Genova per chi non c'era
Più che una eredità abbiamo bisogno di accompagnare, insieme. Di Angelo Miotto

Genova per chi non c’era. Vent’anni dopo mi capita di incontrare nelle tante presentazioni in cui parlo del libro scritto per i tipi di Altreconomia – che ringrazio perché ci permette la pubblicazione di alcuni passaggi originali – persone giovani. Molto giovani. Alcune nel 2001 non erano ancora nate, altre avevano dai quattro agli undici anni, qualcuno a sedici si è visto negare il permesso dai genitori di viaggiare verso Genova.

È sempre interessante sentire i ricordi di seconda battuta, quelli mediati dalle famiglie, le percezioni che sono rimaste, gli scatti di immagine che si sono fermati in memoria. E come non può essere altrimenti tutto parla dei giorni della repressione, dell’omicidio di Carlo Giuliani, ucciso in Piazza Alimonda il 20 luglio, le botte, i gas, le torture, la sospensione dei diritti per troppi giorni, la macelleria messicana della Diaz, Bolzaneto. E i Black Bloc, ovviamente.

Non può essere che quello il patrimonio iconografico che rimane nella storia del 2001. Eppure è solo una parte.

È solo la seconda parte, quella che fu voluta per cancellare la prima, quella del pensiero e della proposta, e questo è un messaggio che dobbiamo a chi non c’era, che non può ricordare la quantità di proposte alternative a un sistema che stava e sta uccidendo la specie e il pianeta dentro odiose diseguaglianze, che crescono nonostante ci si affrretti a dire che da allora abbiamo un miliardo di poveri in meno, dimenticando che rispetto al luglio 2001 non siamo più 6, ma 7,8 miliardi sulla Terra. E che spesso uscire dalla povertà significa passare da un procapite di 2 dollari al giorno per arrivare a 5.

Ma come si fa a raccontare Genova a chi non c’era? Se i temi di allora sono ancora sul tavolo e con tanti anni di ritardo, è anche vero che tutto si è mosso velocemente e giorno dopo giorno a ogni latitudine. La geopolitica e la società, il tema della sicurezza e del lavoro, i nuovi media e una memoria che ogni minuto che passa si affievolisce in favore di una search di Google, memoria collettiva di date e materiali spesso difficili da trovare. Una palude in cui i predatori della disinformazione ci tendono agguati e dove le spinte delle letture mainstream sono più facili da ottenere se non foss’altro per algoritmi ben rifocillati da marketing e denaro.

Ritornare a dipingere Genova è un lavoro che chiede pazienza e meticolosità, non lasciare nulla di non spiegato, aiutare a comprendere le diversità di una quasi contemporaneità difficile da conoscere per i più giovani, paradossalmente, perché più vicina a loro di quanto possano essere i classici temi di storia che si fermano ahinoi troppo spesso poco dopo la Seconda Guerra.

Per chi non c’era: Genova è il luogo in cui nel 2001 il Movimento che fu battezzato No Global per la sua opposizione a una globalizzazione sfrenata senza diritti, ma che chiamerei più volentieri altermondialista, perché chiedeva un mondo diverso, altro, il luogo dicevo in cui si vive l’incredibile saldatura di una piattaforma di oltre 1100 associazioni. Dai cattolici integralisti fino agli anarchici greci. Una piattaforma in cui ognuno chiede e rivendica proposte verticali, ma insieme agli altri, ascoltando, litigando, ma accettando di essere parte di un organismo globale che si chiama Genoa Social Forum.

Siamo nel 2001, governo Berlusconi. Scajola agli interni, vice presidente molto attivo fra i carabinieri il destro Gianfranco Fini, la Giustizia a un ingegnere, Castelli, della Lega. Capo della Polizia un uomo potente, potentissimo, Gianni De Gennaro.

Le proteste degli anni 2000, Napoli Piazza del Municipio, avvengono sotto un governo di centrosinistra, che poi dovrà cedere il passo. E già a Napoli vengono commesse brutalità e cariche bestiali controm i manifestanti chiusi nella piazza, sbarrata ogni via di uscita.

A Genova i lavori del Genoa Social Forum cominciano alcuni giorni prima, con una sfilata ininterrotta di personalità politiche e intellettuali, artisti e amministratori di ogni paese. Eppure il clima di terrore instillato da alcune veline dei servizi segreti e ripresi in maniera orgasmica dalla grande stampa stanno preparando l’attesa non ai contenuti rivoluzionari, ma agli scontri, che ormai vengono quasi evocati come inevitabili dopo tanta escalation mediatica.

Genova viene imprigionata in zone dai diversi coolori: quella Rossa è la cittadella inespugnabile, perché gli otto grandi passeranno da lì, per una riunione sostanzialmente non legittimata da nessun trattato o convenzione.

Cosa succederà nei giorni successivi lo si ricorda già di più, con il massimo dello scontro il 20 e il 21 luglio.

https://altreconomia.it/prodotto/2001-2021-genova-per-chi-non-cera/

Ecco, allora che l’operazione che ho compiuto insieme ad Altreconomia è stata proprio quella di costruire un indice di un libro di servizio, che ponesse la questione, che presentasse i fatti, nudi e crudi e che chiamasse poi in un racconto corale tante persone che furono portatrici, organizzatori, osservatori di quella proposta che nello slogan ‘Un mondo diverso è possibile’ sembra qualche cosa di incredibilmente vasto, ma nei singoli rivoli delle alternative possibili all’unico modo di sviluppo economico e finanziario, sociale e politico, era e rimane (questa è la notizia) un’occasione da riprendere, per cambiare in meglio, per affrontare quella che venne definita la globalizzazione dal volto umano.

In questa Q Story proponiamo alcuni passaggi in questo senso e alcuni materiali che sono datati da vent’anni fa fino ad altri anni in cui con tenacia e determinazione non abbiamo mai smesso di fare memoria. Perché è proprio la memoria che ci può aiutare, perché spesso non serve trasformare le idee in novità, ma dare un senso storico e si sviluppo a delle intuizioni. Che, allora, vennero represse nel sangue. Proprio perché ritenute pericolose per lo status quo.

Sempre in viaggio su quel treno per Genova
Partire da Bari con un treno speciale dopo la morte di Carlo Giuliani. Se ci fossimo arresi sarebbe stato peggio. Di Christian Elia

Questo testo è contenuto nel libro Genova per chi non c’era di Altreconomia, che ringraziamo per averci autorizzato alla sua riproduzione.

La notizia della morte di Carlo Giuliani era arrivata mentre assieme a tanti altri ci preparavamo a partire da Bari alla volta di Genova. Qualcuno decise di non venire, ma a molti di noi sembrò ancora più importante esserci. E partimmo, nel silenzio. Quel treno speciale, che viaggiava di notte verso un altrove, era pieno delle esperienze che ciascuno di noi aveva maturato in quegli anni di impegno. Il silenzio, in fondo, fin  per farsi bilancio.
Noi eravamo la generazione di “mezzo”, quella che la politica tradizionale non riusciva più a tenere assieme, ma che aveva fatto in tempo a respirarne gli orizzonti. Una generazione che, in fondo, aveva trovato nel mondo dell’associazionismo civile i suoi contenitori di condivisione. A Genova ciascuno portava una domanda. Di futuro, prima di tutto, ma anche una grammatica della ragionevolezza che in fondo non era ancora rabbia, non fino in fondo. Quella, la rabbia, l’abbiamo sentita montare nelle nostre lacrime, quelle dei lacrimogeni, quelle delle botte feroci a te o agli altri, quelle degli striscioni strappati, delle persone in terra, pestate a sangue. Le domande diventarono moltitudine. Perché?
Perché noi, perché tutti? In piazza non arrivammo mai.
Quella giornata è diventata un montaggio impazzito di fotogrammi di paura e rabbia, che riviste oggi si svelano come forse all’epoca non erano riuscite a fare. Era finita un’epoca, un’altra stava per iniziare. Oggi, riguardando me stesso e i miei compagni di viaggio, mi rendo conto che “sentivamo” un futuro, e “cercavamo” di fermarlo.
Un futuro di militarizzazione dello spazio pubblico, di criminalizzazione della solidarietà, di fortezze e nuovi muri, di disuguaglianze economiche sempre più feroci, di uno stato sociale in ritirata, mentre le nostre esistenze venivano risucchiate in un processo di privatizzazione dei saperi e degli spazi. Difendevamo cento anni di conquiste di diritti, ma forse – almeno io – senza esserne consapevoli fino in fondo. Quella paura, quella violenza, erano un messaggio.
Portiamo quei giorni, quei passi, quei cortei sul corpo, come cicatrici. Ricordiamo quella paura come una profezia, un avvertimento. Che però non ha fermato il cammino, l’ha reso solo più duro, più feroce, a tratti più solitario. Proprio per questo, però, ancora più necessario.

Genova ci ha fatto capire che indietro non saremmo più potuti tornare, si poteva andare solo avanti, a qualsiasi costo. Ciascuno ha preso la sua strada, la mia è stata quella del giornalismo. Le domande che ponevamo allora, mentre oggi si palesano i timori di allora, restano attuali. Restano feroci. Quella rabbia non è passata, anche se a volte si è fatta “privata”, solitaria. In fondo Genova, nel 2001, è stata davvero una stazione. A Brignole, per me, è arrivato un treno e ne è partito un altro, tra una carica e l’altra di manganelli senz’anima. A Genova è finita una speranza, ma   iniziata una resistenza. E venti anni dopo è troppo crudele e ingiusto raccontarsi – come reduci patetici – le nostre sconfitte. Perché ogni battaglia, ogni denuncia, ogni rete civile, ogni campagna condivisa dobbiamo saperla guardare – e raccontare – da un altro verso.
Come sarebbe andata se avesse vinto la paura? Come sarebbe andata se il messaggio fosse stato subìto?
Sarebbe andata peggio. Questo non vuol dire che sia andata bene. Il mondo, oggi, più insicuro di venti anni fa. Le disuguaglianze sono più letali, i confini uccidono con indifferenza e metodo, le istanze di altri mondi sono sempre più lontane dai cuori di società concentrate solo sul sopravvivere. Ma sarebbe peggio se ci fossimo arresi. In fondo, vent’anni dopo, non siamo reduci, ma testimoni. Siamo la memoria, personale e collettiva, che tiene assieme un prima e un dopo, davanti a un presente che ha reso materiali tutte le questioni che all’epoca vedevamo come rischi. La mia generazione non sarebbe potuta essere, forse, senza Genova. In quel luglio soffocante e sanguinoso abbiamo avuto paura, siamo stati sorpresi dalla furia cieca del potere, ma non ci siamo fermati. Ogni errore, ogni domanda, ogni speranza sono pezzi di quel viaggio che a Genova è finito e iniziato allo stesso tempo. E siamo ancora in viaggio, in quel treno. Qualcuno è sceso, una nuova generazione è salita, con nuovi dubbi e nuove domande. E non abbiamo alcuna possibilità alternativa: dobbiamo andare avanti.

Quel che resta dell'immagine
Leonardo Brogioni dopo Genova prese carta e penna e stese le sue riflessioni su cosa ha significato Genova G8 per le immagini che inondavano i mass media

Il fotogiornalismo è di sinistra? Qualche risposta dal G8 di Genova. Dove l’inondazione di foto di professionisti e dilettanti ha spesso nascosto ciò che doveva mostrare. Tra censure preventive istituzionali, autocensure, censure implicite imposte dai committenti è prevalso il “fatto omnibus”, la notizia insignificante, quella che non turba nessuno, né fa discutere o riflettere. Si occultano, mostrando qualche centinaia di black bloc, le migliaia di manifestanti pacifici e l’inaudita violenza della repressione poliziesca.

(scritto da Leonardo Borgioni e pubblicato il 5 settembre 2001 da Il Manifesto)

La contestazione dell’incontro tra i leader delle otto superpotenze mondiali è stato l’evento più ripreso nella storia dell’umanità: 30.000 macchine fotografiche e 10.000 telecamere erano in funzione a Genova durante il G8. La presenza di operatori professionali dell’immagine è stata la più massiccia di sempre.
Ciò nonostante alcuni organi di stampa sono stati costretti a lanciare appelli che invitavano partecipanti e testimoni dell’evento ad inviare immagini in redazione. Il settimanale Diario, i quotidiani Liberazione e il manifesto, il periodico Carta, i siti di Indymedia, Isola nella Rete, Radio Sherwood e lo stesso Genoa Social Forum hanno fatto espressa richiesta di documenti visivi, anche e soprattutto amatoriali. Immagini di dilettanti che persino le televisioni hanno disperatamente cercato e poi freneticamente trasmesso: a distanza di giorni dall’evento non passava telegiornale senza che nuove testimonianze visive venissero pubblicate o messe in onda.
Un fatto ben strano nell’epoca dell’informazione in tempo reale: le fotografie dei goal segnati sui campi di calcio arrivano dopo due minuti dalla loro realizzazione nell’ufficio grafico dei quotidiani ed invece foto e filmati di un evento di risonanza mondiale come il G8 appaiono a distanza di giorni sui nostri teleschermi.
Situazione apparentemente contraddittoria, ma ben comprensibile. Con i mass media a disposizione di chi oggi vuole creare consenso intorno al sistema economico e politico vigente, è facile impedire alla maggioranza dei cittadini l’accesso a strumenti che potrebbero sviluppare un senso critico nell’opinione pubblica. Ecco dunque che la completezza dell’informazione viene soppiantata dallo spettacolo di un’informazione superficiale, facilmente digeribile, rassicurante, e qualora ciò fosse impossibile, noiosa o distraente. In ogni caso facile preda del mercato.

