Usa, epidemia di oppiacei

di

15 Settembre 2020

Intervista a a Francesco Costa

Sulla mia felpa rosa il suo nome è inciso a grandi lettere: Lil Peep. Astro nascente nella scena musicale, grazie a sonorità uniche e innovative che mischiano, sia dal punto di vista melodico che contenutistico, il punk-rock e la subcultura emo con l’hip-hop e la più contemporanea trap.

Destinato a essere uno dei grandi della musica è morto a 21 anni appena compiuti, nel novembre del 2017.

Lil Peep stava velocemente diventando un’icona artistica che incarnava ed esprimeva il malessere largamente diffuso tra i giovani. Fragile, vulnerabile, afflitto dai suoi demoni interiori da cui non vedeva scampo e che cercava di soffocare e sfogare attraverso l’abuso di droga e la musica. Nei suoi testi amari, dove a ricorrere in maniera ossessiva erano proprio i riferimenti alla droga ma anche ai pensieri suicidi e all’ansia sociale, riversava il dolore e palesava il suo stato di depressione e instabilità psicologica.

A causarne la morte, in quel novembre, una overdose da fentanyl e xanax. Nel suo corpo l’autopsia rinvenne anche tracce di cocaina, marijuana e innumerevoli oppiacei. Nonostante uno stile di vita che difficilmente può portare ad un esito diverso, la sera in cui si spense seduto sul divanetto del suo tourbus, Lil Peep non cercava la morte.

A fargli pagare il prezzo più alto è stato il fentanyl, un oppioide sintetico usato in campo medico come anestetizzante, decine di volte più potente di morfina ed eroina. Una dose di soli 2 milligrammi è fatale.

Nel 2017, insieme a Lil Peep, morivano di overdose altre 70 mila persone nel paese, più di quante ne muoiono in un anno a causa di armi, incidenti stradali o HIV.[1]

O più di quanti soldati americani hanno perso la vita nella sanguinaria guerra del Vietnam. Dei 70.237 decessi di quell’anno, 46.200 sono connessi agli oppioidi.[2]

I numeri legati alle morti da overdose sono cresciuti anno dopo anno, in maniera costante ed esponenziale, dagli anni ’90 al 2017. Dopo un significativo calo nel 2018, il numero di morti nel 2019 ha superato la cifra record del 2017, arrivando a 71.199 vittime di cui 37.137 causate dall’assunzione di fentanyl o simili, stando alle stime preliminari del Centers for Disease Control and Prevention riportate dal The New York Times.[3]

Per far chiarezza su questa epidemia che dagli anni ‘90 ad oggi ha stroncato centinaia di migliaia di vite, ho rivolto alcune domande a Francesco Costa, vicedirettore de Il Post, che da molto tempo si interessa agli Stati Uniti, su cui, oltre ad aver scritto un libro dal titolo Questa è l’America, conduce un podcast chiamato Da Costa a Costa.

Come si spiega questo incremento esponenziale delle morti da overdose dagli anni 90 a oggi, con una crescita particolare delle morti collegate agli oppioidi?

Le ragioni sono molte. Innanzitutto, dagli anni ‘90 in poi vengono introdotti questi farmaci, vengono scoperti, sintetizzati, autorizzati e diffusi sul mercato. Incontrano subito un’ampia diffusione e un ampio utilizzo, di nuovo per diverse ragioni. Quello è il periodo in cui la prima generazione che non ha fatto la guerra perché era troppo giovane negli anni della seconda guerra mondiale e quindi una generazione che ha lavorato tutta la vita in un periodo di grandissima crescita economica, gli anni della ricostruzione, gli anni del boom, diciamo degli anni 50-60 in poi, si ritrova negli ‘90 a essere alle porte della pensione o magari a esserci appena entrata, dopo una vita di lavoro a volte anche molto faticoso. Lo sviluppo economico della seconda metà del 900 è uno sviluppo economico trascinato dalle fabbriche, dalle industrie dell’auto, dal settore manifatturiero e meno dall’economia dei servizi come oggi. E quindi sono persone che hanno spesso dei dolori cronici. Se hai lavorato in catena di montaggio o in miniera per 15-20 anni, è facile che,

