Ritrovamenti

di

28 Aprile 2021

La terza puntata di “Quell’ultimo sentiero”, il reportage di Beatrice Spazzali, scelto nel 2020 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo

La terza puntata di “Quell’ultimo sentiero”, il reportage di Beatrice Spazzali, scelto nel 2020 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo.

 

La Val Rosandra, al confine tra Italia e Slovenia, è la porta di passaggio della rotta balcanica sull’Europa occidentale. Gli aspri sentieri carsici oggi meta di escursioni in mezzo alla natura vengono attraversati silenziosamente da decine e decine di profughi, testimoniando vecchie e nuove migrazioni iscritte nella memoria delle comunità locali ma disperse in quella dei più. Cosa rappresenta l’anima di questa terra di confine? Quell’ultimo sentiero di Beatrice Spazzali è uno dei due reportage scelti a Festivaletteratura 2020 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo per essere sviluppati a puntate sul sito del Festival e qui. In questa prima puntata, quattro lapidi nel piccolo cimitero di San Antonio in Bosco riportano indietro le lancette della storia al 1973, quando il destino di un gruppo di giovani clandestini cambiò per sempre in una fredda notte d’autunno.

3 puntata.

Ritrovamenti

di Beatrice Spazzali

Alle 5 del mattino del 13 ottobre 1973, Mario Osualdini prese servizio come altre volte sulla linea dell’autobus urbano 23, che collega tuttora la Stazione Centrale e la Grandi Motori Trieste, oggi Wärtsilä Italia, produttrice di motori diesel per le navi. Verso le 5:30 mise in moto l’autobus per partire dal capolinea nel piazzale della Grandi Motori, a San Dorligo della Valle, e alla prima fermata salirono due uomini di colore, uno più alto e un più basso, uno vestito di chiaro e uno vestito di scuro. Dallo specchio retrovisore notò che i due avevano regolarmente acquistato i biglietti dalla distributrice automatica ed erano rimasti fermi nella parte posteriore dell’autobus. Osualdini si meravigliò di vedere due persone di colore a quell’ora e in quel posto, ma continuò la marcia fino al capolinea della Stazione Centrale, dove scesero anche i due uomini.

Osualdini aveva un po’ di tempo prima di iniziare la corsa successiva e decise di andare a bere un caffè al bar Cattaruzza, un locale storico di Trieste ospitato nel Palazzo Berlam delle Generali all’incrocio tra le Rive e Canal Grande e chiuso definitivamente nel 2019. Qui incontrò di nuovo i due uomini, che bevvero un caffè e mangiarono una brioche. Uscito dal locale, Osualdini non li vide più, ma ne sentì parlare ancora.

Dopo la colazione, i due si diressero all’hotel Roma in via Ghega, sempre nei pressi della stazione dei treni, dove si sistemarono nella camera 1. Il portiere dell’albergo riferì che l’uomo più alto si era informato sulla possibilità di affittare camere per sette persone e il relativo costo. Salendo le scale, l’uomo più basso inciampò varie volte, mentre l’altro sembrava in condizioni migliori. Dopo circa mezz’ora passata in camera, l’uomo più alto uscì di nuovo, dicendo al portiere che sarebbe tornato con altre cinque persone, riprese l’autobus 23 e tornò verso la periferia.

I due erano Foussenou Traore e Lassana Diambou e gli altri cinque Mamadou Niakhate, Seydou Dembele, Bakary Traore, Lassana Baradji e Tidia Dafanga. Qualche ora prima avevano attraversato clandestinamente a piedi il confine tra Jugoslavia e Italia, ma quando Traore aveva chiesto informazioni al portiere dell’albergo, tre dei suoi compagni erano già morti e i loro corpi giacevano sul ciglio della strada vicino all’ex casello ferroviario di San Antonio in Bosco.