Questo meccanismo spinge l’attenzione dei mass media verso quelli che il sociologo francese Pierre Bourdieu, nel suo saggio “Sulla Televisione”, ha definito “i fatti omnibus”. “I fatti omnibus – dice Bourdieu – sono fatti che non devono turbare nessuno, non sono oggetto di controversia, non dividono, suscitano il consenso, interessano tutti, ma in modo tale da non toccare nulla di importante. Il fatto di cronaca è una specie di materia prima elementare, rudimentale, dell’informazione, una cosa molto importante perché interessa tutti senza preoccupare nessuno, una cosa che porta via tempo, un tempo che potrebbe essere impiegato per dire altro. Ora, il tempo è una materia prima estremamente rara alla televisione. E se si impiegano minuti tanto preziosi per dire cose tanto futili, ciò dipende dal fatto che queste cose tanto futili in realtà sono molto importanti, nella misura in cui nascondono cose preziose. (…) Ora, ponendo l’accento sui fatti di cronaca, riempendo di vuoto, di nulla o di quasi nulla questo tempo raro, si occultano le informazioni pertinenti che il cittadino dovrebbe possedere per esercitare i propri diritti democratici. (…) Si occulta mostrando: mostrando altro da ciò che si dovrebbe mostrare se si facesse ciò che si è chiamati a fare, cioè informare; oppure anche mostrando ciò che si deve mostrare, ma in modo da non mostrarlo affatto, o da renderlo insignificante, o costruendolo in modo tale da attribuirgli un senso che non corrisponde in alcun modo alla realtà”.
Giornali e telegiornali di questa estate hanno felicemente sguazzato tra l’eruzione dell’Etna, la telenovela Milingo, l’estate più calda dell’anno, l’apoteosi Ferrari, i 40 milioni di italiani che sono andati in vacanza e gli altri 40 milioni che invece sono rimasti in città. Pochi hanno sentito il diritto-dovere di farci vedere le migliaia di persone che a Genova hanno manifestato pacificamente, ancora meno hanno sentito il diritto-dovere di farci capire perché 350.000 persone hanno sfilato in un corteo, cos’è la globalizzazione, cos’è l’anti-globalizzazione, cosa ha spinto decine di persone a rendersi protagoniste di atti di teppismo, come e perché le forze dell’ordine hanno agito con tale premeditata violenza nei confronti di manifestanti inermi. Altre sono state le immagini, altri i commenti.
Si occulta mostrando. Si distrae l’opinione pubblica con un’inondazione di immagini e notizie che restituiscono soltanto l’idea di un evento, ma non la sua complessa realtà. L’avvenimento diventa spettacolare e quindi astratto, astratto e dunque lontano, lontano e perciò innocuo. L’ennesimo show da gustare standosene a casa, bravi, belli e tranquilli davanti alla televisione o ad un prestigioso giornale. Ma chi da questi ultimi volesse avere strumenti utili per capire resterebbe deluso.
In questo quadro devono inserirsi i fotogiornalisti professionisti, costretti ad adeguarsi ad un meccanismo perverso dai cui ingranaggi escono inevitabilmente stritolati.
Da sempre infatti le grandi istituzioni economiche e politiche usano tre strumenti, tradizionalmente a loro disposizione, per evitare le influenze della stampa non compiacente e le interferenze dell’opinione pubblica:
* la censura (che – per quanto riguarda i fotogiornalisti – viene attuata non solo tramite i divieti di accesso alle zone calde ma anche grazie ad un sistema di filtri consequenziali utilizzati all’interno di redazioni conniventi: permessi concessi solo a certe testate o agenzie ed immagini destinate a dover superare selezioni in fasi successive – quella del photo editor o dell’art director, del capo redattore o del vice direttore ed infine, se proprio riescono ad arrivarci, quella del direttore).
* la produzione di un grande quantitativo di notizie alternative a ciò che succede nei luoghi dell’evento vero e proprio (in tale ottica vanno viste le infiltrazioni di finti “black bloc” che a Genova hanno fomentato telegeniche violenze distogliendo l’attenzione dalle migliaia di persone che sfilavano in un corteo pacifico).
* lo spostamento dell’attenzione dello spettatore verso queste notizie alternative e costruite – che poi sono “fatti omnibus” interni all’evento di cui si deve parlare (nel caso di Genova, le annunciate violenze: si accentuano le paure degli scontri, si mostrano le misure di sicurezza, si fa vedere l’equipaggiamento di manifestanti e poliziotti, si disserta sul disagio degli abitanti e sui negozi forzatamente chiusi, si parla della città martoriata, si conclude con un bell’editoriale del bravo e famoso giornalista).
I fotoreporter, obbligati a fotografare i “fatti omnibus” anche all’interno di un singolo evento, pur di riuscire a pubblicare e quindi guadagnare qualcosa, finiscono tra due censure prima e tra due fuochi poi (quello della polizia e quello dei sedicenti “black bloc”, entrambi impegnati a distruggere ogni tipo di materiale visivo che possa smascherarli o addirittura incriminarli).

Così quei diligenti fotografi professionisti che a Genova sono andati a fotografare i fatti di sangue sono finiti inevitabilmente insanguinati. Privati dei loro strumenti, dei loro rullini e quindi delle loro fonti di sostentamento, molti di loro sono rimasti senza un’immagine e dunque senza una lira.
Eh già, perché quasi tutte le testate e le agenzie fotografiche italiane (che ormai possiamo considerare economicamente e politicamente un tutt’uno) pagano i fotografi loro collaboratori, “a venduto” – come si dice in gergo – cioè solo se qualche redazione decide di acquistare le loro immagini. Niente pubblicazione, niente guadagno. E’ così che a Genova sono venute a mancare immagini professionali.
Vuoi guadagnare qualcosa? Fotografa il sangue, se ci riesci. Hai fotografato il sangue? Ti sei guadagnato le botte.
Ed è così che l’informazione viene pesantemente condizionata anche da superiori interessi economici. E’ il principio che – consentendo a chi scatta una foto di Milingo e consorte di guadagnare dieci volte tanto rispetto a chi rischia la vita a Genova – vuole spingere un gran numero di fotografi verso la documentazione di innocue facezie. Dove c’è spettacolo c’è business ed il “fatto omnibus” oltre ad essere politicamente utile si vende bene (vedi i vari esempi di Real Tv e Verissimo individuabili su varie emittenti ed altrettanti rotocalchi).
Il rapporto venutosi a creare tra fotografo e committente consente a quest’ultimo di assumere una posizione di predominanza tale da rendere il fotogiornalista economicamente molto debole e quindi facilmente ricattabile. Sembra quasi che siano state agenzie e case editrici a scoprire i vantaggi del lavoro interinale, anticipando di anni la tendenza del mercato a svincolarsi dall’offerta di un impiego fisso.
Qualsiasi ricatto è eticamente ed economicamente perdente, ma questa situazione rende totalmente dipendente dalla struttura committente colui che in modo paradossale viene ancora definito un libero professionista. E, visto che si sta parlando di giornalismo, la differenza non è da poco perché riguarda la libertà di informazione e di espressione in un intero paese.

Questa dipendenza del fotoreporter nei confronti del committente nella pratica diventa infatti un controllo e cade a fagiolo per tutte quelle istituzioni e strutture che considerano “pericoloso” il fotogiornalismo. Come ha scritto Edgar Roskis, docente di comunicazione dell’Università di Parigi, su Le Monde Diplomatique: “Esistono filmati e riprese video del vietnamita “sospetto”, ucciso a bruciapelo il 1 febbraio 1968 dal capo della polizia di Saigon, della bambina nuda, bruciata con il napalm, che corre sulla strada fuggendo dal villaggio sud-vietnamita di Trang Bang, del cinese che blocca a mani nude una colonna di carri armati nelle vicinanze di piazza Tiananmen. Ma, indiscutibilmente, ciò che rimane in quello che, a torto o a ragione, si usa chiamare “l’inconscio collettivo”, sono le immagini fisse, firmate rispettivamente da Eddie Adams, (Ap), Nick Ut (Ap) e, per la Cina, da almeno tre fotografi d’agenzia (Ap, Sipa-Press e Magnum)”.
Chi oggi produce o fruisce fotogiornalismo deve approfondire sia contenuti che immagini, deve guardare e non sfogliare, deve fermare l’occhio e non passare lo sguardo, deve riflettere fino ad arrivare molto probabilmente a capire ed a formare una memoria incancellabile. Esattamente il contrario di ciò che serve a chi vuole creare consenso basando l’informazione sulla velocità e sulla superficialità sia di produzione che di fruizione delle immagini e che per questo vuole controllare chi potrebbe produrre fotografie “scomode” prima che le realizzi.
“Non esistono fatti in sé. Bisogna sempre cominciare con l’introdurre un senso perché possa esserci un fatto” diceva F. Nietzsche. Il mondo dell’odierna superficialità disinformata funziona esattamente al contrario: prima si creano i fatti e poi si fa a gara per dargli un senso. Si parte cioè strumentalmente dal fondo allo scopo di attirare dalla propria parte più etti di popolo bue possibile. Per fortuna, come dimostrato anche a Genova, ci sarà sempre qualcuno in grado di realizzare un’immagine che resterà fissa nella nostra memoria, contribuendo a farci ricordare e magari un giorno a farci capire. Qualcuno che riesce a stare in equilibrio tra i tentativi e le tentazioni dell’informazione spettacolo facendo diventare la fotografia di reportage uno dei pochi strumenti a nostra disposizione per sfuggire a manipolazioni e bugie di qualsiasi genere. Un fotoreporter libero, professionista o dilettante – a questo punto – poco importa.

Da Genova. Mail di giorni d'entusiasmo e protesta
Brevi mail e comunicazioni inviate e ricevute dal 10 al 23 luglio 2001, con una premessa. Di Pietro Di Clemente

Pietro Di Clemente ci ha scritto su Facebook. Ha letto il libro Genova per chi non c’era e ha avuto un impulso, quello di scrivere e di scriverci.

Pietro è andato a Genova in quanto membro e responsabile del Coordinamento Giovani Lavoratori della Sinistra Giovanile di Milano legata agli allora Democratici di Sinistra. Il Coordinamento Giovani Lavoratori della Sinistra Giovanile è stato uno dei firmatari della piattaforma del GSF. Pietro ha lavorato nella cooperazione sociale in comunità, centri d’accoglienza, sportelli stranieri, Informagiovani e scuole.

——————————————————-

Premessa: va sempre ricordato il contesto tecnologico e gli strumenti di comunicazione a disposizione dei più in quel periodo. Stiamo scrivendo e raccontando di 20 anni fa: i cellulari erano appena arrivati nelle tasche di pochissimi (io ne comprerò uno, il primo, solo nel novembre del 2001), si usavano le mail per comunicare e inviare documenti ma il pc a casa con tanto di connessione internet era una cosa ancora più rara da possedere. Il contenuto del presente scritto proviene da un floppy disk della capacità di 1,44 Mb (!) (altro che il problema della memoria delle app. sullo smartphone … cosa ci si salva oggi con 1 mega di memoria…?), si usavano gli internet-point o le sedi pubbliche di associazioni e partiti per inviare o leggere mail che, quindi, non erano proprio immediate. Internet stava già rivoluzionando il mondo ma il suo uso fluido, essenziale e a portata di mano si stava diffondendo solo e proprio in quegli anni. Il movimento definito superficialmente “no global” era, invece, proprio quello che di quegli strumenti tecnologici di comunicazione globale ne faceva e ne proponeva largo uso. Convinto che la comunicazione e l’informazione corretta potessero avvicinare i popoli del mondo.

La prima mail parla del clima di criminalizzazione del movimento. L’evento del G8 si stava avvicinando in silenzio. O almeno il silenzio era imposto sui programmi, sui contenuti, sui temi, sull’organizzazione e l’identità della galassia di associazioni e realtà sociali politiche e culturali che componevano il Genoa Social Forum. La TV e i Tg parlavano dell’evento del G8 solo sotto il profilo allarmistico creando paura e pregiudizio. Le uniche notizie che si trasmettevano erano quelle di presunti arresti di terroristi, progetti di attentati sventati in vista del summit di Genova, descrizione e definizione superficiale e generica del movimento come violento e sovversivo. E anche all’interno della politica, i partiti non avevano intuito né decifrato l’appuntamento con la storia che si stava delineando. Almeno, non i Democratici di Sinistra (allora il più grande partito di sinistra in Italia) ai quali appartenevo e in cui facevo politica. Nelle mail si criticano prima per il loro scetticismo e poi duramente per la decisione presa, il 21 luglio, di annullare la loro presenza alla manifestazione conclusiva del sabato a Genova a seguito dei fatti del giorno prima, in cui perse la vita Carlo Giuliani, ragazzo.

