Tra gli sfruttati di Cassibile

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15 Luglio 2021

Il report di Intersos, il lavoro di un prete coraggioso, l’ipocrisia del sistema del bracciantato agricolo

Cassibile è una frazione di Siracusa che conta circa 6mila abitanti. Nel corso degli anni è diventata uno snodo cruciale per lo sfruttamento dei migranti e dei rifugiati nei campi agricoli della zona. La stagione del raccolto inizia solitamente a metà marzo. Già dal mese precedente, alla spicciolata, iniziano ad arrivare gruppi di lavoratori stagionali.

Quest’anno a febbraio erano già una trentina. Con l’arrivo dei braccianti solitamente iniziavano a prendere forma i primi insediamenti di fortuna e, quando le baracche diventavano troppo visibili, venivano distrutte e poi ricostruite altrove in luoghi più isolati.

L’agricoltura costituisce un’attività chiave per l’economia locale, ma sarebbe difficile trovare forza lavoro italiana disponibile a farsi sfruttare alle condizioni imposte alla manodopera straniera.

Entro la fine di marzo, ogni anno, si contavano circa 300 lavoratori migranti e rifugiati ammassati in baracche fatiscenti per raccogliere patate fino a giugno. Di norma, gli accampamenti non avevano acqua o elettricità. Nel 2020, nel tentativo di prevenire eventuali focolai di Covid-19, l’amministrazione comunale ha fornito bagni chimici e bidoni della spazzatura.

Nel tempo, i lavoratori sono diventati sempre più scettici nei confronti dei giornalisti e riluttanti a raccontare le proprie storie di sfruttamento, poiché nulla è mai cambiato.

“È meglio essere invisibili. Ho la sensazione che quando attiriamo l’attenzione è perché siamo considerati una minaccia per l’ordine pubblico”, affermava Ali – rifugiato sudanese di 29 anni da dieci in Italia intervistato a metà giugno 2018 – quando la stagione era quasi finita ed erano rimasti solo pochissimi lavoratori nell’accampamento.

Ad aprile 2019, durante una manifestazione organizzata a Siracusa per promuovere “Lavoro & Dignità”, un ragazzo gambiano di nome Lamin prese la parola affermando: “Anche noi – le persone nere – siamo lavoratori. Vogliamo che la nostra dignità sia riconosciuta insieme alla nostra volontà di cercare un futuro migliore. Ci chiamate clandestini, ma la vostra economia ha bisogno della nostra forza lavoro”.

Qualche mese dopo, quando le patate erano state raccolte e immagazzinate in sicurezza, l’accampamento informale venne sgomberato e le baracche abbattute senza offrire alternative a chi rimaneva.

Cassibile non dista molto da Siracusa, dove negli ultimi 20-30 anni Padre Carlo d’Antoni è stato in prima linea per far fronte alla cosiddetta crisi migratoria. La parrocchia di Bosco Minniti è un faro di speranza per le persone più vulnerabili cui servono cibo, supporto o un riparo per passare la notte.

“Guarda, questi sono alcuni degli ospiti che hanno vissuto con noi” dice mostrando delle foto appese vicino al suo ufficio durante un incontro nel febbraio 2021. “Almeno 30mila persone sono state ospitate in questa chiesa e la situazione non migliora mai” spiega. “Attualmente, 25 persone vivono qui in modo stabile, tra cui una giovane madre col figlio di 2 anni e mezzo. Mangiano come elefanti e bevono come cammelli” sorride Padre Carlo. “Abbiamo sempre bisogno di aiuto per coprire le spese e fornire alle persone cibo, vestiti e assistenza medica. Inoltre, c’è un impellente bisogno di supporto per i lavoratori stagionali di Cassibile. La situazione peggiorerà nelle prossime settimane e ancora non è stato fatto nulla per accoglierli in modo dignitoso”.