Il loro cammino era cominciato verso le 18 della sera precedente dal piccolo paese di Erpelle Cosina, avevano aspettato che iniziasse a calare il buio per seguire le luci della strada attraversando prima dei campi e poi una zona boscosa percorrendo stradine e sentieri in uno dei punti più impervi del territorio a est di Trieste, accorgendosi solo verso le 4 di mattina da un cartello stradale di essere in Italia.
Il buio e il freddo erano pungenti. Quella notte la pioggia e la bora avevano fatto abbassare la temperatura percepite fino a 2, 3 gradi. I dati rilevati dalla Stazione meteorologica di Basovizza, zona vicina a quella di Sant’Antonio in Bosco, e confermati dall’Istituto Sperimentale Talassografico di Trieste, avevano registrato precipitazioni sui 4,2 millimetri, raffiche di vento fino a 84 chilometri all’ora e umidità intorno al 92%, condizioni meteorologiche che i componenti del gruppo non erano abituati a sopportare.

Come emerge dalle testimonianze rilasciate dai superstiti nei giorni successivi, le molte ore di cammino e le temperature continentali rigide affrontate con abiti estivi avevano provato parte del gruppo. Anche il morale era basso, perché della città di Trieste, descritta come vicino al confine, non c’era traccia. Qualcuno aveva iniziato a dire che non ce la faceva più, finché Bakary Traore non era crollato a terra sfinito vicino a una casa in pietra, dove avevano cercato di richiamare l’attenzione. A quel punto Foussenou Traore si era allontanato dal gruppo dicendo che sarebbe andato nel paese vicino a cercare un taxi o un qualche tipo di veicolo per portare gli altri in città. Visto che non tornava, Djambou Lassana era andato a cercarlo, l’aveva incontrato e seguito sull’autobus della linea 23 che li avrebbe portati a Trieste.

Quando Traore tornò indietro, furono i Carabinieri chiamati dai coniugi Mari a fermarlo. Lo trovarono che camminava lungo la strada a San Dorligo della Valle mentre stavano effettuando una ricognizione delle zone vicino al ritrovamento dei corpi e dei superstiti.

Il luogo del ritrovamento dei corpi di Traore Bakary, Dembele Seydou, Niakhate Mamadou in una foto contenuta all'interno degli atti processuali.

L’attenzione che la tragedia attirò su di sé nei giorni successivi fece aumentare l’interesse nei confronti di episodi simili che da un po’ si verificavano a Trieste e anche in altre città della regione vicino al confine, confermando che la tratta aveva dimensioni in realtà più vaste e non era formata solo da singoli attraversamenti sporadici. L’ufficio stranieri delle questure della regione già da tempo avevano rilevato un aumento del passaggio di cittadini in particolare della Repubblica del Mali e della Costa d’Avorio, e gli inquirenti confermarono che a Trieste erano presenti più persone coinvolte in questa rotta. Nei giorni successivi infatti, capitò più volte che cittadini africani si presentassero in questura per chiedere asilo politico dopo aver attraversato il confine clandestinamente. Il Piccolo riporta episodi capitati a Gorizia e a Trieste, e gli avvistamenti continuarono anche da parte di escursionisti che frequentavano la Val Rosandra.

Un altro episodio significativo si verificò una decina di giorni dopo, nella notte tra il 21 e 22 ottobre, quando un ulteriore gruppo di cittadini del Mali cercò di attraversare il confine tra Jugoslavia e Italia nei pressi di Fernetti, ma venne disperso dalla polizia jugoslava che sparò dei colpi di pistola in aria. Di questo gruppo faceva parte Sangare Ntij, che iniziò a correre con altri due compagni non appena sentì gli spari e l’abbaiare dei cani. I tre fuggitivi continuarono a camminare nel bosco per diversi chilometri, finché non si persero di vista e Sangare trascorse il resto della notte all’addiaccio.

