Venezuela. Arlacchi: “I media riflettono quelli che sono i poteri dominanti”

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29 Marzo 2019

Intervista a Pino Arlacchi, vicesegretario Generale dell’Onu dal 1997 al 2002

Le ultime notizie dal Venezuela descrivono un Paese in piena crisi. Le cifre dell’Onu parlano di 3,4 milioni di venezuelani fuggiti dal loro Paese dall’inizio della crisi politica ed economica. Si tratta del più grande esodo nella storia recente dell’America Latina.

Agli scontri violenti tra polizia e opposizione che lasciano sull’asfalto quasi ogni giorno vittime da entrambe le parti, alla fame di un popolo costretto a fare ore di fila per ricevere del cibo, alla mancanza di medicinali e agli scaffali vuoti dei supermercati, si è aggiunto anche il black out elettrico che per una settimana ha paralizzato tutto il Paese.

Pino Arlacchi, sociologo e politico italiano, vicesegretario Generale dell’Onu dal 1997 al 2002, nell’ultimo periodo ha dato una chiave di lettura della situazione venezuelana ben diversa da quelle che raffigurano Maduro come il tiranno da spodestare e Guaidò come l’unico barlume di speranza per un Paese sull’orlo del baratro a causa del fallimento del modello socialista di Hugo Chàvez e del suo successore Maduro.

Professor Arlacchi, come si è arrivati al black out dell’intero Venezuela?

Il black out è un buon punto di partenza per capire la realtà dei fatti. Ha un nome molto preciso: Nitro zeus, il nome in codice di un piano di cyber attacco elaborato nei primi tempi dell’amministrazione Obama, concepito dal Pentagono e dalle agenzie di intelligence contro l’Iran, volto a paralizzarne il sistema di difesa aerea, delle telecomunicazioni e la rete elettrica per mezzo di un micidiale malware nel caso in cui fosse fallito il negoziato che ha poi portato all’accordo nucleare del 2015. Questo piano fu messo in cantina, ma è stato certamente rispolverato e aggiornato sul Venezuela, come tutti gli esperti di cyber sicurezza hanno confermato, al di là degli orientamenti politici, infatti, ne hanno subito riconosciuto la firma. I più cauti ritengono l’ipotesi credibile, ma la affiancano a quella della mancanza di manutenzione della rete elettrica da parte venezuelana. Però sulla firma inconfondibile di Nitro Zeus non c’è nessuno esperto che abbia dei dubbi.

Perché l’amministrazione americana avrebbe posto in essere questo singolare attacco?

Perché gli Stati Uniti in Venezuela un intervento militare non lo possono fare, per due ragioni: una politica e una tecnica. La politica è che si metterebbero contro tutti i Paesi latino americani, anche quelli che vedrebbero con favore la deposizione di Maduro, attirerebbero le critiche dell’Unione Europea e di tutto il mondo. Dal punto di vista politico sarebbe quasi un favore a Maduro. Il 95% dei venezuelani, di qualunque orientamento sia, è contrario a un intervento militare.

La ragione tecnica consiste nel fatto che un intervento militare andrebbe messo in atto attraverso un invasione di terra dalla Colombia o dal Brasile, i quali non concederebbero mai il loro spazio. E poi va considerato che tutte le guerre degli americani per rimuovere un regime si sono rivelati dei disastri: in Iraq il risultato è stato quello di consegnare il paese nelle mani dell’Iran, loro acerrimo nemico,  Assad è ancora in Siria, i talebani sono ancora in Afghanistan e l’America è costretta a trattare con loro, la Libia è nel caos. Per cui questa  guerra economica è la strada obbligata. E per come conosco io gli Usa, non faranno passi indietro. Soltanto con un cambiamento di presidenza aboliranno le sanzioni.

Nelle dittature il controllo dei mezzi di comunicazione è totale. La leadership di Maduro è classificata dittatoriale dalla stragrande maggioranza dei media che però riporta testimonianze di giornalisti e oppositori al regime che confermano questa classificazione e descrivono Maduro come un criminale e un golpista anche dalle tv e dai giornali venezuelani. Come si spiega questa contraddizione?