Sono andato a Genova in quanto membro e responsabile del Coordinamento Giovani Lavoratori della Sinistra Giovanile di Milano: realtà tematica sul mondo dei giovani lavoratori legata alla giovanile degli allora Democratici di Sinistra. Il Coordinamento Giovani Lavoratori della Sinistra Giovanile è uno dei firmatari della piattaforma del GSF.

Una simile forte sensazione di caos, disorientamento, incredulità, accompagnata da circostanze di incompetenza e miopia politica generale, contesti di controinformazione vera o professata, fake-news, condizioni di classi dirigenti totalmente inadeguate al concreto cotesto da gestire, zone rosse e città deserte, coprifuoco e sospensione improvvisa di quello che si considerava normale e certo  fino al giorno prima, la si rivivrà, forse, solo nel marzo-aprile di 19 anni dopo, con il piombare della pandemia e la gestione della stessa.

Le altre mail parlano dell’arrivo a Genova e dell’ultimo giorno a Genova.  Poi alcune risposte alle mie mail e comunicazioni arrivate da amici, conoscenti e da quelli che una volta si chiamavano fra loro compagni.

Al G8 di Genova, nel 2001, o come amavo datare 1990+11, non avevo cellulari, non avevo né facebook né WhatsApp…. e non avevo nessun dubbio sul perché esserci. Quell’estate avevo 22 anni.

Per privacy e sicurezza ho cancellato riferimenti a nomi espliciti ecc….

Mi firmerò wedroski scrivendo dal Media Center del Genoa Social Forum di Genova, ubicato nella scuola Diaz teatro della violenta notte del 21 luglio.

GENOVA LIBERA.

Pietro Di Clemente.

—————————————————————————————————————————————————-Messaggio originale—–
Da: wedroski
Inviato: martedì 10 luglio 2001 17.30
A: tutti
Oggetto: a Genova

 

L’opinione pubblica è creata dai media. Il pensiero del popolo è costruito dalle televisioni, dal loro contenuto. Se di contenuto si può parlare. Il fatto che l’opinione pubblica sia indirizzata su alcuni temi ed in alcuni termini deve far riflettere. Deve e, dico, deve perché l’azione politica dovrebbe incidere molto di più sull’opinione pubblica.

Si parla di Genova.

Non è doveroso. È inevitabile.

All’improvviso tutti i media ed anche le parti istituzionali della politica parlano di quello che sarà Genova. Sbagliato. Sbagliato perché è l’errore che si è sempre commesso. Genova non è un punto di inizio o una meta conclusiva. Fino ad oggi si è sempre preferito non guardare cosa stava succedendo fuori dalla politica. O meglio cosa stava succedendo fuori i partiti, nella politica. Quella politica che si scrive con la p minuscola, perché è la politica comune, di tutti e che si pensa con la massima accezione della parola.

Genova è una tappa importantissima di quello che sta succedendo fuori dagli schemi.

Tutti sanno che ci sarà il G8. Ma nei telegiornali in 20 sec. di servizio: 10 sec. sono di Berlusconi che dice cose insensate per ogni buon cittadino che ha il senso della società equa ma pericolosissime nello stesso tempo proprio perché forse molti non sanno che cosa possa essere una società equa; e se 10 sec sono per Berlusconi, il resto del servizio sono immagini di guerriglia urbana con gente che butta pietre contro la polizia, contro i Mc Donalds, cariche di agenti in divisa antisommossa, disordini, panico, tensioni, paura.

Immagini di scene reali, per carità, ma che diventano inevitabilmente marginali, addirittura si annientano in confronto con la manifestazione nel complesso. Complesso costruito da migliaia e migliaia di persone differenti, per tutto. Ma è un tutto che non ci può far paura. Complesso formato da associazioni, Ong, movimenti ecc… che sicuramente non rappresentano tutto il mondo ma che decisivamente, rappresentano un po’ tutto il nostro mondo, almeno il nostro, quello di sinistra.

Tutti sanno del G8 di Genova. Ma tutti sanno del GSF (Genoa Social Forum)? Tanti ne hanno solo sentito parlare, collegato e quindi ridotto, a quello che è il movimento delle Tute bianche (gruppo antagonista politico del tempo vicino all’area dei Centri Sociali, nda), più visibili mediaticamente. E mentre chi non viene a manifestare impaurito dalla tensione che circonda l’avvenimento (sia chiaro che la tensione che comunque può provocare il modello tute bianche in alcuni suoi atteggiamenti è pur sempre minore della criminalizzazione preventiva fatta dal governo), mentre c’è chi è spaventato nello scendere in piazza c’è chi vorrebbe capire attraverso una analisi di 20 – venti – anni cosa è successo, cosa sta succedendo, quindi riflettere, aspettare qualche suggerimento da qualche dio e solo allora dichiarare una presa di posizione che possa comprendere una adesione alla protesta. Ma nello steso tempo distaccarsi da alcune forme di interpretazioni della protesta….

Alcuni non vogliono sapere che partiti l’hanno organizzata una cosa così ma ci vogliono essere. Ingenui. Pensare che una manifestazione così eterogenea, diffusa, colorata, decisa, sincera, possa essere organizzata da un “semplice partito”. Ingenui e di conseguenza puri e semplici. Perché senza sapere di che partito si tratta vogliono esserci per dire che così non può andare. Così il mondo non va bene, così non ci piace.

E un altro mondo è possibile!

Ma non stupiamoci, l’egemonia sulla società di sinistra non l’abbiamo mai avuta e quella sulle manifestazioni l’abbiamo oramai persa.

Io vado Genova, non so voi.

Saluti.

Wedroski.

—————————————————————————————————————————————————-Messaggio originale—–
Da: wedroski
Inviato: giovedì 12 luglio 2001 05.18
A: tutti
Oggetto: a Genova dal 18

Stiamo organizzando un gruppo con destinazione Genova!

Pensiamo di partire per il summit di Genova, mercoledì 18 (in treno) per poter vivere tutta la “festa di partecipazione” e le svariate iniziative politiche, culturali e creative (plenarie, dibattiti, spettacoli, concerti…) che si svolgeranno nei giorni precedenti la manifestazione conclusiva del 21.

Chi fosse interessato a venire a Genova già dal 18 luglio lo comunichi immediatamente!

Saluti

Wedroski.

—————————————————————————————————————————————————-Messaggio originale—–
Da: wedroski
Inviato: giovedì 19 luglio 2001 16.31
A: tutti
Oggetto: da Genova

 

Ciao, compagni.
Siamo arrivati ieri a Genova con il treno speciale ma nonostante l’aggettivo speciale, si dimostrava molto regolare. Regolare perché era un treno metà vuoto (era comunque mercoledì) e girando per i vagoni sembrava di attraversare un normale treno con molti ragazzi destinati al mare, all’interrail….

L’unica cosa anomala era in un vagone poco più avanti il nostro dove decine e decine di cartoni occupavano lo spazio di 8 posti viaggiatori. Quello era infatti il deposito delle “armature” delle Tute bianche. Oltre questa folcloristica nota (perché è folclore e simbolismo, niente di più) bisogna dire che il treno ha percorso il tratto Milano-Genova in… 8 ore! Siamo passati da Parma e siamo entrati a Genova da sud, da La Spezia!!

Ragazzi, Genova è completamente BLINDATA!

Scrivo blindata in maiuscolo, non per alimentare un clima di terrore o per confermare una situazione di tensione ma semplicemente per “trasmettervi “una sensazione che, compagni, nessuno ha mai visto in nessuna mai manifestazione! La polizia è onnipresente. Colonne di camionette della polizia, carabinieri, GdF, artificieri… viaggiano continuamente giorno e notte per le strade. Non dico una sciocchezza se affermo che circolano più automezzi militari che civili. Alcune strade poi sono chiuse con sbarramenti in plexiglass e cemento e le piccole e strette strade di Genova chiuse all’improvviso da una inaspettata barricata ti fanno sentire come un topo in trappola. Enormi containers fanno da recinto alle zone più “calde”. E’ vero anche che molti negozi sono serrati da pannelli di legno inchiodati sulle vetrine.

Ma nonostante questo, vi assicuro che la situazione tendenzialmente è tranquilla. Quello descritto è l’aspetto esteriore di una città. Il clima dei manifestanti è pacifico e costruttivo. Logicamente ci sono delle eccezioni ma sono marginali.

L’Unità titola oggi che Genova è vuota, fortificata ed invasa! Sugli ultimi due sono d’accordo ma sul primo aggettivo no!

Devo però informarvi che il GSF non ha una struttura molto organizzata come credevo. I più organizzati (come navette, accoglienza… ) sono i Disobbedienti  (le cd. tute bianche, nda) che però passano la giornata al Carlini (lo stadio, uno dei punti adibiti ad accoglienza dei manifestanti, nda) a costruire scudi ed armature da mostrare poi ai giornalisti che chiamano… Lo posso dire perché stanotte abbiamo dormito proprio lì, mentre al Gsf (inteso Piazzale Kennedy, il centro delle iniziative del Genoa Social Forum, nda) si tengono plenarie e discussioni di tutti i tipi e di tutti i gusti.

Per quello che si può raccogliere in giro il giorno più a rischio dovrebbe essere domani perché ogni gruppo
farà iniziative proprie mentre il 21 è sospesa ogni azione di disobbedienza civile. Il clima comunque non è quello che mostra la televisione. I controlli della polizia non sono così oppressivi da far nascere il dubbio di cosa portare nello zaino e penso che non ci dovrebbero essere problemi “politici” di come entrare a Genova, anche se ci sono difficoltà… logistiche.

È comunque straordinario quello che sta succedendo qui. Vorrei scrivere ancore note, sfumature e punti di vista ma ho poco tempo. Però compagni, ci tenevo a scrivere quello che sto vivendo perché, ripeto, la tensione non è quella della strategia ma è semplicemente l’emozione di vivere un evento che, ci ritorno, non abbiamo mai conosciuto.

A Genova bisogna esserci, senza nessuna paura!
Hasta Genova!
Saluti

Wedroski.

———————————————————————————————————————————————–

—–Messaggio originale—–
Da: cla
Inviato: giovedì 19 luglio 2001 20.20
A: wedroski
Oggetto: R: da Genova

meno male …segni di vita…ma da dove cazzo scrivi? ciao cla

———————————————————————————————————————————————–

Venerdì 20 luglio 2021

—————————————————————————————————————————————————-Messaggio originale—–
Da: S.C.
Inviato: venerdì 20 luglio 2001 18.47
A: wedroski
Oggetto: R: da Genova

Ma che succede? Come stai, sto vedendo in televisione quello che sta accadendo a Genova ma tu sei lì? Come stai? Rispondimi appena leggi la mail per favore

S.

—————————————————————————————————————————————————-Messaggio originale—–
Da: F.M.
Inviato: venerdì 20 luglio 2001 19.01
A: wedroski
Oggetto: R: da Genova

Ciao compagno, com’è la situa a Genova? Qui dicono che è un macello ed è pericoloso restare. Dicono che i manifestanti hanno attaccato la polizia e che hanno sparato ad uno. Ma ora come è? Dammi tue notizie

—————————————————————————————————————————————————-Messaggio originale—–
Da: L.S.
Inviato: venerdì 20 luglio 2001 19.57
A: wedroski
Oggetto: R: da Genova

Ciao, tu sicuro sei al G8….Vero?

non ci sentiamo da un anno ma conoscendoti tu sei andato a Genova….

—————————————————————————————————————————————————-Messaggio originale—–
Da: F.C.
Inviato: venerdì 20 luglio 2001 20.10
A: wedroski
Oggetto: R: da Genova

Ciao stai bene? Ho sentito alla televisione quello che è successo oggi. Ma è vero quello che si sente op le cose sono diverse? Io volevo venire giù ma i miei già non volevano prima figuriamoci ora. Poi mi dicono che è impossibile arrivare a Genova domani e che hanno sospeso tutte le manifestazioni. Guarda che ho saputo che a Genova c’è pure Leo! Non so dove sta però. Tienimi aggiornata. F.

—————————————————————————————————————————————————-Messaggio originale—–
Da: Maumaka
Inviato: venerdì 20 luglio 2001 20.20
A: wedroski
Oggetto: R: da Genova

We Ciao, tutto bene? Com’è la situazione? Non so quando leggerai la mail ma cmq domani vengo a Genova con Cristian e Angelo. Credo staremo nel corteo di Rifondazione. Nello spezzone di Milano.

Ma funzionano i telefoni? Lasciamo detto a casa eventuali cose e spostamenti.

M.