Sangare Ntij era nato nel 1941 a Marena, in Mali – anche se non ha mai saputo né il giorno né il mese – in una famiglia di contadini. Lui in Europa e in Francia era già stato nel 1962 e ci era rimasto fino al 1965. Aveva lavorato come manovale in un’industria parigina che produceva tergicristalli, finché non aveva deciso di tornare nel suo paese di origine per sposarsi essendo riuscito a mettere da parte un po’ di soldi. In Mali restò fino al 1973, ma l’aggravarsi della crisi che affliggeva il paese e la necessità di provvedere alla propria famiglia lo indussero a ripartire, anche se a distanza di quasi dieci anni erano cambiate le condizioni per spostarsi. La prima volta, infatti, era riuscito a spostarsi tra Mali e Francia in modo regolare e il viaggio era avvenuto per la via più breve, nel 1973 invece le autorità francesi non consentivano più l’immigrazione a chi non aveva trovato ancora un’offerta di lavoro, o più precisamente, a chi non aveva un datore di lavoro che avesse segnalato l’assunzione agli uffici competenti. Poiché dal Mali difficilmente si sarebbe potuto procurare questa possibilità, decise di partire clandestinamente, come tutti gli altri incontrati in questa storia.

Parte della dichiarazione di Sangare Ntij con la sua firma in stampatello.

Sparare in aria e sguinzagliare i cani sono pratiche in uso ancora oggi da parte della polizia di frontiera croata, che si aggiungono al marchiare le teste dei profughi con croci dipinte con vernice spray – come denunciato dal Guardian in un articolo pubblicato nel maggio 2020 – e ai pushbacks, i respingimenti illegali contrari al diritto internazionale, ma comunque diffusi anche negli altri paesi attraversati dalla rotta balcanica. Il Danish refugee council ha anche raccolto le testimonianze di alcune delle terribili torture inflitte ai profughi dalla polizia croata, come lesioni, segni di pugni, calci e di sevizie.

respingimenti a catena partono dall’Italia e fanno sì che i richiedenti asilo vengano fatti tornare fino in Bosnia o in Serbia, passando per Slovenia e Croazia, dove poi vengono lasciate in condizioni di abbandono morale e materiale. Attraverso i respingimenti di fatto viene impedito agli stranieri che cercano di entrare in uno Stato senza aver avuto il permesso l’ingresso in quel territorio, oppure coloro che sono già entrati vengono rimandati verso un altro Stato, di solito confinante. Il diritto internazionale però proibisce questo tipo di espulsione collettiva se avviene senza procedure legali e in mancanza di un esame individuale dei singoli casi. Gli stessi Stati sono sottoposti a dei limiti quando si tratta di espellere chi non ha titolo di stare sul territorio nazionale, perché sebbene esista l’espressione del principio di sovranità statale, gli Stati hanno l’obbligo di riconoscere e proteggere i diritti umani delle persone che si trovano sotto la propria giurisdizione. All’interno dell’Unione Europea, gli stati membri devono anche garantire il rispetto del diritto d’asilo, sancito dalla Convenzione di Ginevra del 1951.

A livello di numeri, secondo i dati riportati da Altreconomia nel suo dossier sulla rotta balcanica, dal 31 luglio 2018 al 31 luglio 2019, 361 persone sono state riammesse in Slovenia dalla frontiera di Gorizia e Trieste. A settembre 2020, il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese ha comunicato in una conferenza stampa che dall’inizio del 2020, 852 persone delle 3059 che avevano raggiunto l’Italia dalla rotta balcanica erano state riammesse in Slovenia, incluse persone che volevano chiedere protezione internazionale. A metà novembre 2020 il totale dei riammessi in Slovenia aveva raggiunto 1.240 persone. Altreconomia ammette che non c’è garanzia sulla completezza sui dati, che sono incongruenti tra quelli presentati tra i vari Stati. Ad esempio nel 2020, la Slovenia ha riammesso in Croazia 9.950 persone, di cui 1.116 arrivate dall’Italia.

Le riammissioni tra i due Paesi avvengono sulla base dell’Accordo di riammissione siglato dai due Stati nel 1996 e l’incrementazione della pratica è stata resa possibile dall’invio di 40 agenti al confine.

Una busta con all’interno alcuni oggetti sequestrati a Traore nella stanza dell’albergo Roma.

