Sergio Blanco e la bellezza letteraria della violenza

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22 Giugno 2019

Intervista al drammaturgo e regista teatrale franco – uruguaiano

Ospite internazionale all’International Workshop Festival PerformAzioni di Bologna appena conclusosi, il drammaturgo e regista franco-uruguaiano Sergio Blanco è considerato una vera rivelazione del teatro sperimentale contemporaneo.

In prima nazionale ha tenuto, il 31 maggio scorso, nel capoluogo emiliano, una conferenza-spettacolo, regista di se stesso, incantando il pubblico e facendo emergere la poeticità della violenza da innumerevoli testi letterari, a sostegno di quello preso metaforicamente ad archetipo, I fiori del male di Baudelaire, elevato a celebrazione della violenza.

Insieme alla violenza-bellezza il drammaturgo indaga, e attua lui stesso, l’autofinzione, scavando nella psicologia di molte figure emblematiche delle letterature di più epoche, facendo esempi su San Paolo, il marchese De Sade, Santa Teresa e citando scrittrici maledette, ma solo nel verbo, che creano poiché sono state delle vere e proprie precorritrici dei tempi: Virginia Woolf e Gertrude Stein.

Dal 2014 inizia l’investigazione approfondita sull’autofinzione, a seguito dell’assegnazione della direzione per progetto tematico assegnatogli dall’Istituto di Arte Scenica dell’Uruguay.

foto di Andrea Bastogi

All’ottava edizione del Festival PerformAzioni di Bologna terrà un workshop- spettacolo ispirato all’opera I fiori del male di Baudelaire, che lei ha sottotitolato “la celebrazione della violenza”. Nelle sue opere la violenza, abbinata spesso all’immoralità, ha sempre un ampio spazio. Cosa la attrae così tanto di questo comportamento umano per essere frequentemente presa in considerazione?

Da un lato terremo un seminario sull’autofinzione e dall’altro offrirò una conferenza autofinzionale dal titolo ‘I fiori del male o la celebrazione della violenza’. Sono due diverse attività. Per quanto riguarda la mia conferenza autofinzionale, non è ispirata a Flowers of Evil di Baudelarire: il titolo si riferisce a quest’opera ma il mio testo non è ispirato a quello di Baudelaire. Scrivere di violenza mi interessa molto perché è uno degli aspetti che ci rendono esseri umani. La violenza è in noi, è parte di tutti noi e io sono molto interessato a parlare di tutto ciò che ci abita.

Quale è la sua indagine psicologica sull’essere umano che perpetra una qualsivoglia violenza ai danni di altri soggetti?

Non ho alcuna ricerca psicologica su questo, ho solo una posizione etica e questa è
la condanna ferrea e chiara di tutti i tipi di violenza. La violenza è qualcosa che respingo profondamente.

Considera la violenza un impulso intrinseco della natura umana oppure qualcuno ne è fortunatamente immune?

Penso che sia qualcosa che è in tutti noi. Non penso che possiamo essere immuni da
essa. Chi lancia la prima pietra per essere immune alla violenza?

Per approfondire la sua conoscenza sugli atti, o anche solo i pensieri violenti, è lecito immaginare che abbia attinto probabilmente da discipline quali la criminologia e la psichiatria. Le sembra che riescano, queste scienze, a spiegare i
moti dell’animo che confluiscono in violenza, oppure è un argomento talmente complesso e profondo che si può solo affrontare con l’intuizione sensoriale che
passa attraverso l’arte, sia letteraria che drammaturgica?

Ci sono molte discipline che ci permettono di spiegare i movimenti dell’anima. In
questa conferenza non ho fatto ricorso alla ricerca di alcuna disciplina che possa spiegare la violenza, ma quello che ho fatto è stato ricorrere alla letteratura e alla mia storia per parlare del potere che la violenza ha in questi due territori che sono il testo e il corpo.

La società contemporanea è impregnata di violenza: le sue opere vogliono smascherarla per dare opportunità di prenderne coscienza oppure le dà ispirazione
per sondare l’umanità e carpirne le sfumature? Quindi solo a un personale giovamento?