—————————————————————————————————————————————————-Messaggio originale—–
Da: M.G.
Inviato: venerdì 20 luglio 2001 20.30
A: wedroski
Oggetto: R: da Genova

Ciao, tu stai bene? I DS (Democratici di Sinistra, nda) non vengono più. Hanno annullato tutti i pullman. Hanno deciso di non venire in manifestazione domani perché è troppo pericoloso e non vogliono portare lì la gente. Io ed altri compagni ci stiamo organizzando per venire a Genova lo stesso autorganizzati o con treni di Lilliput o Rifo (Rifondazione Comunista, nda).

M.

———————————————————————————————————————————————–

Domenica 22 luglio 2001

—————————————————————————————————————————————————-Messaggio originale—–
Da: wedroski
Inviato: domenica 22 luglio 2001 14.59
A: tutti
Oggetto: da Genova

Genova, domenica 22 luglio 1990+11

Ciao a tutti,

non mi sono fatto più leggere dall’ultima e-mail di giovedì ma non ho potuto continuare quello che giovedì credevo di poter fare, e cioè di raccontarvi quello che vedevo. Di cose ne ho viste direi abbastanza e da giovedì, cioè dall’ultima volta che ho scritto, molte cose sono avvenute. È cambiato anche il mio stato d’animo. Giovedì c’è stata una bellissima e spettacolare manifestazione pacifica. Migliaia di associazioni, sigle sconosciute, rivoluzionari dalle mille idee e dalle lingue più incomprensibili. E poi, colori, serenità e la convinzione che tutto poteva andare come era stato pensato. Non mi dilungo (o dilago come le mie licenze poetiche mi permettono) sulla manifestazione anche se vorrei riferirvi tante piccole cose che dovrebbero far riflettere questo partito e soprattutto la gente che vi aderisce.

Venerdì è stata una giornata che farò fatica a dimenticare, sicuramente. Sapete degli scontri dei feriti e del morto immagino. Qualcuno si preoccupa per me come ho potuto vedere dalle mail inviatemi (e mi ha fatto “piacere “non sentirmi solo oggi, grazie.). Io sto bene. Oddio proprio sereno non lo sono ma, compagni, dopo alcune cose che ho avuto la sfortuna (o fortuna) di vedere, io mi preoccuperei di NOI e per quello che sarà il futuro delle nostre vite (e questo –nostre vite– non è affatto esagerato ve lo assicuro). Non posso stare a scrivere quello che ho visto per filo e per segno. Non finirei più. Una giornata intera nel Kaos non è neanche semplicemente descrivibile. E sinceramente vorrei ripigliarmi un po’ prima di raccontare. Ma da venerdì delle schegge di pensieri mi hanno colpito. Anarchici buoni, cattivi, teste di cazzo, infiltrati che creavano il disordine ovunque, paramilitari vestiti di nero troppo nero, polizia e carabinieri che con tutta la poca stima che ho sempre avuto nei loro confronti, non immaginavo potessero arrivare a tanto. E poi banche sventrate, magazzini saccheggiati, fuoco, idranti, gas ma soprattutto tanta, tanta gente impaurita, ragazzi, ragazze, padri, madri e bambini terrorizzati dal non sapere cosa stesse succedendo dove scappare e da cosa stessero scappando. Disinformazione totale, cortei sciolti nella violenza, camionette sparate nella gente anche la più pacifica. Questo in una città della democratica e globale Italia degli anni della tecnologia e della innovazione. . . .

Sono un illuso lo so. Ma come si fa a non credere che tutto questo non poteva in alcun modo accadere.

Ero lì, mi sono trovato nel cuore degli scontri più violenti per una serie di coincidenze che da anni cambiano la mia vita. Ma vi confesso di non avere avuto paura di quello che mi circondava. Ho invece terrore da venerdì, e dico terrore, di quello che sta dietro ai fatti di venerdì 20 luglio.

Venerdì ho vissuto per la prima volta il Kaos.

E non dico l’anarchia, l’anarchismo l’assenza di regole e della società. Ma semplicemente, il kaos.

La manifestazione del 21 poi è stata condizionata dagli eventi, dai conseguenti scontri pilotati e dalla violenza. E oggi voglio invitare tutti quelli che parlano di pacifismo e soprattutto di violenti a conoscere meglio il significato della parola pace e riconoscere, abbandonando una miopia fastidiosa, i veri violenti.

Oggi sono a scrivere nel Media Center del GSF la scuola che stanotte è stata sfondata dalla polizia. Sono qui, come giovedì scorso. Ma la situazione è diversa da due giorni fa. La polizia questa notte ha fatto un’irruzione qui (ma non solo). Una irruzione di pura violenza gratuita contro gli occupanti. Sono stati lanciati lacrimogeni all’interno dei corridoi e delle aule dove dormivano tanti ragazzi che non sapevano dove passare l’ultima notte delle manifestazioni. Come me. Per oltre un’ora la polizia ha continuato a picchiare tutti: ragazzi, organizzatori e anche alcuni giornalisti.

Anche quelli che stavano già dormendo e non hanno fatto in tempo a svegliarsi e capire quello che stava succedendo. Guardate, i lacrimogeni sono micidiali anche a metri di distanza nelle strade che sono ovviamente all’aperto. Immaginatevi lanciati in aule di scuola di pochi metri quadrati dove non riuscendo a respirare e a tenere gli occhi aperti si veniva presi e sbattuti con il cranio sui muri, picchiati nel sonno e si dice ci siano stati atti di pura violenza personale (e animale). Oltre al fatto che hanno distrutto computer, fax e sequestrato materiale che molto probabilmente avrebbe compromesso e denunciato molte azioni illegittime della polizia. Per non dire delle prove che documenterebbero gruppi di tute nere affiliate alla polizia o comunque ai militari.

E questo non è frutto dei miei pensieri che mi portano, per esempio, ad essere convinto del fatto che la donna della mia vita sia una stupenda ragazza inconsciamente innamorata di me ma che poi non mi parla nemmeno +… Queste non sono mie supposizioni, ripeto. Io sono nelle aule dove 3-4 ore fa è avvenuta una pura violazione dei diritti umani. Ci sono tracce di sangue ovunque: per terra, sui muri e sugli armadietti dove si vede chiaramente che le teste sono state trascinate violentemente sulle pareti inoltre ciocche di capelli strappati per le scale. . .

Qualcuno ieri diceva di aver visto uscire fuori dal Center dei sacchi neri portati da quattro persone. Il terrore si è diffuso immediatamente fra il gruppo di persone con cui ero a dormire. Terrore che dopo gli scontri, dopo il Media Center, dopo il Carlini (lo stadio dove ho dormito per qualche notte) ed il camping del Ciclamino, la polizia sarebbe passata da p.zza Kennedy ripulendo e reprimendo così, a G8 concluso, tutti quelli che erano ancora in giro dopo la manifestazione. No, non sono i sacchi con cui si portano i cadaveri e non si tratta nemmeno di morti. “Semplicemente” normali sacchi a pelo con dentro normali ragazzi che sono stati picchiati nel sonno e vengono portati in ospedale senza nemmeno usare le barelle.

Una signora intanto mi fa notare che nella stanza dove mi trovo c’è un tipo che ieri negli scontri si comportava in modo troppo provocatorio verso la polizia. Ho lasciato un attimo il computer perché di infiltrati o di teppisti a Genova ne ho visti un po’ e vorrei giudicare da vicino. Quindi gli chiedo una sigaretta ed inizio a parlare in inglese (!?) dei fatti. Non mi convince non riesco a vederlo come manifestante ma non posso dire niente. Però è sempre bene poterlo riconoscere in un’altra occasione.

Qui alcuni piangono ancora, altri hanno i segni visibili sulla faccia.

I genovesi della zona sono indignati. Ieri notte addirittura dopo la notizia un motociclista, incontrato per strada nella notte, ci ha fatto da inviato avanti e indietro, nella zona calda verso cui ci stavamo dirigendo, per informarci della pericolosità della situazione. La polizia infatti qui ferma ed arresta chiunque senza motivo. Altri, sempre gli splendidi genovesi, per strada e dai balconi ci aiutavano ad evitare la polizia consigliandoci strade alternative.

Due stavano giocando a carte, le vedo per terra sporche anch’esse di sangue. La partita è stata sospesa. Sospesa come la partecipazione del partito alla manifestazione del 21. C’è chi l’ha sempre detto: “non commettiamo l’errore di credere che questo movimento rappresenti tutto il mondo”. È vero, quello che dovrebbe essere l’eredità del partito che rappresentava ed ORGANIZZAVA i lavoratori, ieri non c’era. Ma loro, i lavoratori, i deboli, i semplici, gli sfruttati la gente comune che trova forza di andare avanti cantando canzoni di libertà, ieri c’erano, ed erano rappresentati . . . nonostante qualcuno abbia scelto di far parte di quel mondo che non rappresenta nessuno.

GENOVA LIBERA.

Saluti

Wedroski.

———————————————————————————————————————————————–

—–Messaggio originale—–
Da: Nomad Soul
Inviato:  domenica 22 luglio 2001 17.05
A: wedroski
Oggetto: R: da Genova

Gli avvenimenti di questi giorni non fanno che confermare tutti i miei dubbi

e le mie paure a riguardo.

Mi sono seriamente commossa nel leggere il tuo racconto

vi pensavo lì ed ho avuto paura

e finché, tornato a casa, non mi inviterai a quella famosa cena

continuerò ad averne.

A presto

nomad soul

———————————————————————————————————————————————–

—–Messaggio originale—–
Da: Clara
Inviato:  domenica 22 luglio 2001 17.11
A: wedroski
Oggetto: R: da Genova

ciao Wedroski

ho ricevuto anche la tua seconda mail. le tue parole non possono mostrarmi le strade di Genova ma mi fanno sentire intensamente la tensione, la giustizia e l’ingiustizia di quello che sta accadendo lì.
Il fatto è che le info che arrivano a noi sono ridicole nella maggior parte dei casi, e la gente non sa quasi un cazzo di tutte queste cose che mi stai trasmettendo e che vivete lì a Genova.
Comunque, oltre alla preoccupazione di tutti noi per voi che siete là, si fa fatica a credere che il governo e le forze di polizia stiano facendo tutto questo… eppure è così, ed è peggio di come da qui posso immaginare. Ma che cazzo vogliono questi fascisti?
Questa mi sembra una “guerra organizzata”, una “prova generale” fatta dal governo italiano e non so chi altri per dimostrare che cosa sono in grado di fare, per prepararsi a chissà che cosa. La situazione è davvero molto pericolosa, lo è  a Genova in questi giorni e lo è in generale per tutti noi, ancora di più per noi che non sappiamo cosa sta accadendo, e lo sarà dopo Genova .
Credo di avere paura di quel che potrà accadere.
Io me ne voglio andare da questo paese oscurato dall’ignoranza della gente e dalla disinformazione, dalle immagini leccate e dalla televisione ormai monopolio del governo Berlusconi.
Tu sei ancora a Genova? Quando pensi di tornare?
Ci sentiamo o ci vediamo. A presto

Clara

—————————————————————————————————————————————————-Messaggio originale—–
Da: Mary
Inviato:  domenica 22 luglio 2001 18.32
A: wedroski
Oggetto: R: da Genova

La mail di Wedroski mi ha molto colpito e vorrei dirgli alcune cose. Come sai io e la T. ci siamo iscritte al Partito quest’anno e non alla SG (Sinistra Giovanile, nda) ma grazie ad Andrea ho seguito tutti i vostri dibattiti interni poiché mi ha inserito nell’indirizzario. La SG mi anima ancora tanto e penso a persone che ho ammirato e stimato tanto. Volevo dire a Wedroski che io non sono stata al G8, il lavoro (lavoro su turni) non me l’ha permesso e nonostante io abbia supplicato un cambio turno nessuno mi ha voluto sostituire per il weekend. Sono stati giù i miei amici più cari, quelli con i quali condividi tutto e vorresti sempre cambiare il mondo, e dal momento in cui sono uscita dal lavoro sono stata in diretto contatto con loro e contemporaneamente con Radio Popolare per riferire le notizie che sentivo e dare indicazioni sulle zone più sicure della città. Per chi avrebbe voluto esserci con tutto il cuore e aveva delle persone care è stato un incubo diverso: vivevo la situazione nel complesso terrorizzante e avevo una grossa rabbia nel cuore per quello che succedeva. Non si può dimenticare come sono andate le cose e da voi che eravate lì ci aspettiamo racconti dettagliati e denunce precise. La delusione grande, grandissima, forse la più grande è stato il ritiro in battuta del Partito, scelta folle, miope di un partito che ha scelto una via suicida da tempo e che non si fa cambiare, che non vuole più mettersi in discussione, che perde credibilità ogni giorno. A persone come te, come tanti militanti dei Ds e della Sg che c’erano va il mio rispetto più grande, a questo Partito io non so più come guardare……..

M.

———————————————————————————————————————————————–

—–Messaggio originale—–
Da: Max
Inviato:  lunedì 23 luglio 2001 05.59
A: wedroski
Oggetto: R: da Genova

Buongiorno Compagno.