Alla domanda sull’attuale pandemia di Covid-19 e sul lockdown, ride apertamente. “Non c’è stato nessun lockdown a Cassibile. L’anno scorso, a marzo, i lavoratori stagionali raccoglievano patate, vivevano come animali e se ne sono andati quando la raccolta era finita. Lo schema è lo stesso da circa 30 anni. Ogni anno, a gennaio, le autorità locali iniziano ad affrontare l’argomento come un’emergenza imprevista. A febbraio si chiacchiera molto e si agisce poco. Così, quando i braccianti arrivano, sono costretti a vivere in condizioni disumane” spiega il sacerdote. “Nessuno si preoccupa di queste persone, della loro salute, del loro lavoro, dei loro diritti di lavoratori e di esseri umani. Noi permettiamo ai caporali di gestire i rapporti lavorativi a livello privato e lasciamo l’agricoltura completamente nelle loro mani”, puntualizza. “La dimensione socio-politica del problema è costantemente presentata come un’emergenza. Le autorità pubbliche non si sentono quindi obbligate a trovare soluzioni, ma possono sfruttare i migranti per alimentare paure irrazionali e raccattare voti” precisa. Un ulteriore invito alla riflessione riguarda due temi generalmente poco seguiti: la composizione della comunità a sostegno della parrocchia e i nuovi trend emergenti. In merito al primo punto, spiega che i giovani sono quasi del tutto assenti e lui può contare su un nutrito gruppo di persone avanti con l’età che paradossalmente sono quelle che rischierebbero maggiormente qualora contraessero l’infezione. “Manca quasi totalmente il volontariato giovanile” puntualizza. Per quanto riguarda le nuove tendenze, invece, sta emergendo una sorta di “nuova e preoccupante povertà che dilaga nella fascia dai 30 ai 45 anni e non risparmia nessuno. Non ha a che fare con la nazionalità o il colore della pelle”.

Ahmet è uno degli ospiti che vivono nella chiesa di Padre Carlo, ha 37 anni, viene dal Ciad ed è arrivato in Italia 10 anni fa. Nessuno gli ha mai detto come andare a scuola, come ottenere una formazione professionale o sviluppare una qualsiasi competenza lavorativa.

L’unica possibilità che gli è rimasta per guadagnare il denaro da mandare a casa è quella di farsi sfruttare.

“Prima venivamo pagati tra i 20 e i 30 euro. Ora prendiamo circa 40-50€, ma paghiamo una quota giornaliera per andare dalle baracche ai campi, per comprare il cibo e per spostarci da un posto di lavoro all’altro”, spiega Ahmet. “Alla fine, lavori tutto il giorno, mandi i soldi alla famiglia e non ti rimane nulla. Questa non è vita. Io non sono venuto qui per essere schiavo. Voi avete bisogno di me tanto quanto io ho bisogno di voi. Dovremmo aiutarci a vicenda, ma vedo che non c’è l’intenzione di risolvere il nostro problema”, dichiara con convinzione. Quando gli viene chiesto cosa significhi vivere in un rifugio di fortuna durante una pandemia globale senza documenti, contratti di lavoro o assicurazione sanitaria, è molto chiaro. “Significa usare i tuoi pochi mezzi al massimo per non ammalarti e non essere visto esclusivamente come una minaccia per la salute pubblica, mentre i tuoi diritti continuano a non essere rispettati”.

A partire dall’inaugurazione del tardivo campo ufficiale per alloggiare lavoratori non stanziali muniti di regolare contratto, Ahmet è stato uno dei circa ottanta ospiti della struttura. L’ostello per lavoratori stagionali, costato 242 mila euro, è arrivato dopo anni di chiacchiere al vento e altisonanti proclami. I fondi c’erano, ma per cavilli burocratici non venivano mai usati per consentire di lavorare in condizioni dignitose.

Costituito da 17 unità abitative, è stato presentato dalle autorità come “una fotografia della legalità” e non include lavanderie o cucine.