anche se non hai grandi problemi di salute, hai un dolore cronico che non va mai via e che quindi va solo contenuto con gli antidolorifici. Inoltre, sempre in quegli anni le terapie per curare i tumori diventano più efficaci ma anche più aggressive. Sappiamo che le chemioterapie e le radioterapie producono degli effetti collaterali con dolori e nausee molto forti, queste terapie diventano più efficaci ma a un prezzo: il dolore, che viene appunto combattuto con questi antidolorifici sempre più potenti. Altra causa, nasce una discussione collettiva in quegli anni negli Stati Uniti e non solo, nella comunità medico-scientifica, soprattutto tra i medici, rispetto alla terapia del dolore, rispetto al modo in cui i medici devono farsi carico non solo di curare la malattia ma anche di curarne questo sintomo così importante che è il dolore. Il dolore è un qualcosa di cui si parla ancora oggi e che è sempre stato, soprattutto in passato, un po’ snobbato dai medici andando a occuparsi soprattutto delle cause di quel dolore. E invece [in quel periodo] ci sono tante conferenze, tante ricerche, tanti articoli che dicono “dovete prendere sul serio i dolori dei pazienti, il dolore va contenuto e curato in quanto tale, dovete liberarvi di tutte una serie di leggende metropolitane e di retaggi antichi secondo cui il dolore tempri le persone o che i bambini non lo provino o che le donne abbiano una soglia del dolore molto più bassa di quella degli uomini”. Insomma, i medici vengono messi sotto una certa pressione, anche da parte del governo, perché prescrivano gli antidolorifici, perché prendano sul serio questi farmaci. Oltre a tutto questo, il fatto che questi farmaci fossero arrivati sul mercato, fossero molto efficaci, il loro utilizzo fosse incentivato, che ci fosse una popolazione molto ricettiva per vari motivi, fa sì che le case farmaceutiche comincino una promozione molto aggressiva di questi farmaci: sia verso i medici che venivano invitati a prescriverli e subivano pressioni, pressioni legali come avviene tuttora, oppure ricevevano inviti ai convegni, qualche regalo ogni tanto e così via; sia pressioni sulla popolazione, attraverso spot televisivi che mostravano queste persone anziane che non potevano alzarsi dal letto o che dopo uno sforzo dovevano stare a lungo a riposo improvvisamente potevano di nuovo giocare con i nipoti, potevano fare lunghe passeggiate, potevano tornare a lavorare se avevano smesso per via di questi acciacchi, insomma erano rinate. Quindi gli stessi clienti si rivolgevano ai medici chiedendo che gli fossero prescritti questi antidolorifici che potevano ridargli la vita. Da qui comincia l’epidemia di fatto, quest’adozione sempre più larga e sempre più indiscriminata che produce dipendenza, che produce un consumo anomalo di questi farmaci e che alla fine per molti produce il passaggio a sostanze ancora più pesanti come l’eroina e che produce il dato di morti di cui parlavi poco fa.

 

La crisi ha colpito la popolazione americana in maniera eterogenea o si notano delle differenziazioni legate a ceto sociale, al genere, gruppo etnico o al luogo?

 

Si notano, si notano le differenze. Questa è una crisi che ha colpito persone che non ricadono dentro lo stereotipo del dipendente americano e cioè di solito di una persona giovane, non bianca, spesso che vive nelle periferie delle città, nelle zone dello spaccio delle città americane da Baltimora a Chicago a New York, quei contesti lì. Questa è un’epidemia che ha colpito altrove, perché ha colpito soprattutto le comunità in cui il problema del dolore cronico, il problema dell’invecchiamento della popolazione che porta a dolori, tumori e patologie varie da curare con questi antidolorifici è più grande. E quindi soprattutto nel Midwest, il cuore del settore industriale americano nella seconda metà del Novecento, soprattutto nelle comunità rurali e nelle comunità bianche. Comunità che tra l’altro erano molto poco attrezzate, anche sul piano culturale, ad affrontare un caso di tossicodipendenza in famiglia perché non erano pronte, anzi pensavano che la droga fosse un problema di quelle persone che stanno in città e fanno delle vite dissolute, pensavano che la droga fosse una dipendenza da curare attraverso la punizione e non che fosse una condizione sanitaria da curare con un medico e quindi pensavano fosse qualcosa da nascondere, da non dire al proprio medico. Ma c’è un altro motivo anche che ha fatto sì che i bianchi fossero più colpiti dei neri rispetto a questo tipo di consumo. Dato che lo stereotipo del tossicodipendente americano è lo stereotipo soprattutto di un giovane afroamericano, i medici stessi, come è stato riscontrato da varie ricerche, erano meno propensi a prescrivere questi farmaci ai neri perché pensavano che per loro fosse più rischioso, mentre erano molto più propensi a darli ai bianchi, perché pensavano che i bianchi non sarebbero mai diventati dipendenti come invece succedeva agli afroamericani. Invece, non solo vennero smentiti dai fatti, ma anzi fecero sì che tra i bianchi delle comunità rurali, soprattutto nel Midwest americano, il consumo e l’abuso di questi farmaci diventasse diffusissimo.