Mi aggiungo anche io al dolore che in questi giorni, sia la morte che il

“resto” ha travolto Genova e tutti i Compagni.

Non mi spiego se è stato un male il fatto di non essere potuto o voluto

venire a Genova. Comunque sappi che la mia ammirazione è sempre verso tutti

coloro che lo hanno fatto, la Vs presenza è stata impagabile per tutto

quello che avete passato. Spero soltanto che questa gente usando così tanta

violenza gratuità abbia un giorno a chi renderne conto e ancor di più gli

auguro che il conto sia MOLTO salato.

—Max–

—————————————————————————————————————————————————-Messaggio originale—–
Da: Simon
Inviato: lunedì 23 luglio 2001 09.20
A: wedroski
Oggetto: R: da Genova

Ciao come stai? Venerdì io e gli altri siamo andati al mare al Lido degli Scacchi come ti avevo detto l’altro giorno. Vedevamo colonne e colonne di macchine e camionette degli sbirri con sirene spiegate che venivano verso su in autostrada. Ho subito pensato che stavano andando tutte al G8. Sei riuscito a scappare o ti hanno preso anche a te? Non era meglio venire al mare con noi? Ci becchiamo quando torni.

Simon

—————————————————————————————————————————————————-Messaggio originale—–
Da: Ann.
Inviato:  lunedì 23 luglio 2001 09.26
A: wedroski
Oggetto: R: da Genova

Caro Wedroski,

non ci conosciamo ma ho ricevuto i tuoi reportage da Genova e per questo ti ringrazio.

Anche io sarei voluta venire a manifestare ma poi la paura di essere

fraintesa sui motivi del mio dissenso e il timore di vivere nella guerriglia, mi hanno fatto desistere.

Sono profondamente amareggiata per quanto successo e mi rendo conto che la paura si sta insinuando tra coloro che fino ad oggi hanno creduto che la libertà di manifestazione fosse un diritto che non potesse essere messo in discussione e si è annidata nella mia mente per prima.

Dopo quello che è accaduto durante la scorsa notte ho però deciso che non avrò più paura.

L’unica paura che si può avere è quella di entrare in un regime dove nessuno può più esprimere il proprio dissenso, e questo io non lo voglio.

D’ora in avanti manifesterò con la forza di chi non vuole rinunciare a dire NO

ciao

ann.

Media e G8, fra propaganda e attivismo
Una parte, non piccola, di quello che è successo a Genova è responsabilità di come vennero veicolate le informazioni da parte del mainstream. Di Angelo Miotto e Massimo Acanfora

Ancora una volta l’informazione ha giocato un ruolo chiave, nella propaganda di terrore che venne diffusa prima delle giornate genovesi, nelle cronache di tante emittenti e media indipendenti, nella partecipazione alle piattaforme di mediattivismo, che riuscirono a raccogliere video e fotografie importanti per ricostruire e denunciare. Una parte, non piccola, di quello che è successo a Genova è responsabilità di come vennero veicolate le informazioni da parte del mainstream.
Alla fine, a pensarci bene, è l’immagine che resta quella che conta. E gli strateghi della comunicazione dentro le strutture che iniziarono a spargere veline dementi, puntualmente riprese da grandi giornali e televisioni, conoscono profondamente le regole del gioco. Sembra un ragionamento a tesi, eppure le emeroteche sono lì a consegnarci questi fatti, reali, che messi in fila sono difficili da smentire. Pensate a che cosa rimane a noi di Genova. Carlo Giuliani, un corpo a terra, il sangue. Le botte indiscriminate, persone adulte, manifestanti inermi con il sangue che cola dalla testa, sulle magliette, i fumi, lacrimogeni vietati dalle convenzioni internazionali, il finanziere robocop, i tonfa, gli elicotteri e il suono ossessivo. Pensate a cosa è rimasto dentro l’immaginario collettivo per giorni e mesi, forse anche anni: manifestanti che sfasciano le vetrine, le dichiarazioni di guerra dei Disobbedienti prese come se fossero un proclama della jihād e non di un collettivo che esaltava le parole, ma dentro tute da tre euro l’una. Il Movimento cattivo, i violenti, la citt  devastata, messa a ferro e fuoco. Ma prima ancora la paura, il terrore, la citt  che chiude, l invito a scappare da Genova… E ancora, la caricatura dei portavoce, gli attacchi personali, i cognomi storpiati, le trappole mediatiche.
Le idee, quelle di cui parliamo in queste pagine, sono assenti.
David Bidussa racconta di un altro momento in cui si tornò a parlare di alcuni temi, come Expo 2015. Anche lì, le grandi dichiarazioni, il dibattito sull’alimentazione a livello planetario, al di là di un aspetto strumentale che ci fu da parte di chi voleva approfittare dell’occasione, anche economica, anche lì i giornali riuscirono a creare un clima di tensione incredibile. Ci ricordiamo il primo maggio dei nerovestiti, un buon numero di macchine bruciate, e qualche giro al Luna Park che fu l’Expo, detto senza sminuire le più nobili intenzioni, o progetti presentati, ma quello doveva essere e quello alla fine è stato: un ottimo parco di divertimenti con spunti e notizie, curiosità e qualche nozione davvero interessante. Della soluzione al problema dell’alimentazione globale non è rimasto granché nei nostri occhi.

Se però chi sparge veline fa il suo mestiere, pessimo e in contrasto alla verità,  a volte ci si può chiedere come mai i grandi giornali, con centinaia di giornalisti da scatenare, non riescano a separare il grano dal loglio e si infilino diritti dentro la costruzione di un clima sociale di paura, di terrore, che alla fine quasi credono di raccontare, quando lo stanno alimentando e contribuiscono a diffonderlo. Per onore di verità, anche nel mainstream sono stati molti i giornalisti e le giornaliste attenti, scrupolosi, sui fatti. Ma se l’inviato detta legge sulle notizie dal posto, dentro le stanze di chi poi fa uscire i giornali si creano i titoli e soprattutto si elaborano le richieste che gli stessi inviati dovranno soddisfare.
Al di là delle intenzionalità, cioè della missione di alcune testate di creare paura e avversione verso i manifestanti che stavano per arrivare, si scatena anche una dinamica ossessiva, in cui Genova diventava notizia senza vere notizie e per tenerla in pagina si scatenano forze a cercare qualcosa che non c’è e quindi ogni appiglio diventa buono e va a costruire, tassello dopo tassello, un mondo parallelo e irreale che viene però raccontato e che condiziona quello reale.
Fake news, diciamo oggi, ma il meccanismo dell’amplificazione di categoria pericolosissimo, specie se poi dentro la grande stampa e il grande circuito si deve compiacere qualche potente al governo. Lo testimonia Carlo Gubitosa in “Genova nome per nome”: “Nei giorni che precedono il G8 il livello di tensione era cresciuto anche per la diffusione di informazioni incontrollate, prodotte dai servizi segreti e amplificate dai mezzi di informazione, che alla luce dei fatti si sono rivelate solamente degli esercizi di fantasia, ma che nell’imminenza del vertice possono aver messo in apprensione chi è abituato a credere a ciò che viene scritto sulle prime pagine dei giornali”. Il Corriere della Sera del 17 luglio 2001 titola prima pagina: “Rapporto dell’Antiterrorismo: all’assalto dei Grandi con fionde, cani e telefonini”, spiegando che “le strategie d’assalto ai Grandi comprendono tempeste di messaggi via cellulare, fionde, attacchi con i pitbull”. Nelle pagine interne si arriva addirittura ad affermare che “per violare la cittadella del summit potrebbero essere usate piccole barche, canoe, alianti e parapendii”. Si favoleggia di palloncini contenenti sangue (infetto secondo i più fantasiosi) che sarebbero stati lanciati nel corso della manifestazione; di copertoni da dare alle fiamme e far rotolare lungo i caruggi che scendono al mare per attaccare le forze dell’ordine.
In un intervista per i 15 anni dal G8 Vittorio Agnoletto ricorderà “la campagna mediatica forsennata che ha accomunato il 99% dei media italiani che descrivevano quel movimento come un’organizzazione sovversiva”.
I principali giornali vanno a nozze – ad esempio – nel soffiare sul fuocherello acceso dagli ingenui proclami delle Tute bianche. Il paradosso è che a Genova ci saranno oltre 5mila giornalisti accreditati, oltre a fotografi e videomaker. La grande maggioranza dei giornalisti per settimane ha riempito per giorni le pagine dei giornali descrivendo la violenza, ma soprattutto ha ignorato i contenuti e le ragioni del movimento. Ancora Gubitosa: “Il paradosso mediatico che si è verificato a Genova è stata la descrizione responsabile, fatta dai giornalisti e dagli operatori dell’informazione, di uno scenario che loro stessi avevano contribuito a costruire irresponsabilmente, anche attraverso l’amplificazione di notizie altamente improbabili e allarmistiche”.
Buona parte del mondo dell’informazione abboccherà poi ai vari depistaggi sulla presenza di armi e molotov nella scuola Diaz e saranno necessarie le sentenze per vedere ripristinata la verità nero su bianco. Più in generale nessun media mainstream ha davvero il coraggio di prendere le distanze dalla violenza indiscriminata delle forze di polizia mettendo – impropriamente – sul piatto della bilancia le devastazioni dei black bloc e la caccia all’uomo per le strade e alla Diaz. Nessuno o quasi prova ad alzare il velo sulla “regia” di tutto questo.
La violenza evocata e descritta dai media in alcuni casi si è poi ritorta – ahimé – sui giornalisti stessi. I casi sono numerosi.
“Il più eclatante dei 14 casi di violenza attribuiti alle forze dell’ordine – scrive Gubitosa – è quello di Eligio Paoni, fotoreporter dell’agenzia Contrasto. Mentre cerca di fotografare Carlo Giuliani, ucciso da un colpo di pistola pochi istanti prima, Paoni viene bloccato dai Carabinieri riportando una ferita alla testa e la frattura di una mano. I militari gli hanno anche distrutto una macchina fotografica e lo hanno costretto a consegnare la pellicola di un’altra fotocamera che era riuscito a tenere al riparo dalle manganellate e dai calci delle forze dell’ordine”. Dichiarerà : “Oggi non ho paura di andare a fotografare qualche conflitto in un Paese sperduto: il rischio è calcolato. Oggi ho paura di tornare a fotografare quello che succede nelle piazze e nelle strade del mio Paese”.
Mark Covell e Lorenzo Guadagnucci, fuori e dentro la scuola Diaz protestano inutilmente di essere giornalisti, prima di essere selvaggiamente percossi. Anche i black bloc non sono teneri verso i giornalisti: Mimmo Frassinetti dell’agenzia AGF, viene “sprangato” e derubato dell’attrezzatura, così tocca in sorte a una troupe della televisione giapponese JTV e a quella di una televisione tedesca, attaccata e malmenata da un gruppo di estremisti sabato 21. I dati forniti dalle strutture sanitarie parlano invece di 16 giornalisti feriti (di cui 3 ricoverati), tra i 411 feriti nell’arco dei tre giorni. Non si sa quanti hanno preferito non passare da un ospedale.
A contraltare di questo quadro fosco, a Genova emergono per la prima volta in Italia, anche grazie alle innovazioni tecnologiche, i media “indipendenti”. Con lo slogan “Don’t hate the media, become the media” si affermano realtà di mediattivismo, come Indymedia, il network di movimento che si è distinto durante le mobilitazioni contro il WTO a Seattle nel ’99. Indymedia a Genova era alloggiata al terzo piano della scuola Pertini, di fronte alla scuola Diaz. In quella scuola si trovava anche la segreteria del Legal Forum, gli avvocati del Genova Social Forum, al primo piano. Carlo Gubitosa è tra i media attivisti che fruisce del media center: “I piani superiori dell’edificio che comprende i due istituti si trasformano in un insieme di redazioni temporanee dove trovano spazio i giornalisti del settimanale Carta e del quotidiano Liberazione, i ’mediattivisti’ di Indymedia e lo studio di trasmissione del “Global Audio Project”, detto anche Radio Gap 1, un coordinamento di emittenti fondato dalle radio Onda d’Urto di Brescia e Milano, Onda Rossa di Roma, le radio bolognesi Fujiko, Kappa Centrale e Città, l’agenzia radiofonica romana Amisnet e radio Ciroma di Cosenza. Mentre l’accesso ai ’piani alti’ è rigorosamente riservato ai gruppi citati in precedenza, al piano terra del media center vengono messi a disposizione computer e linee telefoniche che ho più volte utilizzato, come molti altri giornalisti indipendenti, in alternativa al costosissimo e sfarzoso centro stampa dei magazzini del cotone, situato all’interno della zona rossa e lontano dal centro delle attività dei manifestanti. Un’area della zona computer viene destinata alla sala stampa, dove a partire da lunedì i rappresentanti delle varie organizzazioni aderenti al Patto di Lavoro si incontrano con i giornalisti e gli operatori dei mezzi di informazione”.
Nel bell’articolo di Marco Trotta (che vi consigliamo di leggere in toto) su Comune-info.net (https://comune-info.net/g8-media-indipendenti/) si ricorda che il TG5 di Enrico Mentana si “appropriò” poche ore dopo il 21 luglio del video di Indymedia, con il logo oscurato. Un altro filmato indipendente importante, scrive Trotta “è Blu Sky come è stato definito dal pm che portò i vertici della polizia a processo, Enrico Zucca: ovvero pochi secondi che incastrarono definitivamente i vertici della polizia presenti di fronte alla Diaz con il sacchetto delle molotov che si stava cercando di far passare in possesso dei manifestanti”. Il materiale audio e video raccolto a Genova e montato da Indymedia “fu il primo tentativo di squarciare il velo della ricostruzione massmediatica grazie a testimonianze dirette dalla piazza ed ai manifestanti vittime dei pestaggi”. Il video è ancora visibile su: www.ngvision.org/mediabase/333.
“L’enorme produzione di video, racconti e foto dopo il G8 di Genova […] ha spinto prima il paese e poi quella parte di giornalismo pi  attenta alla ricerca della verit  a produrre inchieste e libri che hanno definitivamente ribaltato le ricostruzioni ufficiali che si stava cercando di imporre all’epoca”.
Quindi vent’anni dopo possiamo dire senza tema di smentita che ci fu servilismo, sicuramente, non ci fu servizio pubblico e che anzi il servizio pubblico, paradossalmente, venne incarnato dalle emittenti e dai media indipendenti o militanti, che furono quelli che riuscirono a ripetere verso l’esterno le notizie che accadevano sul momento, e che ebbero poi un ruolo anche nell’andare a ricercare chi scomparve dopo l’assalto alla Diaz e nel coprire il grandissimo dissenso popolare che animò le piazze e le strade davanti alle Prefetture d’Italia per la sospensione dei diritti subita.
Radio Popolare, lo dice anche Danilo De Biasio nel suo contributo, lui che fu l’organizzatore e l’artefice di una spedizione di 27 inviati da tutta Italia, aveva due sedi ufficiali, lontano dagli altri media proprio per evitare di subire censura come accadde, e una terza sede che solo pochissimi sapevano dove fosse ubicata, per poter sentirsi garantiti nel non dover fermare le trasmissioni.
In quei giorni trasmettemmo sulle frequenze di Radio Lanterna, e per anni molti manifestanti ringraziarono l’emittente milanese perché con la copertura dei giorni di repressione eravamo riusciti a dare indicazioni utili a chi era in piazza e ai parenti che lo aspettavano a casa.
Piero Scaramucci, allora direttore di Radio popolare, ripeteva senza sosta a tutti gli inviati di curare anche i toni e i vocaboli. Una spinta è una spinta, uno schiaffo uno schiaffo, uno scontro va descritto, il tono non deve andare in orgasmo; insomma una scuola incredibile che veniva applicata a beneficio delle ricadute che possono avere toni e parole sbagliate sulla piazza, sulla massa. Il direttore scrisse uno dei più bei titoli il 21 luglio nell’editoriale in cui denunciava senza girarci intorno come suo solito cosa stava avvenendo, scandendo bene le parole Stato di polizia. Il titolo iniziava con ’Essere a Genova’, che aveva dentro quelle tre parole tutto: l’intenzione, la corporeità, la resistenza e resilienza, la denuncia. Alla fine Radio popolare fece uscire “Cronache”, con un lavoro enorme di montaggio di tutti quei giorni e una selezione di fotografie su quelle giornate. Senza essere partigiano, pur essendo coinvolto in quella operazione.
La radiofonia libera e indipendente fece un grande lavoro, anche nei giorni, nei mesi e negli anni dopo. Forse va sottolineato proprio il fatto che la memoria di Genova inizia anche da lì, dal fatto che non ci si è fermati al primo anno, e poi solo alle udienze chiave dei processi. Genova, per la sua gravità, è rimasto tema di periodo per il giornalismo indipendente e nelle nuove forme di intendere l’informazione.
Per chiudere questa breve riflessione vorrei raccontare un frammento della comunicazione “istituzionale”, dalla parte del potere.
Il responsabile dell’Ufficio Relazioni Esterne della Polizia di Stato Roberto Sgalla – comunque mai indagato per i fatti di Genova, oggi direttore del Centro Studi Americani e per diversi anni direttore della Scuola Superiore di Polizia – improvvisò una conferenza stampa nell’immediatezza, alle 2 di notte in piedi davanti alla scuola, dove – dopo aver chiesto più volte ai giornalisti di spegnere le telecamere – riferì le prime falsità su quanto accaduto all’istituto Pertini. Qualcuno però  disobbedì e il video amatoriale è stato poi inserito nel documentario “Genova. Per noi”, distribuito allora da Carta, Unità, Manifesto e Liberazione. Il breve video, non privo di una certa drammaticità, si può vedere su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=I8b1TTo-XqU#t=01m20s
La mattina dopo fummo convocati in questura per la conferenza stampa. Mi ricordo che eravamo molto stanchi, fui svegliato da una chiamata: “vai in questura, conferenza stampa Diaz”. In una sala grande la polizia aveva allestito sui tavoli messi a rettangolo, una sorta di sfilata con “il campionario del cattivo manifestante Black Bloc”, con i giornalisti tutti intorno che guardavano e toccavano pure (vedi anche qui un breve video https://www.youtube.com/watch?v=Lh26XZUdmGA).