Una cosa comune a tutte le dichiarazioni rilasciate dalle persone fermate nelle vicende del 1973 riguarda il motivo del transito attraverso la Jugoslavia. Pur considerando un contesto in cui le informazioni non viaggiavano velocemente come oggi e pur non avendo una concezione precisa del percorso da compiere, molti testimoni interrogati per capire i contorni più precisi della vicenda dicevano di aver scelto di passare per la Jugoslavia perché sapevano attraverso passaparola ed esperienze di conoscenti, che la Jugoslavia era un Paese che “non faceva particolarmente storie” nel rilasciare visti turistici.

Il motivo è da ricercare nella politica estera intrapresa da Josip Broz Tito, presidente della Jugoslavia, che si caratterizzò per la sua neutralità durante la Guerra Fredda e per lo sguardo rivolto ai paesi del terzo mondo.

La Jugoslavia nacque come stato socialista dopo la seconda guerra mondiale e per questo era formalmente un alleato dell’Unione Sovietica, tuttavia nel 1948 venne espulsa dal Cominform a causa di differenze ideologiche tra Stalin e Tito. All’interno del contesto della guerra fredda, la Jugoslavia in quanto stato socialista indipendente dall’URSS non ricadeva né sotto la sfera di influenza del capitalismo americano, né sotto quella del comunismo sovietico.

La Jugoslavia era uno stato solitario all’intersezione tra il primo e il secondo mondo e in quanto non allineato con i due blocchi decise di volgere i suoi interessi al terzo mondo, e ai paesi dell’Africa e del Medio Oriente.

Nel 1956 Tito incontrò a Pola il Presidente dell’Egitto Nasser e il Primo Ministro indiano Nehru per riaffermare i principi enunciati nella conferenza di Bandung, svoltasi l’anno prima in Indonesia per riunire i paesi del sud del mondo contrari alla colonizzazione, gettando formalmente le basi del Movimento dei non allineati, che venne ufficializzato nel settembre del 1961 con un vertice a Belgrado, quando Tito incontrò i leader del terzo mondo per denunciare la politica della guerra fredda e l’ingerenza americana e sovietica nel sud del mondo decolonizzato. Il movimento riuniva paesi non affiliati né con gli Stati Uniti, né con l’Unione Sovietica e contrari a colonialismo, imperialismo, e neocolonialismo.

La cooperazione con il terzo mondo divenne parte integrante del progetto jugoslavo e si concretizzò attraverso scambi commerciali che dimostravano l’impegno messo nel cercare di creare le giuste condizioni per l’uguaglianza tra stati avanzati e stati sottosviluppati.

I legami avevano anche una dimensione umana, infatti la Jugoslavia mandò propri lavoratori nei paesi dell’Africa e dell’Asia per costruire fabbriche attuando programmi di assistenza, di contro la Jugoslavia accoglieva studenti dai paesi emergenti che potevano venire a studiare grazie a convenzioni culturali.
La rivista Yugoslav Life veniva pubblicata a Belgrado in lingua inglese e mostrava la presenza dello Stato nel movimento dei non allineati, in particolare le numerose visite di Tito nei paesi del terzo mondo o quelle che riceveva. L’editore era la casa editrice ufficiale della Jugoslavia (Tanjug), perciò spesso l’interpretazione era molto edulcorata anche in ottica del posizionamento che si voleva dare all’apparentemente instancabile programma diplomatico di Tito agli occhi dei lettori stranieri, sottolineando il ruolo cruciale che lo Stato jugoslavo aveva attribuito alla cooperazione con gli altri Stati membri.

Il Movimento dei non allineati aveva permesso alla Jugoslavia di impegnarsi ufficialmente nella liberazione e nell’uguaglianza degli stati decolonizzati, ma fornì anche alla Jugoslavia un modo per criticare le sfere di influenza sovietica e americana, da cui è stata esclusa, e differenziarsi dagli altri stati con i quali non sempre si dimostrò altrettanto collaborativa.

Testo e foto di Beatrice Spazzali. Nell'immagine di copertina, un cartello indica la prossimità del confine tra Italia e Slovenia.