Tutte le società e i tempi erano impregnati di violenza, penso che la violenza del
nostro tempo sia quella che sentiamo di più e fa male perché è il momento in cui
dobbiamo viverla, ma la violenza è sempre esistita attraverso la storia dell’umanità. I miei lavori non cercano di smascherare nulla. Non saprei come farlo. E sono molto più interessato al processo di mascheramento rispetto al processo di smascheramento. Nel teatro, il nostro compito è mascherare, cioè giocare con le maschere. Quello che mi interessa è il secondo quesito, cioè sondare l’umanità e soprattutto cercare di coglierne le sfumature. Per quanto riguarda il fatto che sia un vantaggio personale, è possibile che lo sia, ma che in qualche modo sto provando a condividerlo con gli altri.

Autofinzione: spesso rispetto alla sua produzione teatrale si è parlato di confine labile tra realtà e finzione. Quanto in questa società che si racconta online l’autofinzione è diventata il nuovo discorso pubblico?

L’autofinzione non è qualcosa di nuovo, è sempre esistito, da Sócrates e San Paolo,
passando per San Agustín, SantaTeresa, Montaigne, Rousseau. Non è un nuovo discorso pubblico. È qualcosa di molto antico. Quando lavoro con la narrativa del sè, non mi sento moderno ma assolutamente vecchio. E mi piace. La nostra società online è l’opposto della narrativa. La società online si basa sull’egocentrismo, sul guardarsi l’ombelico, sul confinamento egoistico e narcisistico dell’individuo. L’autofinzione è l’opposto: è una procedura in cui il sé propone la sua storia ma nella ricerca dell’altro, poiché la narrativa consiste nel partire da se stessa ma per parlare degli altri. La parte autofinzionale del corpo di uno ma per raggiungere il corpo di tutti. È un atteggiamento universalista che propone che finalmente ciò che accade a uno può accadere a tutti noi. L’autofinzione è profondamente favorevole: è la ricerca della storia di un altro attraverso la mia storia.

Quanto crede che, a livello politico, si possa parlare di un’istituzionalizzazione dell’autofinzione?

L’autofinzione non sarà mai istituzionalizzata perché propone un modo di concepire
l’esistenza umana che non si adatta al potere politico. L’autofinzione arriva a sollevare questioni che riguardano il potere, ad esempio la non-esistenza di un io singolo e indivisibile ma l’esistenza di diversi sè che ci abitano. Questo è qualcosa che disturba fortemente il potere politico che per controllarci ha bisogno dell’esistenza di un singolo io indivisibile facile da manipolare, da controllare e dominare. Un altro aspetto che la narrativa di sé propone è porre fine alla supremazia del reale, cioè di promuovere la menzogna, l’irreale, la finzione. E questo è qualcosa che va contro qualsiasi istituzione che non consista in qualcosa di diverso dalla preservazione del reale.

Chi è il suo spettatore tipo? Ha mai verificato cosa raccoglie il suo pubblico attraverso l’influsso pedagogico del teatro?

Non credo che il teatro debba svolgere una funzione né pedagogica né educativa, né,
molto meno, didattica. Il pubblico non viene a teatro per essere istruito o educato. Trovo che sia offensivo verso il pubblico. Questo suppone che io sappia qualcosa che loro non sanno e che poi insegnerò. Penso che questo modo di vedere il teatro suppone di infantilizzare il pubblico. Io non ho più sapere del pubblico, né faccio finta di insegnare qualcosa. Spero solo che il pubblico arrivi e che le loro emozioni, i loro pensieri, i loro corpi siano attraversati dall’esperienza teatrale.

foto di Andrea Bastogi

Se la violenza, moltiplicata dalle proprie innumerevoli facce, si nasconde ovunque e nessuno né è immune, sia nel riceverla che, talvolta, nel perpetrarla, scrivere di violenza o anche portarla in scena, è sì renderla evidente ma anche una (voluta o non consapevole?) forma di intermediazione espressiva per ricercare un modo di estirparla.

Quale è l’attuale ultra-totalitarismo secondo Sergio Blanco? Il drammaturgo uruguayano non ha dubbi : è sicuramente il neoliberismo la forma di violenza che più perpetra sopruso in questo momento sull’essere umano; una forma di pressione psicologica che spinge a deprimere l’individuo rendendolo schiavo di possedere il più possibile di ciò che i mercati offrono. Una forza così intensa da rendere le persone delle vere macchine di consumi. Un’ ultramoderna forma di schiavitù, non più fisica ma molto più sofisticata: l’asservimento psicologico.