Il comunicato era scarno, poche righe. L’ho sempre tenuto da qualche parte. Poi l’ho ritrovato e lo riportiamo in calce a questo capitolo.
Sgalla non volle leggerlo lui e quindi lo fece leggere a una sua sottoposta e ancora oggi rammento l’imbarazzo di quella voce tremula nel leggere una quantità di panzane inverosimili, ma utili da ricordare per dire della menzogna già orchestrata. Per chi non c’era: la versione ufficiale per l’irruzione alla Diaz con un reparto speciale e addestrato in maniera speciale, viene da un presunto tiro di pietre contro due pattuglie. L’irruzione, nel comunicato, è un’azione in cui viene ferito un agente, che ha il corpetto trapassato da un coltello e dove si è proceduto a fermare 93 persone perché fan parte del famigerato blocco nero.
Sui tavoli c’erano dai tampax e dei badili, delle mazze, coltellini da campeggio, felpe nere, maglie nere, cappellini neri, bandiere rosse e rossobrune dell’anarchia, borracce, e tutto era messo a bella mostra come per dire: ecco qui, li abbiamo presi.
Ma è qui che succede una cosa che ci deve far riflettere: un giornalista straniero spegne la telecamera e inizia a questionare il comunicato. Soprattutto perché il funzionario Sgalla dice che non si possono fare domande, cioè non si può mettere in discussione il comunicato farlocco.
Sono solo i giornalisti stranieri, all’inizio, a protestare e anche vivacemente, gli italiani no. Un greco grida che vuole sapere dove sono stati portati eventuali connazionali arrestati o portati in ospedale.
C’è una pratica diffusa in Spagna: quando i giornalisti sentono di essere presi in giro o che le istituzioni vogliono negare la trasparenza delle informazioni, avviene il plante. Cioè tutti i giornalisti, di ogni schieramento, dicono che buttano giù la penna, spengono il registratore, la telecamera si appoggia per terra e si rimane a manifestare di fronte al potere per dire che c’è un dovere di comunicazione trasparente.
Questo a noi manca, mancò allora e continua a mancarci oggi. E questo è alla fine un piccolo, se volete anche piccolissimo, tassello che nel grande gioco dele tragedie come Genova, ha un suo importante e specifico peso.

IL “COMUNICATO”
“Anche a seguito di violenze commesse contro pattuglie della Polizia di Stato nella serata di ieri in via Cesare Battisti, si è deciso, previa informazione all’A.G., di procedere a perquisizione della scuola Diaz che ospitava numerosi giovani tra i quali quelli che avevano bersagliato le pattuglie con lancio di bottiglie e pietre.
Nella scuola Diaz sono stati trovati 92 giovani, in gran parte di nazionalità straniera, dei quali 61 con evidenti e pregresse contusioni e ferite.
In vari locali dello stabile sono state sequestrati armi, oggetti da offesa ed altro materiale che ricollegano il gruppo dei giovani in questione ai disordini e alle violenze scatenate dai Black Bloc a Genova nei giorni 20 e 21.
Tutti e 92 i giovani sono stati tratti in arresto per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio e detenzione di bottiglie molotov.
All’atto dell’irruzione uno degli occupanti ha colpito con un coltello un agente di Polizia che non ha riportato lesioni perché protetto dal corpetto.
Tutti i feriti sono stati condotti per le cure in ospedali cittadini”.

Nota a margine
Il corpetto era stato manomesso.
Le bottiglie erano state portate dall’agente Pietro Trojani, poi condannato con sentenza definitiva in Cassazione. Oggi è ancora vicequestore.

L'eredità di Genova
Morto, disperso, spezzato: che fine ha fatto il Movimento? di Angelo Miotto

Dove è finito il Movimento? È vero che si è sgretolato, poi? È Emma, venti anni, che ce lo chiede in un incontro di presentazione del libro Genova per chi non c’era.

Un incontro particolare e interessante, perché un ‘vecchio’ militante antagonista Francesco Franz Purpura ha invitato sotto la tenda del Rob de Matt, un locale e luogo di coesione milanese zona Dergano, tre over 50 e tre giovani ventenni.

In un’ora e mezza di domande e risposte si è parlato di Genova, della proposta di Genova, dei grandi temi su ammbiente, società, democrazia, lavoro, salute, agricoltura, cultura che si ponevano come una proposta alternativa al sistema di sfruttamento economico che ci comanda. Ma alla fine dell’incontro una donna, che a Genova c’era stata a vent’anni, ha chiuso l’incontro con il suo intervento. Bello vedere questo mix generazionale, bello vedere che non è più come in altri casi di incontro dove i cevvhi eranoi guru o leader e dove i giovani ascoltavano e basta. Bello vedere che le tre attiviste erano donne.

L’aneddoto è utile per riflettere sul legato di Genova, perchè no, il Movikento non morì e sì, il Movimento fu spezzato dal terrore che ingenerò la repressione selvaggia e violenta. Ma Il Movimento andò avanti, in formazioni asimmetriche a volte o a spezzoni senza quell’unicità di piattaforma comune che aveva vissuto a Genova.

La politica partitica lo soffocò, nei nfatti, anche e forse soprattutto dentro il centro sinistra. ma i Forum continentali portarono avanti il discorso, in maniera forte e determinata soprattutto durante la lunga stagione dei presidente progressisti democraticamente eletti nel Cono Sur. Il Movimento fu carsico, cioè si inabissava e poi riafforava con forza, come durante la manifestazione contro la guerra d’Iraq nel 2003. Poi vennero gli Indignados, che daranno vita a Podemos, poi Occupay Wall Street e a livello capillare una miriade di altre rivedincazioni, alcune forti a livello nazionale, come i No Tav, che in qualche modo, ricordo il decennale del G8, venivano vissuti come ultimo baluardo di resistenza al potere, una resistenza attiva.

E poi ci sono le migliaia di casi di nuove pratiche di vita che hanno fatto seguito a Genova, mentre il mondo si abbandonava alla digitalizzazione completa, scelte spesso radicali dim come vivere e dove vivere, quali valori scegliere e propagare poi nell’educazione di nuove generazioni. Queste pratiche sono forse quelle meno visibili dall’alto, ma a livello territoriale esistono e sono in forte ascesa, perché le crisi economiche e quelle finanziarie che poi sono state pagate dai soliti noti hanno riattivato reti di solidarietà, vicinanza, vicinato, scambio di bisogni e di aiuto, dentro una società parcellizzata che aveva lasciato solo spazio alla solitudine dentro camere stagne di disperazione, troppo spesso.

L’agenda internazionale oggi ci parla di clima e ambiente, buon’ultima arrivata. Mentre scrivo queste rigo penso al caffé che ho bevuto stamattina al bar, sfogliano un giornalone mainstream: pagine e pagine su clima, sostenibilità, transizione. Sappiamo anche che se ci sono arrivati è perchè sono stati obbligati e perchè ci sono affari e denaro da spartirsi, non siamo più tanto ingenui.

Il Movimento muta, sempre, le persone mutano, le sensibilità spesso rimangono e l’agenda alternativa che veniva lanciata a Genova venti anni fa è ancora atuale, tremendamente e drammaticamente attuale, se non peggiorata.

Chiudo queste righe tornando all’incontro intergenrazionale. C’è molta energia e c’è voglia di conoscere, in alcuni, in molti.Anche perché la dimensione ideale arriva sempre, è solo questione di tempo, a esigere una esperienza tangibile, una attuazione pratica. Insomma, voler vedere che le cose possono davvero cambiare.

In questo viaggio noi che abbiamo vissuto Genova possimao essere degli ottimi copmpagni di avventura, solo se lasceremo indietro qualsivoglia meccanismo di autoreferenzialità reducistica.

