L’Africa inquina meno, ma subisce di più

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19 Ottobre 2019

Intervista a Tiken Jah Fakoly, stella del raggae, tra musica e impegno contro il riscaldamento globale

Venticinque anni di carriera alle spalle, quattro dischi d’oro in bacheca, 11 undici album pubblicati. È l’identikit di Tiken Jah Fakoly, volto di primo piano della scena internazionale reggae. Quest’anno, con le sue tonalità ivoriane, ha scaldato il pubblico del festival Couleur Café. Letteralmente: il suo ultimo disco si intitola Le monde est chaud (“Il mondo è caldo”, ndt.). Intervista sul reggae. Anzi no: sul riscaldamento climatico. Visto dall’Africa, visto da Tiken Jah Fakoly.

INTERVISTA DI FRANCESCA TESTA E AMELIE’ TAGU, TRADUZIONE A CURA DI SILVIA SPOLAORE MARGAERT pubblicata su Cafébabel
FOTO DI COPERTINA DI JESSY NOTTOLA

Dopo 20 anni di assenza dagli studi di registrazione di Abidjan (città costiera del sud-est della Costa d’Avorio, ndr.), per realizzare il tuo ultimo album, sei tornato dove tutto ha avuto inizio. Cosa simboleggia questo come back?

Registrare ad Abidjan è un stato un vero e proprio ritorno alle origini. Lo ho fatto per riappriopriarmi dei suoni di inizio carriera. Nel 2007, ho deciso di lavorare in inglese per rendere davvero più “aperta” la mia musica e permettere anche a chi non ascolta il reggae di accedere al messaggio di questo genere. Ma sono stato criticato dai fan: «Sembra che il tuo suono sia cambiato, che ti allontani dalle origini», mi dicevano. Ho fatto tesoro dell’osservazione e sono tornato a registrare ad Abidjan 20 anni dopo la prima volta, con musicisti ivoriani, in uno studio locale. Il tutto per ritrovare un suono tipicamente africano. La particolarità del nostro reggae sono gli strumenti tradizionali. Non si può fare un reggae migliore di quello giamaicano, ma si può dimostrare che viene dall’Africa.

Nel tuo nuovo album Le monde est chaud, canti spesso in dioula, la lingua ivoriana. Che differenza c’è tra cantare in francese e dioula?

Scrivo una canzone in francese quando l’ispirazione nasce in francese. Se si parla di temi che riguardano la politica internazionale, è importante usare il francese o l’inglese. Ma quando vengono trattati temi di tipo sociale che devono sensibilizzare le persone in Africa, a volte, è inutile parlare in francese. Per esempio, il mio pezzo “Ayebada” parla dei matrimoni forzati. L’Africa non è l’Europa: ce ne sono ancora molti. Credo che un soggetto come questo vada cantato in dioula affinché le persone che praticano il matrimonio forzato possano ascoltare.

Qual è la rivendicazione più forte che si trova nei tuoi testi oggi?

L’ecologia. Perché il mondo “ha caldo”, il mondo è caldo, perché i dirigenti fanno fatica a prendere decisioni e applicare soluzioni sul punto. Penso che tutti debbano attivarsi se vogliamo lasciare un pianeta pulito ai nostri figli. Se vogliamo vivere in un mondo migliore. Ecco perché ho dedicato due titoli di questo album all’ecologia.

Parlare di giustizia climatica vuol dire parlare di giustizia sociale?

Penso che si debba necesseriamente parlare di giustizia sociale, anche nei confronti dell’Africa. L’Africa inquina meno, ma subisce subisce di più. E se c’è un’ingiustizia, ci deve essere una mobilitazione.

E i giovani? La mobilitazione europea per il clima? I Fridays for Future?

I giovani sono la classe dirigente di domani. La mobilitazione degli studenti dà speranza. Se i giovani si attivano significa che avremo una classe dirigente migliore in futuro e, dunque, il pianeta starà meglio. Le nuove generazioni hanno ragione a protestare. Devono continuare a resistere, manifestare, provocare un cambiamento. Penso che grazie a queste mobilitazioni, i politici si attiveranno.

La musica può cambiare lo stato delle cose?

Sì, perché la musica sensibilizza le coscienze. Sensibilizza, non risveglia. Esistono dinamiche sociali inaccettabili nel mondo e la musica contribuisce a sensibilizzare le coscienze ribelli. Il reggae è la musica del popolo. Tratta soggetti che altri generi non toccano spesso: è una musica sacra.

Tiken Jah Fakoly al festival Couleur Café © Leen Van Laethem

Nel tuo ultimo album canti con Soprano e hai scritto una canzone con Gaël Faye. Il passaggio del testimone è assicurato?

Il tema dell’ecologia è talmente importante che ho voluto chiamare un artista che può arrivare là dove io non arrivo. Ci sono persone che ascoltano Soprano, ma che non ascoltano me. E Gaël Faye fa parte del parco autori emergenti: volevo lavorare con loro per portare la lotta un po’ più lontano.

