Nicaragua, un anno dopo

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17 Luglio 2019

Studenti esiliati e famiglie, separati dal conflitto

Managua, Matagalpa (NICARAGUA) – Rosa Amelia Rodriguez non pensava di dover rivivere il trauma degli anni della rivoluzione del 1979. In quel periodo il padre socialista passava più tempo in prigione che nella sua Matagalpa, cittadina del Nicaragua settentrionale, finché un’imboscata dell’esercito di Anastasio Somoza, che governava sul paese con ferocia, lo uccise.

Rosa recuperò il corpo del padre alla stazione di polizia, la stessa dove nel giugno 2018 ha potuto riabbracciare suo figlio minore Bayardo, rilasciato dalle forze dell’ordine dopo dieci giorni passati nelle peggiori carceri del paese. Mezz’ora più tardi, zaino in spalla e qualche spicciolo in tasca, si sarebbe congedato della famiglia per provare ad attraversare illegalmente la frontiera e chiedere asilo in Costa Rica.

“Sono stata io a obbligarlo”, racconta Rosa, “lui voleva rimanere in prima linea nelle manifestazioni in Nicaragua. Ma anche i fratelli volevano che se ne andasse il più presto possibile”.

Rosa Amelia Rodriguez, nei dintorni di Matagalpa

Bayardo è uno degli oltre 55mila nicaraguensi che, secondo l’UNHCR, durante l’ultimo anno, hanno chiesto asilo in Costa Rica fuggendo della violenta repressione del governo di Daniel Ortega in Nicaragua.

Con lui sono arrivati nella “Svizzera centroamericana” migliaia di studenti, molti dei quali perseguitati e minacciati per il coinvolgimento nelle proteste di massa iniziate il 18 aprile 2018, detonatore della grave crisi sociopolitica tuttora in corso.

Da quel giorno sono state organizzate centinaia di manifestazioni in tutto il paese che però hanno gradualmente perso slancio col passare del tempo e l’aumentare della repressione da parte di polizia e gruppi paramilitari.

Un’escalation di violenza che secondo la Commissione interamericana per i diritti umani ha portato alla morte di almeno 325 manifestanti (la maggior parte studenti universitari) e al ferimento di oltre 2 mila persone. Chi è sfuggito ai proiettili vive nella paura di essere trovato, ognuno ha pronto uno zainetto con l’indispensabile per una fuga improvvisa.

“Non abbiamo perso l’entusiasmo ma Ortega, per il momento, è riuscito a congelare la situazione” ammette Rosa. A 8 ore di strada, dall’altro lato di una delle frontiere centroamericane più “calde” del momento, il figlio ventottenne cerca di rimettere insieme i pezzi della propria vita da studnte, ora esiliato a San Josè.

Bayardo Siles, 28 anni e Gender Vargas, 21. Entrambi sono studenti della UNAM di Matagalpa in esilio in Costa Rica

Dopo aver rischiato di rimpolpare le fila dei desaparecidos – che il Comitato per la Liberazione dei Prigionieri Politici ha recentemente dichiarato essere almeno un centinaio – Bayardo continua il suo impegno come sociologo e attivista per i diritti LGBTQI, spesso ospite dell’Universidad de Costa Rica.

“La realtà da richiedente asilo rimane dura” confessa. “Non ho diritto alla sanità pubblica, non posso lavorare né studiare e qui il razzismo contro noi nicaraguensi è un dato di fatto”.

Normalmente gli studenti rifugiati arrivano senza soldi (raccontano che l’iter per ricevere denaro dalle famiglie è molto complicato) e devono subito trovare un modo per far fronte ai bisogni primari. Alcuni di loro, come Bayardo, portano le ferite degli abusi sessuali subiti durante il periodo di prigionia e ricevono ora assistenza psicologica.

“A gennaio con l’aiuto delle università costaricensi abbiamo inaugurato la prima ‘casa sicura’ dove convivono una decina di attivisti in esilio” racconta orgoglioso Bayardo. “Purtroppo altri studenti non hanno avuto la stessa fortuna, finendo nelle trappole della prostituzione o del narcotraffico”.

Alejandra (nome di fantasia) è una delle inquiline della ‘casa sicura’ di San Josè. Studentessa di comunicazione alla UCA di Managua, gestita dai gesuiti e capofila delle proteste iniziate l’aprile dello scorso anno, questa ragazza di 23 anni non può rivelare il suo vero nome per le minacce subite dalla sua famiglia. “Ho dovuto sospendere tutto” dice Alejandra, che da mesi desidera tornare a casa. “Potrei farlo, ma poi uscire diventerebbe un grosso problema. Per paura di rimanere bloccata, non sono nemmeno andata al funerale di mia nonna”.

Alejandra riconosce l’immenso sforzo che i suoi genitori stanno facendo affinché rimanga al sicuro a San Josè. Nei suoi racconti mescola la rabbia per quello che è successo con la volontà di dialogare e trovare soluzioni condivise a questa crisi, perché “in Nicaragua non esiste una generazione che non abbia conosciuto il conflitto o la violenza, questo è il grande problema”.

In un bar poco frequentato alla periferia di Managua, il padre di Alejandra mi mostra sul telefono la foto delle sue figlie. Quando si parla di politica è meglio farlo a bassa voce, si raccomanda. “Alejandra non voleva andarsene, a nessuno credo sia piaciuto fuggire” ammette. “Farla andare via si è dimostrata una scelta corretta. Alcuni dei suoi compagni sono stati uccisi o arrestati, poteva benissimo succedere a lei”.

Appena terminato il caffè, il papà della studentessa in esilio (non vuole essere nominato, “più per mia figlia che per me”, dice) andrà alla manifestazione della Rotonda Centroamerica, convocata per l’anniversario delle proteste del 2018. “Sono stato ufficiale dell’esercito sandinista contro Somoza. Non pensavo che dopo 40 anni saremmo tornati allo stesso punto”.

Nemmeno il ‘tavolo di dialogo’ costituito da ormai un anno – a cui partecipano il governo, l’opposizione rappresentata dall’Alianza Civica, il Nunzio Apostolico e l’Organizzazione degli Stati Americani – ha dato i risultati sperati.

Si continua a trattare sul rilascio di centinaia di prigionieri politici e sulle responsabilità delle violenze contro i manifestanti, mentre il paese affronta una grave crisi economica che lo porterà al secondo anno consecutivo di recessione, stima l’FMI.

Anche sul fronte della libertà d’espressione la situazione rimane critica: secondo i dati della Fundación Violeta Barrios de Chamorro, durante l’ultimo anno, 477 giornalisti sono stati vittime della repressione governativa, tra cui due cronisti del canale 100% Noticias tuttora in carcere e il reporter Angel Gahona, ucciso nella città di Bluefields, sulla costa atlantica.

Rosa si passa le mani tra i capelli scuri striati di grigio. Mentre osserva la nipote giocare, ricorda i giorni e le notti vissuti alla ricerca del figlio Bayardo tra le prigioni nicaraguensi. “Ormai è passato un anno senza vederlo, ma non è ancora il momento che ritorni” spiega. “Non voglio un figlio martire. Non voglio rivivere quello che successe con mio padre. Mai più”.