 

Cosa sta facendo l’amministrazione per fronteggiare la crisi? E se c’è stato un cambio di strategia nelle modalità di fronteggiare la questione rispetto all’amministrazione Obama?

 

Questa è una crisi che si è mossa molto a lungo sottotraccia. Nel senso che è stata poco raccontata dai giornali e non è stata presa particolarmente sul serio dai vari livelli di governo americano, da quello statale a quello federale. Negli ultimi anni dell’amministrazione Obama è diventato evidente come fosse una gravissima piaga e già negli ultimi 2-3 anni dell’amministrazione Obama sono stati stanziati dei fondi e aiutati gli stati. Sono state poi avviate delle azioni legali contro le case farmaceutiche che in moltissimi casi avevano capito che c’era in corso un grande mercato nero di questi farmaci, perché vedevano degli ordini completamente anomali arrivargli da paesini molto piccoli che magari ordinavano milioni di pillole ed era quindi chiaro che qualcosa non funzionasse. Nonostante questo le case farmaceutiche non si sono fatte nessun problema a continuare a vendere senza denunciare che probabilmente stava accadendo qualcosa di strano. Trump che si è concentrato soprattutto sui bianchi e sui bianchi del Midwest, ha battuto molto su questo fatto in campagna elettorale e quando è diventato presidente ha approvato un ulteriore stanziamento di fondi per gestire questa epidemia. Nel frattempo, le altre cose che sono state fatte sono state: emanare delle nuove regole su questi farmaci ma soprattutto richiedere con metodi di pressione molto forte ai medici di prescriverle con grandissima attenzione e non a cuor leggero come prima. Devo dire che oggi l’abuso dei farmaci antidolorifici a base di oppiacei è, secondo me ma lo dicono anche i dati, in forte diminuzione. Io credo non solo e non tanto per via dell’intervento di questo o di quel governo […] ma perché adesso è diventata una storia di dominio pubblico, nel senso che adesso nessuno prende questi farmaci a cuor leggero. Chi prende questi farmaci sa che cosa sono. Ci sono anche persone che ne sono diventati completamente dipendenti, ma nessuno pensa di prendere un antidolorifico innocuo o qualcosa che ti farà migliorare la vita e basta. Tutti hanno capito e sanno perché ormai queste storie sono onnipresenti, sono state raccontate adesso anche dal cinema, dalle serie tv, dagli articoli di giornale. È nella cultura di tutti il fatto che questi farmaci vadano presi con grande attenzione. Una sensibilità che dieci anni fa non c’era minimamente.

 

Nonostante il cambio di rotta nella consapevolezza del problema, quali ritieni che siano i principali limiti del sistema che tuttora persistono e impediscono di combattere più efficacemente l’epidemia?

 