Il 90% della stampa venezuelana è contro il governo e scrive peste e corna tutti i giorni senza ricevere alcuna intimidazione. Oltre al fatto che un paese in cui l’opposizione fa una manifestazione politica al giorno non si può definire una dittatura. Semmai il contrario, Maduro non è un dittatore, non è forte, è debole. Nessun governo democratico forte avrebbe tollerato un’opposizione politica di tipo eversivo, violenta, che spara, uccide e saccheggia ogni volta che si muove, nella totale impunità perché conscia di avere le spalle coperte dall’opinione pubblica internazionale che parla ogni volta di manifestazioni pacifiche, quando i primi a sparare sono i manifestanti. Un altro paese non avrebbe tollerato tutto ciò nemmeno per una settimana, si pensi per esempio a ciò che ha fatto il governo spagnolo all’opposizione catalana, non violenta. I loro leader sono in prigione, senza che nessuno abbia mai lanciato nemmeno un sasso.

Nelle sue analisi, non ha fatto riferimento alle violazioni dei diritti umani, riportate anche da Amnesty International, come l’uso eccessivo della forza da parte degli agenti di sicurezza durante le proteste, l’uso di proiettili di gomma, frequenti pestaggi dei manifestanti e uso di armi da fuoco, la presenza di milizie di civili che girano armate in moto, e sopratutto al fatto che ad ogni manifestazione si contano dei morti.

I numeri parlano di un 50% di morti tra i manifestanti e un 50% tra la polizia o addirittura di 1/3 tra i manifestanti e 2/3 tra la polizia. Questo è assolutamente anomalo. Significa che sono i manifestanti a sparare contro la polizia, che risponde. Non esistono paesi normali dove ci sono decine di poliziotti morti nelle manifestazioni. Non esiste in altri paesi che forze di polizia vengano uccise dai manifestanti. Detto ciò, è vero, ci sono state manifestazioni dove l’uso della forza da parte della polizia è stato eccessivo, ed è vero anche che ci sono milizie armate civili, che io non approvo assolutamente. Ma questo non è sufficiente a dire che si tratti di un governo dittatoriale. Non vengono considerati i danni causati dall’opposizione alla popolazione civile attraverso sabotaggi, incendi, saccheggiamenti e il blocco dei trasporti.

Torniamo all’influenza statunitense nella crisi. Gli Usa sono sempre intervenuti nelle questioni interne degli stati sudamericani. È azzardato vedere nel Venezuela di oggi lo spettro del Cile del 1973 o del Guatemala del 1954?

Il parallelo è abbastanza calzante. Anche considerando il black out. Il 13 e 14 agosto del ‘73 ci fu un black out totale in Cile. Quattro settimane dopo il colpo di stato di Pinochet. E poi la strategia dettata da Nixon fu quella del “let the economy scream” (far urlare l’economia, ndr). La paralisi del Cile non fu  causata da un intervento armato di Washington ma dal soffocamento economico del Paese attraverso le stesse misure che vediamo in Venezuela: manifestazioni violente, blocco dei trasporti, scioperi dei camionisti, finanziamento generoso a tutte le forme di opposizione, blocchi stradali e infine il golpe. La differenza col Cile è che in Venezuela le forze armate sono fedeli al Presidente e c’è poi una enorme quantità di gente povera o ex povera che sostiene il governo attuale senza tentannamento alcuno, perché consapevole di qual è la posta in gioco: l’ultima cosa che importa a chi attacca il Venezuela è la democrazia. Non mi si dica che gli americani ora si sono convertiti al sostegno della democrazia dopo che hanno sostenuto le peggiori dittature.

Quindi, secondo lei, perché i grandi media internazionali sottovalutano nel contesto generale il peso della   grandissima quantità di petrolio e altre risorse naturali del Paese?