Non chiedeva nulla per sé, ma giustizia per il mondo intero
Luca Martinelli in un viaggio sui vent'anni e le diverse latitudini di quel Movimento

Grazie a Luca Martinelli, compagno e collega, e a valigiablu.it che ha acconsentito alla ri-pubblicazione in questa Story dell’articolo che segue.

G8 / Genova: il primo movimento di massa della storia che non chiedeva niente per sé, voleva solo giustizia per il mondo intero

author: Valigia Blu @valigiabluinfo@valigiablu.it

di Luca Martinelli

“È il primo movimento di massa della storia che non chiede niente per sé,
vuole solo giustizia per il mondo intero”
[Susan George – Genova, luglio 2001]

Sabato 21 luglio 2001 non ero a Genova ma nel centro storico di Lucca, in corso Garibaldi, di fronte al mercatino dell’usato di Mani Tese. Era aperto da un anno e lo gestivamo come volontari. Da lì, quel pomeriggio cercavamo (con fatica) di contattare gli amici che erano partiti per partecipare alle manifestazioni indette dal Genoa Social Forum nei giorni in cui il capoluogo ligure ospitava il G8, il summit tra capi di Stato e di governo delle otto maggiori potenze globali.

Volevamo fare da ponte, immaginavamo di aiutarli a ritrovarsi dopo che il corteo era stato disperso nella violenza. Mani Tese era a Genova nello spezzone della Rete di Lilliput, una rete tra associazioni e campagne che era nata nel 1999, il cui nome si rifaceva al romanzo I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, in particolare l’avventura del protagonista tra i minuscoli (ma uniti) lillipuziani. Il movimento si riconosceva nel «Manifesto della Rete di Lilliput per un’economia di giustizia», corsivo mio, di cui si trova ancora traccia su Internet: «Diamo avvio alla Rete di Lilliput per unire in un’unica voce le nostre molteplici forme di resistenza contro scelte economiche che concentrano il potere nelle mani di pochi e che antepongono la logica del profitto e del consumismo alla salvaguardia della vita, della dignità umana, della salute e dell’ambiente». Erano i temi di cui si parlava nelle riunioni e nelle assemblea che in ogni città d’Italia e non solo anticiparono l’appuntamento di Genova.

La «sede», come chiamavamo il mercatino di Mani Tese, che all’occorrenza diventava spazio per le nostre riunioni o per incontri pubblici, era il nostro avamposto verso un mondo migliore: avevamo vent’anni, credevamo nell’importanza di promuovere una cultura della sostenibilità contro lo spreco – a partire dal riutilizzo di vestiti, mobili, libri e oggetti che recuperavamo nei pomeriggi di «raccolta» nelle case e nelle cantine di chi ci chiamava – e sostenevamo il movimento per un commercio più giusto, ospitando in uno scaffale prodotti del mercato equo e solidale. Nell’estate del 2000 avevamo fatto il primo viaggio nel Sud-est messicano, in Chiapas, per conoscere l’esperienza della comunità indigene zapatiste, quelle che appoggiavano l’esperienza dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale (EZLN), l’esercito popolare insorto in armi il primo gennaio del 1994 per protestare contro l’invisibilità dei popoli indigeni in Messico. La data scelta non era casuale, tanto che la mandavamo a memoria: in quello stesso primo giorno di gennaio entrava in vigore il Trattato di libero commercio tra Stati Uniti, Canada e Messico, conosciuto come NAFTA, che liberalizzava gli scambi tra tre paesi che presentavano forti sperequazioni tra livelli salariali e di tutela e riconoscimento dei diritti dei lavoratori (a sfavore del Messico) e sussidi all’agricoltura industriale (negli Usa e in Canada). Il NAFTA era la realizzazione della globalizzazione delle multinazionali e gli indigeni del Messico la temevano.

Nell’estate del 1996, cinque anni prima di Genova, in Chiapas, in una comunità chiamata La Realidad, si era tenuto il primo «Encuentro Intercontinental por la Humanidad y contra el Neoliberalismo». Il messaggio era inequivocabile: da una parte ci sta l’umanità, dall’altra il neoliberismo. A quell’appuntamento parteciparono più di 5mila persone provenienti da 41 paesi. Nasceva lì, probabilmente, un movimento davvero internazionalista, quello che poi sarebbe passato per  Seattle (contro l’Organizzazione mondiale del commercio, nel 1999), a Porto Alegre (per il Forum sociale mondiale del 2001) e infine a Genova, per protestare contro il G8. L’ultimo esempio di movimento globale prima delle esperienze più recenti di Fridays for Future e Black Lives Matter.

Dalla nostra esperienza dell’estate 2000 tra le comunità del Chiapas, intanto, eravamo tornati portando nello zaino un messaggio chiaro, che suonava più o meno così: «È bello che siate arrivati a conoscere la nostra esperienza, ma se volete davvero contribuire a cambiare il nostro mondo, iniziate contribuendo a cambiare il vostro». Era un invito a globalizzare le lotte, a farci carico dell’idea che la solidarietà non sarebbe stata sufficiente. Facevamo tutti parte di un movimento che fu chiamato no global ma in realtà era new global, chiedeva semplicemente un’altra globalizzazione.

Questi ricordi non sono una premessa: il mio vissuto, condiviso con molti, è uno dei tanti sentieri che hanno portato centinaia di migliaia di persone da tutto il mondo a Genova nel luglio del 2001. Abbiamo creduto fortemente che un altro mondo fosse possibile e che la volontà e gli interessi degli otto uomini più potenti della Terra (è così, non strabuzzate gli occhi, se cercate una foto ve ne accorgerete: non c’erano donne tra i leader globali) non rispondessero in alcun modo alle aspirazioni, alle necessità e alle rivendicazioni di 6 miliardi di persone, quante ne vivevano allora sul Pianeta.

Kremlin.ru, CC BY 3.0, via Wikimedia Commons

Avevamo ragione. Anzi, citando il titolo del libro di Carlo Gubitosa e Mauro Biani, «abbiamo ragione da vent’anni» (People, 2021). Il giornalista Lorenzo Guadagnucci, nell’introduzione, scrive: «Oggi paghiamo tutti – anche gli avversari di allora – la mancata considerazione delle buone ragioni di un movimento che forse era in anticipo rispetto ai tempi della politica, ma non rispetto ai tempi della storia. Il crac finanziario del 2007-2008, le nuove inutili guerre, il collasso climatico e anche la crisi dei sistemi sanitari furono ampiamente annunciati nelle giornate di Genova».

Guadagnucci nel 2001 aveva quasi quarant’anni e lavorava al Quotidiano Nazionale. A Genova si trovò a dormire all’interno della Scuola Diaz e fu vittima, come tanti, della violenza che ha portato nel 2017 l’Italia alla condanna per tortura da parte della Corte Europea dei diritti umani. Alla «macelleria messicana» Guadagnucci ha dedicato un libro, «Noi della Diaz. La notte dei manganelli al G8 di Genova» (Altreconomia, 2002), uscito adesso in edizione aggiornata in formato epub e pdf. Quel che scrive nell’introduzione al libro di Gubitosa e Biani è amaramente vero: chi digita su un motore di ricerca «Genova» e «G8 2001» si troverà inondato da link che rimandano ad articoli sulle violenze di Genova, sulla devastazione, sui manifestanti neri incappucciati, sui processi, sulle mancate condanne, sulle promozioni dei poliziotti autori dei crimini più atroci.

Leggi anche >> Il monopolio della forza e il diritto sospeso

I temi («tavoli tematici» si chiamavano gli appuntamenti di approfondimento nei giorni del vertice promosso dal Genoa Social Forum) sono praticamente scomparsi. Eppure chi è nato proprio nel 2001, e oggi ha vent’anni, ha bisogno di sapere altro: deve capire perché eravamo in piazza. A loro si rivolge, idealmente, «2001-2021, Genova per chi non c’era», il libro curato da Angelo Miotto, a Genova da inviato di Radio Popolare, e uscito sempre per Altreconomia.

Leggi anche >> La speranza di un mondo più giusto, la ‘macelleria messicana’, la sospensione della democrazia: il G8 di Genova spiegato a chi ha oggi 20 anni

Quando Arianna Ciccone mi ha contattato per chiedermi questo pezzo, su indicazione della giornalista scientifica Elisabetta Tola (che ringrazio), conosciuta in quegli anni perché entrambi operavamo nella Commissione America Latina di Mani Tese, il primo pensiero è stato al corteo di giovedì 19 luglio: le manifestazioni di Genova si aprirono infatti con un «corteo dei migranti» e con uno striscione che invocava «libertà di movimento, libertà senza confini».

Erano altri tempi, e l’immigrazione non era ancora lo spauracchio della destra, per altro al governo: in questi giorni, pedalando per le strade di Milano in campagna elettorale per l’elezione del sindaco, ho ripensato a quella campagna elettorale del 2001, che Silvio Berlusconi – allora leader di Forza Italia – giocò sulle «tre i», cioè internet, inglese e impresa, mentre oggi il capoluogo lombardo è pieno di manifesti di Forza Italia – il cui leader è ancora Silvio Berlusconi – che promette lavoro, famiglia e sicurezza.

Se è vero che già nel 1998, con la legge Turco-Napolitano, in Italia si era iniziato a parlare di clandestini, cioè di persone entrate illegalmente nel territorio italiano, da espellere, solo l’anno dopo Genova sarebbe entrata in vigore la legge Bossi-Fini che inaspriva le condizioni di detenzione all’interno dei Centri di permanenza temporanea (CPT), poi diventati Centri di identificazione ed espulsione (CIE). «A Genova abbiamo organizzato il “corteo dei migranti” per uscire dalla logica dell’“emergenza” e aprire l’era dell’integrazione prima che la legge Bossi-Fini sacrificasse sull’altare della xenofobia trentamila vite umane inghiottite dal Mediterraneo», scrive Carlo Gubitosa.

Al netto della situazione contingente nel nostro paese, il movimento di Genova aveva compreso che la questione dei migranti sarebbe diventata epocale, probabilmente il fenomeno del XXI secolo al pari di quella dei cambiamenti climatici e della crescita delle disuguaglianze, a cui oggi sappiamo essere strettamente correlata. Le Nazioni Unite hanno definito in modo chiaro chi sono i «rifugiati climatici» (aprendo così spiragli sul loro riconoscimento internazionale) e perché ogni anno milioni di persone sono – e sempre più saranno – costretti a muoversi, ad abbandonare il paese in cui sono nati. Nel suo ultimo libro, «Torneremo a percorrere le strade del mondo» (UTET, 2021), il sociologo Stefano Allievi descrive come movimenti, mescolanze, avvicinamenti tra le persone sono la norma nella vita dell’uomo: «Da quando ha assunto la postura eretta, nulla l’ha fermato dall’errare e cercare ovunque un proprio luogo, facendo della sua storia una storia di migrazioni». Il movimento del 2001 lo aveva capito, ma è una verità che i grandi non potevano accettare né riconoscere.

Invece dell’integrazione, ciò a cui assistiamo costantemente da allora è solo una lotta estenuante per spostare all’esterno le frontiere, per provare a frenare una necessità di mobilità e movimento che è inarrestabile. Per non guardare solo all’Europa, basti pensare a ciò che accade alla frontiera tra Guatemala e Messico, diventata di fatto la frontiera meridionale degli Stati Uniti d’America, al fenomeno delle carovane migranti che dal 2018 – partendo dal disastrato Honduras – attraversano a piedi il Centro America per cercare di raggiungere gli USA.

Basterebbe tornare a Genova 2001, riavvolgere il nastro, cambiare il linguaggio e capire che quelli che chiamiamo clandestini sono persone, cittadini in cerca di un futuro migliore. Non era, non è, «buonismo» (qualcuno tra i ventenni di oggi ricorda l’uso di questo lessico?), ma il punto d’arrivo di un’analisi capace di contemplare la complessità.

Lo stesso si può dire, in relazione ai brevetti legati alle emergenza sanitarie e alle terapie salvavita, per guardare a un tema rilevante per l’opinione pubblica nell’ultimo biennio caratterizzato dalla pandemia COVID-19. A Genova, si discuteva dell’importanza di ricorrere al sistema di eccezioni sulla proprietà intellettuale dei brevetti previsto dai Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights (TRIPS, gli accordi sulla proprietà intellettuale dell’Organizzazione mondiale del commercio). «Vent’anni fa abbiamo chiesto ai capi delle nazioni più ricche e potenti del mondo un sistema sanitario pubblico orientato verso il diritto alla salute e non condizionato da logiche di profitto, un sistema brevettuale meno sbilanciato verso gli interessi delle case produttrici di farmaci e un sistema farmaceutico che garantisse la salute in tutto il mondo», scrive Gubitosa nel suo libro.