Il progetto Radio Libre Fakoly si inserisce in questa volontà di responsabilizzare di più i giovani?

Radio Libre Fakoly vuole contribuire allo sviluppo della cultura in Costa d’Avorio. Per questo motivo, ao anche aperto una biblioteca perché le persone possano informarsi sulla cultura del reggae e sul panafricanismo.

Nei vostri testi, la nozione di panafricanismo è molto presente. Perché?

Il panifracanismo non è importante: è fondamentale. Nessun Paese africano potrà farcela da solo. Gli Stati Uniti sono potenti perché sono un insieme di stati. Anche l’Unione europea l’ha capito. Gli africani devono comprendere che gli Stati Uniti d’Africa possono imporsi a livello globale. Anche se questo mondo contemporaneo sembra una giungla. Affinché l’Africa possa difendersi deve essere forte. E per essere forte, deve parlare con una sola voce. È questo che ci permetterà di evadere la dinamica del sottosviluppo e la mancanza di rispetto. Perché oggi, gli africani non sono ancora rispettati. Per bombardare la Libia, nessuno ha chiesto il parere dell’Africa. Ma quello del Consiglio di sicurezza dell’ONU.

Cosa pensa della politica europea in materia di immigrazione? Non credi che sia più vicina al “chiudere”, invece che all’“aprire” le frontiere?

Penso che sia necessario trovare una soluzione affinché i giovani africani possano restare nel loro continente. I dirigenti europei devono appoggiare lo sviluppo di una buona governance e la lotta contro la corruzione in Africa. La soluzione non consiste nell’erigere muri e creare barriere. Ho cantato “Ouvrez les frontières” (“Aprite le frontiere”, ndt.) per denunciare l’ingiustizia: gli europei vengono in Africa quando vogliono, fanno quello che vogliono, prendono quel che vogliono. E, se lo desiderano, restano quanto vogliono. Gli africani non possono fare lo stesso in Europa. ISe i nostri antenati fossero tutti partiti, forse saremmo ancora schiavizzati. Se i nostri genitori fossero tutti fuggiti, forse l’Africa sarebbe ancora colonizzata. Invece, sono rimasti e si sono battuti. E hanno abolito la schiavitù e sospinto la decolonizzazione. Dobbiamo restare e fare tutto il possibile per abbattere la corruzione, per fare dell’Africa un continente da sogno, perché la natura ci ha dato tutto.

«E se c’è un’ingiustizia, ci deve essere una mobilitazione»

In questo momento si parla molto del ritorno di Laurent Gbagbo in occasione delle elezioni presidenziali ivoriane dell’anno prossimo. Qual è la vostra opinione a questo proposito?

Penso che dovrebbe ritirarsi per evitare nuove tensioni. Anche i suoi avversari dovrebbero fare lo stesso: il presidente Alassane Ouattara e l’ex presidente Henri Konan Bédié (Gbagbo, Ouattara e Bédié vogliono candidarsi alle elezioni presidenziali, ndr.). Ho suggerito agli ivoriani di manifestare, di chiedere a questi leader di non presentarsi. Naturalmente sono stata attaccato dalle fazioni di turno. Pensano che ci sia ancora posto per loro in questo Paese.

In Le monde est chaud, canti “certains disent que Fakoly c’était, ils ont raison” (“Alcuni dicono che Fakoly è acqua passata, hanno ragione”, ndt.). Hanno effettivamente ragione?

Il titolo di questa canzone è “Ngomi”, il nome di una focaccia che si fa dalle mie parti e che è grigliata su entrambi i lati. Un po’ come me: quelli che sono oggi al potere acclamavano le mie canzoni quando erano all’opposizione. Ma adesso che stanno alla guida del Paese, non amano più il mio messaggio. Questi leader pensavano che fossi un militante del loro partito. Ma quando le cose non vanno bene, io non ho problemi a dirlo. Oggigiorno faccio meno concerti, anche in Costa d’Avorio, perché gli sponsor hanno paura delle ritorsioni dei dirigenti.

C’è una differenza tra il Fakoly di 25 anni fa e quello di oggi?

Sì, la saggezza. Soprattutto nei miei testi. E poi sul palco salto meno (risata). Ma direi proprio che è la saggezza. Sebbene non sappia quanto sarà difficile questa mia missione, so dove sto andando. Quello che voglio fare è sensibilizzare gli africani e informare il resto del mondo su quello che succede realmente nel mio continente. Ed è un lavoro enorme, perché la gente non conosce davvero l’Africa. Eppure, conosciamo la storia del Belgio, della Francia, ecc.. Prima della colonizzazione, esisteva già una civilizzazione africana, ma in molti pensano ancora che la storia dell’Africa sia iniziata con la schiavitù. C’è ancora molta strada da fare per informare le persone. Ma è una missione nobile.