Pertanto, i lavoratori hanno dovuto provvedere a lavare a mano i propri abiti da lavoro e accontentarsi del cibo – spesso insufficiente e di qualità scadente – che veniva loro fornito. Inoltre, dato che veniva garantito un solo pasto al giorno, tutto il resto era a carico dei braccianti. “Per lavorare ore sotto il sole, sollevare cassoni stracolmi a ritmi serrati hai bisogno di energia” spiega Ahmet a scanso di equivoci. “Nei campi, non ti danno niente. Devi comprare tutto tu: scarpe, vestiti da lavoro, guanti, panino, acqua. Molti bevono bevande gasate e poi stanno male” fa una pausa. “Le mani mi si riempivano continuamente di vesciche, ma non esiste la malattia nei nostri contratti. Durante il Ramadan, abbiamo perso tutti almeno una o due giornate di lavoro a settimana perché non resistevamo al mix di caldo e fatica senza bere o mangiare”.

Il quadro che emerge discutendo con Ahmet indica che non solo l’assistenza sanitaria è insufficiente (se non del tutto assente), ma spesso sono gli stessi lavoratori che evitano di rivolgersi al personale medico per timore di ritorsioni da parte di datori di lavoro e caporali.

Sono questi ultimi, infatti, a rappresentare l’anello di congiunzione fra domanda e offerta di lavoro. Provengono principalmente da Marocco, Tunisia o Sudan. Non agiscono soli, ma hanno un team di persone incaricate di controllare ferocemente il lavoro dei braccianti. A loro bisogna chiedere di fare una pausa. Non esistono bagni, si usano i campi stessi mentre fioccano rimproveri e incitazioni ad essere più svelti. Quest’anno, come conseguenza dello sgombero di marzo e della linea dura sbandierata ovunque, molti lavoratori non sono venuti o se ne sono andati una volta capito il vento che soffiava.

Secondo le stime, ci sarebbero stati circa 200 lavoratori in tutto, orientativamente metà del solito.

Benché alcuni produttori abbiano lamentato perdite nel raccolto per mancanza di personale, parlando coi lavoratori emerge che di fatto loro sono stati costretti a colmare le lacune. Lavorando più velocemente, trasportando cassoni più pesanti del solito e riempiti all’inverosimile, sostenendo ritmi impossibili anche col caldo asfissiante. Tuttavia, è innegabile, afferma con sicurezza Ahmet, che ci sia stato un miglioramento.

“Vivere in campagna, senza docce, senza bagni è assurdo. È normale che tutti ti guardano male. Mentre qui entri se hai un contratto e ti fanno il tampone per evitare contagi. Non è perfetto, ma meglio di niente” conclude. Diverso il parere di Intersos che invece quest’anno ha riportato maggiori difficoltà ad operare sul territorio cassibilese. “I lavoratori hanno mostrato maggiore diffidenza per via degli sgomberi di marzo e della linea adottata. Il nostro progetto è iniziato a metà maggio in ritardo con le tempistiche della stagionalità lavorativa e la comunicazione tra le parti coinvolte nella gestione del fenomeno è stata poco coordinata, creando ulteriore confusione nei lavoratori. Scarso è stato anche il ricorso ai van previsti dal progetto per la mobilità dei lavoratori verso i campi. È impossibile offrire un servizio di trasporto alternativo se non si colpiscono a monte le intermediazioni lavorative illegali” spiega Roberto Roppolo, coordinatore del progetto a Cassibile. “Nel 2020 nel precedente insediamento informale siamo stati l’unico reale punto di riferimento per oltre 300 lavoratori, in quel caso abbiamo dovuto constatare una maggiore apertura alla condivisione da parte dei beneficiari”

Nel febbraio 2021, Intersos ha pubblicato un report dal titolo esplicativo – La pandemia diseguale – in cui ripercorre i progetti realizzati nell’arco temporale fra febbraio e dicembre 2020 in Italia nel contesto dell’emergenza COVID-19. In Sicilia le aree di intervento sono state Cassibile nel siracusano fra giugno e luglio e Campobello di Mazzara nel trapanese fra novembre e dicembre. Nella parte orientale era attiva una unità mobile con cinque operatori, mentre in quella occidentale erano due con 11 operatori. A Cassibile il 100% dell’utenza assistita era costituita da uomini di età compresa fra i 20 e i 40 anni proveniente principalmente da Sudan, Senegal, Marocco e Gambia. A seguire, le nazionalità più frequenti erano Tunisia, Ciad, Eritrea, Costa d’Avorio, Mali, Guinea Bissau e Conakry.