Il cambio di approccio e sensibilità c’è stato. O meglio, non è stato un cambio di approccio, ma questa sensibilità che prima era poco presente, solo in certi settori, certe comunità, certi territori e certi gruppi di persone oggi è molto più intensa, molto più forte e più diffusa. E questo si è ottenuto a forza di parlarne, a forza di raccontare storie terribili, a forza di mostrare dei dati, ma anche a forza di vedere questa epidemia diffondersi. Quando si parla di 70 mila morti l’anno come è stato in America nel 2017 non si tiene conto del fatto che ognuno di quei morti aveva una famiglia, degli amici e poi ci sono quelli che non sono morti. Questa è un’epidemia che ha toccato tantissime persone e parliamo solo di un anno. Poi c’è l’anno successivo e l’anno dopo ancora. E quindi a un certo punto l’epidemia assume dimensioni tali che difficilmente nella tua vita non conosci qualcuno che ha un amico che non è stato coinvolto in qualche modo in questa storia e quindi adesso è diventato davvero molto di dominio pubblico. Ci sono naturalmente delle cose strutturali che sono state cambiate, risolte, sia le dosi di questi farmaci sia le ricette con cui vengono preparate le pillole. Ad esempio, all’inizio si sminuzzavano con grande facilità e quindi potevano anche essere sniffate mentre oggi no. [sono cambiate anche] Le regole con cui le case farmaceutiche devono monitorare o no gli ordini. Insomma, ci sono state tante cose che sono cambiate. Ma dal punto di vista culturale più che strutturale, gli Stati Uniti rimangono un paese che si tuffa sulle novità e su tutto quello che di nuovo può migliorargli la vita con una certa incoscienza. Lo fanno con tutto, lo fanno anche con cose molto più innocue dei farmaci, ma lo fanno anche con i farmaci. Questo è un tratto culturale americano. Dove noi siamo molto prudenti, al limite a volte dell’immobilismo, nell’adottare cose nuove, nel fidarsi delle novità, nel modificare lo status quo, gli americani sono sul livello completamente opposto. Questo gli ha dato un’economia straordinariamente dinamica, un posto ricco di opportunità, in cui è molto facile aprire un’impresa, avere successo eccetera. Dall’altra parte, in senso negativo, gli ha dato questo tipo di rischi. […] In Italia abbiamo avuto il problema opposto, che questi farmaci non tanto venivano prescritti con grande prudenza ma proprio non venivano prescritti sulla base del fatto che c’era il rischio di. Quando questi farmaci possono essere molto utili, sono degli antidolorifici potentissimi che possono cambiare la vita di chi sta male. Certo, devono essere prescritti con attenzione ma noi italiani interpretiamo questa attenzione come “okay, non lo facciamo del tutto”, al punto da dover arrivare a invitare i medici a prescriverli di più. In America questa attenzione culturalmente non c’è del tutto e quindi si buttano. Risolta questa epidemia dei farmaci, il tratto culturale rimane e potrebbe tranquillamente succedere qualcosa di simile o relativamente simile in futuro perché gli americani rimangono fatti così.

 

Il coronavirus ha avuto importanti conseguenze in ambito economico e sociale, pensi che determinerà dei cambiamenti anche per quanto riguarda l’abuso di oppioidi da parte della popolazione?

Non saprei. È vero che il corona virus possa lasciare strascichi di salute anche molto pesanti su una parte dei pazienti guariti, questi strascichi possono portare all’assunzione di più farmaci. Dall’altra parte, soprattutto, gli Stati Uniti stanno vivendo la peggiore e più grave crisi economica degli ultimi 100 anni e la crisi economica genera sofferenze mentali e fisiche, per via di cure rimandate o a cui non si può avere accesso, e che possono portare ad assumere più antidolorifici. Il rischio che possa esserci questo tipo di legame causa-effetto probabilmente c’è. Io tendo a pensare che sugli antidolorifici ci sia oggi una nuova e forte sensibilità da parte sia delle persone che dei medici. Naturalmente chi è già dentro la dipendenza fa molta fatica ad accorgersene. D’altra parte tutti sanno che l’eroina ti uccide ma questo non vuol dire che nessuno la compri o nessuno l’assuma, anzi il passo va sempre dai farmaci antidolorifici all’eroina per chi ne diventa dipendente. Il rischio c’è ecco. Non mi spingerei più avanti di così, non so se succederà. Il rischio c’è perché abbiamo visto che questo tipo di abuso e dipendenza si diffonde più largamente tra le persone che sono in grande difficoltà economica e tra le persone che hanno problemi fisici pregressi.

NOTE

[1] https://www.nytimes.com/interactive/2017/04/14/upshot/drug-overdose-epidemic-you-draw-it.html

[2] https://www.drugabuse.gov/drug-topics/trends-statistics/overdose-death-rates#:~:text=Opioid%2Dinvolved%20overdose%20deaths%20rose,in%202018%20with%2046%2C802%20deaths.

[3] https://www.nytimes.com/interactive/2020/07/15/upshot/drug-overdose-deaths.html