I media sono influenzati dal potere finanziario americano e internazionale. Il Venezuela è in questo momento un pugno nell’occhio a questo potere. Quello che veramente non viene perdonato a Chavez è la questione del dollaro. I governi americani hanno tollerato governi di sinistra anche radicali in Amarica Latina negli ultimi 20 anni. Sono spesso arrivati ai ferri corti con loro, certo, ma non hanno mai pensato di invaderli e neanche di avviare una guerra economica. La ragione fondamentale è che Chàvez e Maduro hanno toccato un nervo scoperto: cercando di non farsi pagare le esportazioni in dollari, creando una criptomoneta, il Petro, e dando vita a un sistema di scambio alternativo, il Sucre, proprio per emanciparsi dall’America. Tutto ciò, inserito in un processo mondiale di de-dollarizzazione, ha attirato l’ostilità degli Stati Uniti, decisi a far crollare questo governo. I media riflettono quelli che sono i poteri dominanti.

Sarà possibile un’uscita da questa crisi?

Io non vedo una via d’uscita in tempi brevi, soltanto un intervento internazionale potrebbe riuscirci. Il segretario generale dell’Onu è inspiegabilmente assente in questa che è la crisi peggiore del momento. Di solito il segretario generale è obbligato a intervenire nelle crisi e a compiere tutti i tentativi per evitare gli scontri violenti. António Guterres sta dimostrando un’abdicazione dei suoi doveri di fondo che è sconcertante. Le due parti, governo e opposizione, avevano raggiunto un accordo durante i negoziati svoltisi nella Repubblica Dominicana con la mediazione di Zapatero (ex primo ministro spagnolo, ndr) e altri politici sudamericani. Avevano raggiunto un accordo per la conciliazione. All’ultimo minuto però l’opposizione si è tirata indietro. Occorre assolutamente riaprire il negoziato, far intervenire le Nazioni Unite, fare in modo che ci sia un piano di riconciliazione del Paese o comunque di abbassamento del livello dello scontro. Per come conosco io gli Stati Uniti, soltanto con un  nuovo presidente sarà possibile.

Quindi la situazione secondo lei può solo peggiorare nel breve periodo?

L’esito può essere catastrofico. Ancora non c’è una vera e propria crisi umanitaria in Venezuela, anche su questo le esagerazioni dei media sono enormi. Tra pochi mesi, quando le sanzioni secondarie americane faranno effetto, ci sarà una vera crisi umanitaria, una carestia dall’esito tragico, con forze molto pericolose che possono scatenarsi. Basti pensare alla Prima Guerra  Mondiale quando ci fu il blocco economico della Germania. Un blocco alimentare messo in atto da Churchill in primis: quasi un milione di persone morì di stenti e i giovani tedeschi che sopravvissero appoggiarono poi Hitler. Uno dei motivi dell’ascesa di Hitler fu il ricordo di milioni di tedeschi di essere quasi morti di fame. Quando si colpisce così pesantemente la popolazione civile, i danni durano generazioni.

Come valuta la posizione del Governo italiano, con la Lega propensa a riconoscere Guaidò, i Cinque Stelle che non vogliono,  l’intervento del Presidente Mattarella e la delusione statunitense?

Spero che i 5s siano capaci di mantenere questa loro posizione iniziale. A proposito di riconoscimento, un’altra falsità diffusa dai media internazionali  riguarda proprio questo aspetto: gli stati membri dell’Onu sono quasi 200, Guaidò è stato riconosciuto da 50 Paesi, ovvero gli Stati Uniti e i loro alleati. I restanti membri non hanno riconosciuto Guaidò ne hanno l’intenzione di farlo. Il riconoscimento viene fatto dall’Assemblea Generale dell’Onu che ha una posizione per il 75% contraria, salvo considerare che la posizione di chi non è alleato dell’America non conta nulla. Ma se guardiamo ogni continente, in tutta l’Africa solo il Marocco ha riconosciuto Guaidò, in Asia solo il Giappone e in tutto il Medio Oriente solo Israele. Il resto del mondo non ha accettato l’invito. E in Unione Europea altri cinque Paesi oltre l’Italia non hanno riconosciuto il cambio di presidenza. Senza parlare dell’Onu e della latitanza e timidezza del Segretario generale che si è ben guardato dall’approvare Guaidò e di esprimersi in merito.