Molti lavoratori hanno lo status di rifugiato politico o la protezione sussidiaria e vivono in Italia da oltre dieci anni. Altri hanno il permesso di soggiorno scaduto spesso a causa delle difficoltà burocratiche che incontrano nel rinnovarlo. Il fatto di non essere in regola coi documenti costituisce un fattore di ulteriore vulnerabilità perché li intrappola in una dimensione di lavoro grigio con contratti fittizi, sotto falso nome o con un numero di ore lavorate decisamente inferiore al reale.

La mancanza di documenti rappresenta infatti uno dei principali deterrenti a eventuali denunce e perfino alla richiesta di consulti medici. La marginalità dunque si autoalimenta irrimediabilmente.

Il report di Intersos delinea un quadro preciso sulle conseguenze della pandemia nel 2020: il 56% delle persone intervistate ha trascorso il lockdown in insediamenti informali; il 32% ha perso il lavoro e il 5% ha subito una riduzione dello stesso; il 24% non ha potuto spostarsi per lavorare. Altri elementi che emergono con chiarezza sono: la drammatica insufficienza dell’accesso ai presidi sanitari e alle cure mediche; la crescente ostilità della popolazione locale nei confronti dei braccianti che hanno spesso subito attacchi verbali e non; il difficile rapporto con la stampa che troppo spesso strumentalizza le vulnerabilità per scopi politici; l’enorme carico psicologico dovuto alla doppia condizione di isolamento nell’isolamento di braccianti e operatori umanitari. Quest’anno, invece, si è aggiunto un ulteriore ostacolo relativo alla comunicazione coi beneficiari del progetto a supporto dei braccianti.

Come illustrato da Roppolo, “Sono stati molti gli errori in ambito comunicativo. Le misure per prevenire i contagi – come i tamponi o l’accesso alla campagna vaccinale – sono state presentate inizialmente senza le dovute competenze di intermediazione linguistica ed utilizzando una modalità pseudo-coercitiva che ha permesso solo di acuire il clima di diffidenza rispetto agli operatori sul campo”. Altra criticità grave ha riguardato l’assenza di cucina e lavanderia all’interno del campo appena aperto. Paradossalmente, si è incentivata ulteriore informalità dal momento che i lavoratori preferivano recarsi a Fontane Bianche (a qualche chilometro da Cassibile) dove era sorta una sorta di piccola tendopoli in cui riunirsi proprio per cucinare e mangiare insieme. A riprova che la coercizione e la negazione dei diritti non risolvono nulla, ma aggravano soltanto situazioni già precarie.

“Stimiamo che oltre agli ospiti del campo, ci sia stato almeno un altro centinaio di lavoratori impegnati nella raccolta. Molti sono stati accolti da Padre Carlo in parrocchia, ma gli altri hanno dovuto letteralmente occultarsi in zone sempre più nascoste e isolate”, rileva il coordinatore Intersos.

Trattandosi di una questione estremamente articolata, è normale che emergano prospettive diverse, ma su un punto è possibile concordare: nessuna misura è stata attuata ad autentico beneficio dei lavoratori.

Il campo, la retorica del controllo per la sicurezza, le conferenze stampa sono solo servite a distrarre l’attenzione dal cuore pulsante del problema: l’annullamento dei diritti dei braccianti a beneficio di chi continua a sfruttarli e la creazione di ampie sacche di lavoro grigio.

Non basta, infatti, un contratto messo nero su bianco. Serve anche verificarne l’ottemperanza, comprendere le esigenze delle parti in causa, restituire una dignità che non si esaurisce installando docce e condizionatori in un luogo dove questi uomini non sono liberi nemmeno di cucinare il cibo che desiderano dopo un’estenuante giornata di lavoro.