la diversità culturale e naturale di questi luoghi.

Anche Sider, purtroppo, è scettico. Dopo aver costruito la casa e la stalla con le sue mani, è stanco di passare tre mesi all’alpeggio, lontano giornate di cammino dalla civiltà, e vedere che le istituzioni gli remano contro. I sussidi all’agricoltura, dice, arrivano nelle mani sbagliate. La corruzione dilaga, e la globalizzazione fa il resto: l’Unione europea vuole aprire il mercato alla Turchia e la sua produzione a basso costo rischia di metterli definitivamente sul lastrico.

“Mentre qui ci si può spostare solo a cavallo o in fuoristrada, intanto, l’Europa pensa alle grandi opere”. I due uomini si riferiscono alla nuova autostrada che collegherà Sofia e Salonicco e che, nel progetto, taglierà in due la gola di Kresna, a una decina di chilometri da Vlahi.

Per qualche misteriosa ragione, infatti, il Corridoio Paneuropeo IV, nel suo percorso dalla Grecia alla Germania, non può proprio evitare la più importante area protetta della Bulgaria, una valle di appena 18 chilometri. Anni di proteste e di proposte alternative non sono riuscite a spostare di un millimetro né il tracciato né le posizioni di politici ed investitori.

Non serve a niente ricordare che l’area sarebbe protetta proprio dalle leggi europee. Non saranno solo lupi, orsi, grifoni e un numero di specie di farfalle più alto che in tutto il Regno Unito a dover sloggiare: è un’ipoteca sul futuro di questi luoghi, e sulla fiducia nell’Europa da parte di gente che ci aveva creduto davvero.

“Prima del 2007, anno dell’ingresso della Bulgaria nell’Unione, l’Europa, oltre a fornire generosi volontari, forniva sostegno concreto e prometteva democrazia, inclusione e sostenibilità”. Oggi, dice Dimitur, sembra quasi uno strato aggiuntivo di burocrazia indistinguibile dall’opaco governo bulgaro. Gli attivisti di Vlahi, seppure amareggiati, continuano a fare del loro meglio.

Semperviva e l’associazione Balkani hanno fondato un centro di ricerca con tanto di museo, il Large Carnivore Education Centre.

Lo apre per me Vicky, una ragazza inglese, una zoologa, volontaria, qui grazie a un progetto europeo. Nella penombra, cartelloni e diorami parlano di lupi, di orsi e di cani, pecore e pastori. Vicky sta percorrendo da settimane le piste del Pirin per un programma di monitoraggio del lupo insieme a Helena, la biologa, moglie di Sider e impegnata quanto il marito.

La ragazza mi conduce fuori dal villaggio. Non lontano dalla cascata di Pruskalo, nell’erba gialla, scintillano i primi recinti metallici. Dietro la rete, due grandi orsi ci guardano intensamente.

Erano tenuti in cattività quando li hanno trovati, e ormai è impossibile rilasciarli. Insieme al lupo Baito, che si aggira quasi invisibile tra l’erba e i cespugli in un recinto poco distante, ricevono l’attenzione e l’affetto delle scolaresche e dei frequentatori del villaggio. Un’enorme catasta di mele, invasa dalle vespe, rende palpabile lo sforzo di tenere in piedi tutto questo con poche braccia e pochissimo denaro.

Sembra una conclusione artificiosa, ma non lo è: prima di andarmene chiedo a Dimitur cos’è che spinge lui e gli altri a fare la fatica che fanno. Nella sua risposta mi pare di sentire “a sense of beauty”. Immagino che, con il suo inglese indurito dagli anni all’aperto, voglia in realtà dire “duty”, dovere. Ma poi lo ripete, e, per quanto non ne abbia la conferma, credo che, per per lui, le due parole siano davvero intercambiabili.

Per informarsi e attivarsi in difesa della Gola di Kresna:

http://act.wemove.eu/campaigns/gola-di-kresna