Oggi è il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden che durante la campagna elettorale è arrivato ad affermare che una sospensione dei privilegi legati ai brevetti sui farmaci è «l’unica cosa umana da fare». Negli ultimi vent’anni, purtroppo, la situazione è addirittura peggiorata. Lo scrive Nicoletta Dentico nel libro edito da Altreconomia: «È cambiato che in questi vent’anni gli accordi multilaterali sulla proprietà intellettuale sono stati spesso soppiantati da una proliferazione di accordi commerciali bilaterali che rendono il vecchio accordo WTO sulla proprietà intellettuale quasi una versione “benevola”; gli accordi bilaterali commerciali hanno infatti reso più restrittive le clausole sulla brevettazione e sui diritti di proprietà intellettuale. Le norme di salvaguardia nell’accordo TRIPS, come la licenza obbligatoria o l’importazione parallela, in molti casi non sono più percorribili perché gli accordi bilaterali le hanno rese inapplicabili, hanno molto circoscritto lo spazio di manovra dei governi. Di fatto quindi noi oggi ci ritroviamo un regime di proprietà intellettuale caratterizzato per diversi governi da uno standard normativo più severo di quello che era stato negoziato dal WTO negli anni ’90».

Probabilmente, senza le istanze poste dal movimento di Genova oggi non saremmo qui a parlare di un minimum tax globale sul reddito delle multinazionali: anche se l’accordo sul 15% preso a Venezia, a luglio 2021, dai paesi del G20, è senz’altro «ribassista» e non mette in discussione in modo radicale i complessi meccanismi di architettura che permettono di eludere il fisco, senza la discussione avviata vent’anni fa oggi non saremmo a questo punto.

Nel 2001, guardando a un altro problema emerso dalla globalizzazione, cioè il volume illogico di transazioni finanziarie, speculazioni che riguardavano tutti gli aspetti della vita umana, comprese le materie prime agricole, si parlava anche di una tassa globale sulla transazioni finanziarie, la Tobin Tax, «un’imposta estremamente limitata su ogni compravendita di valute, che non avrebbe impatti sulle normali operazioni di import-export, ma che diventerebbe via via più pesante per chi realizza molte transazioni in tempi brevi per guadagnare su piccole oscillazioni dei prezzi», come scrive sul numero 47 (luglio-agosto 2021) del Granello di Sabbia, periodico di ATTAC, Andrea Baranes, oggi presidente della Fondazione Finanza Etica e membro del Consiglio di Amministrazione di Banca Etica. Il controllo dei movimenti di capitali era uno dei temi chiave per il movimento alla fine degli anni Novanta: se ci avessero ascoltato, questo avrebbe potuto proteggere l’umanità dalla grande bolla dei mutui subprime, quella che ha caratterizzato il decennio 2000-2010 influenzando di fatto la nostra vita fino all’arrivo della nuova emergenza legata alla COVID-19.

Genova, insomma, ha gettato tanti semi, come ricorda il bel progetto del Festival dei Diritti Umani – insieme a Goodidea Style, Radio Popolare e Fondazione Roberto Franceschi Onlus – dedicato a raccontare un altro mondo ancora possibile e chiamato, appunto, «Semi di Genova». La narrazione per immagini e voci muove da 9 parole chiave. È Danilo De Biasio, direttore del Festival dei Diritti Umani, a raccontarcene alcune: «Le violenze che hanno insanguinato Genova hanno oscurato la forza innovativa rappresentata da migliaia di persone che avevano ragionato e discusso in quei giorni sulle grandi disuguaglianze indotte dal neoliberismo. Riscoprire quel pensiero critico, valutarne la capacità premonitrice è il miglior modo per celebrare il ventennale del G8. Non tutte quelle analisi hanno retto alla prova dei fatti, alcune pratiche si sono interrotte, ma solo chi è in malafede può negare che in questi vent’anni le disuguaglianze “si siano allargate e rese più dense” (Andrea Morniroli), che siano frutto di “politiche fiscali che premiano i ricchi” (Sabina Siniscalchi); o che ci sia stata “una fusione tra l’apparato militare e quello poliziesco” (Salvatore Palidda); che il femminismo “non si fermi più al dato biologico ma prenda in considerazione il patriarcato, l’omotransfobia, il razzismo” (Jennifer Guerra)». Sotto le macerie di Genova sono rimasti i semi che non hanno mai smesso di germogliare, come prova a testimoniare anche questo articolo.

A proposito di semi, a Genova si parlava anche di agricoltura. Questi i termini (da una lettera della organizzazione non governativa Crocevia, impegnata in battaglie per la sovranità alimentare): «Vogliamo un’agricoltura contadina, perché questa ha una dimensione sociale basata sul lavoro, sulla solidarietà tra produttori e consumatori ma anche tra regioni e contadini del mondo, altrimenti le regioni più ricche e gli agricoltori più forti lederanno il diritto alla vita degli altri, e questa logica non ha futuro. Per nessuno».

Vent’anni dopo, potremmo riscriverla senza cambiare una virgola, anche se qualche passo in avanti è stato fatto: alla Camera è stata approvata nel 2021 una Legge che definisce e promuove l’agricoltura contadina, che è quella fatta dalle aziende agricole condotte direttamente dal titolare, dai familiari o dai soci di una cooperativa costituita esclusivamente da soci lavoratori, che praticano modelli produttivi agroecologici, favorendo la biodiversità animale e vegetale, la diversificazione culturale e la conservazione del territorio nei suoi aspetti ambientali e paesaggistici fondamentali. Le aziende agricole contadine trasformano le materie prime prodotte nell’azienda, avvalendosi di metodologie tradizionali locali e producono quantità limitate di beni agricoli e alimentari destinati al consumo immediato e finalizzati alla vendita diretta ai consumatori finali, svolta in ambito locale. Ora andrà al Senato. Sappiamo anche meglio come funzionano le dinamiche all’interno della grande distribuzione organizzata (GDO), grazie al lavoro encomiabile dell’associazione Terra! che dopo averci fatto spalancare gli occhi sul fenomeno occulto delle aste al doppio ribasso per l’approvvigionamento dei beni venduti nei supermercati quest’anno nell’ultimo rapporto dedicato alla filiere agricole ha affrontato il tema dei regolamenti comunitari che obbligano a vendere solo frutta e verdura esteticamente «belli».

È un’eredità di Genova 2001, senz’altro, anche questa capacità di analizzare e raccontare la complessità e di agire sui fenomeni complessi perché solo così – senza semplificare – si possono davvero cambiare le cose. In questo contesto, sono quasi surreali le parole dell’economista italiano Carlo Cottarelli: nel 2001 lavorava al Fondo Monetario Internazionale e nel luglio del 2021, intervistato dall’Huffington Post, ha detto: «Quei movimenti guardavano in avanti e chi allora guidava l’economia e la finanza internazionale si rendeva solo in parte conto dell’entità dei fenomeni che stavano accadendo». Il Fondo per cui lavorava Cottarelli era allora uno dei ‘nemici’ per definizione di chi protestava con il neoliberismo sfrenato e contro le politiche economiche fondate sul debito e su un’iniqua distribuzione della ricchezza mondiale. Il Fondo Monetario Internazionale era responsabile dei Piani di aggiustamento strutturale che avevano impoverito i paesi in via di sviluppo, cancellando ogni possibilità di costruzione di uno stato sociale.

S., una mia amica che era a Genova, con cui ho condiviso il link dell’intervista a Cottarelli, mi ha risposto così: «Fanculo a tutti quelli che si permettono di dire 20 anni fa avevano ragione e 20 anni fa erano dall’altra parte a giudicare, ad additare, a prendere le distanze, ad infangare… Fanculo».

Credo abbia profondamente ragione. Se ripenso a quel movimento del 2001 e torno alla mia esperienza personale maturata in quegli anni in Chiapas e in Honduras, sono convinto che quel movimento debba tantissimo ai popoli e ai movimenti indigeni. Vent’anni dopo, purtroppo, la «questione indigena» oggi è rimossa, dopo il grande protagonismo – in particolare in America Latina – nella prima decade del Duemila. Il legame diretto con la Madre Terra e una visione sistemica che vede l’essere umano in relazione diretta con gli altri elementi naturali, quelli che nel mondo occidentale definiamo «beni comuni», alimenta una straordinaria capacità di analisi. Avevano già capito anche che per frenare gli effetti disastrosi dei cambiamenti climatici avremmo dovuto limitare l’impatto antropico, ma nessuno ci ha ascoltati.

Ripenso all’esempio di Berta Caceres, leader indigena lenca in Honduras, fondatrice del COPINH. È stata uccisa cinque anni fa, nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2016. Solo quest’anno, a inizio luglio, è arrivata la condanna del presidente della società idroelettrica incaricata di realizzare una diga sul fiume Gualcarque, corso d’acqua sacro per gli indigeni lenca. È stato considerato co-autore del delitto. Quando conobbi Berta, nei primi anni Duemila, quindi a cavallo di Genova, il suo COPINH con altre due organizzazioni in Guatemala e in Messico stava «montando» una campagna popolare contro le «IFIS», le istituzioni finanziarie internazionali, cioè le banche multilaterali che prestavano risorse per macro e micro-progetti, spesso legati allo sviluppo di energia da fonti rinnovabili ma che non tenevano assolutamente in considerazione gli effetti di quegli interventi sui popoli originari, sugli indigeni. Lei sapeva leggere la connessione estrema tra questi aspetti.

Un anno prima di essere ammazzata, a San Francisco in California aveva ricevuto il premio Goldman, Nobel alternativo per l’ambiente. Quel giorno pronunciò un discorso di tre minuti che ancora oggi mi scuote quando l’ascolto: «Svegliamoci! Svegliati umanità! Non c’è più tempo. Le nostre coscienze saranno scosse dal fatto che stiamo solo contemplando l’autodistruzione basata sulla predazione capitalista, razzista e patriarcale. Il fiume Gualcarque ci ha chiamato, così come gli altri che sono seriamente minacciati. Dobbiamo andare. La Madre Terra militarizzata, recintata, avvelenata, dove i diritti elementari sono sistematicamente violati, ci chiede di agire. Costruiamo società in grado di coesistere in modo giusto, dignitoso e per la vita». Un altro mondo (è) possibile.

SEMI di Genova
Il racconto dei semi di Genova nel dossier multimediale del Festival dei Diritti Umani

SEMI è l’iniziativa che il Festival dei Diritti Umani, di cui Q Code Mag è media partner dalla prima edizione, ha studiato e realizzato per il ventennale del G8 genovese. A cura di Danilo De Biasio ed Elisa Gianni e in collaborazione con Fondazione Roberto Franceschi Onlus, Radio popolare, GoodIdea Style

Genova, luglio 2001.

Un movimento globale che contestava il neoliberismo globale. Gli 8 leader delle nazioni più industrializzate volevano celebrare il sistema economico dominante, che arricchiva pochi e impoveriva molti, che scaricava inquinamento e conflitti nelle periferie del mondo. Di fronte alla profondità, alla diffusione e ai consensi raccolti dal movimento altermondialista, la risposta delle forze di polizia del G8 è stata violenta:

1 ragazzo ucciso, 1200 feriti, quasi 300 arresti. Ma tra le macerie di Genova sono rimasti molti semi. Basta raccoglierli e curarli.

Li raccontiamo attraverso

9 parole chiave

(+ 1 pagina nera, quella delle macerie)

affidandoci a immagini e voci capaci di fare da ponte tra il mondo del 2001 e quello del 2021.

Per consultare ognuna delle 9 sezioni con interviste, interventi e grafiche cliccate sull’immagine sottostante.

Materiali per conoscere
senza pretesa di essere esaustivi

FILM, DOC, PODCAST
Carlo Giuliani, ragazzo, di Francesca Comencini
Le strade di Genova, di Davide Ferrario
Sequenze sul G8, Silvia Savorelli per conto dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico
Diaz-Don’t Clean Up This Blood, di Giorgio Diritti
The Summit, di Franco Fracassi e Massimo Lauria
2001 Genova G8, di Giovanni Giaccone e Marco Vecchi
OP Genova 2001, Genoa Social Forum
Solo limoni, di Giacomo Verde e Lello Voce – Shake
Black Block, di Carlo Augusto Bachschmidt
Faces-Facce, di Fulvio Wetzl
G8-Genova, Documentario Blu Notte
Bella ciao, di Marco Giusti, Roberto Torelli e Carlo Freccero
https://processig8.net/Video.html Video e documenti
Limoni, podcast di Internazionale

PLAYLIST
Piazza Alimonda, Francesco Guccini
Genova brucia, di Simone Cristicchi
Avevate ragione voi, di Linea 77
Canzone per Edo, di Gang
Dall’ultima galleria, di Alessio Lega
Fine delle danze, di Bandabard
Piazza Giuliani, Radici nel cemento
Rotta indipendente, Assalti frontali

LINK
• www.altreconomia.it
• Genova nome per nome, http://web.giornalismi.info/gubi/docs/304.pdf
• www.wumingfoundation.com
• http://www.piazzacarlogiuliani.org
• https://www.supportolegale.org/
• https://www.limesonline.com/sommari-rivista/litalia-dopo-genova
• https://it.wikipedia.org/wiki/Fatti_del_G8_di_Genova
• Le cronache di Alessandro Leogrande
https://www.raiplayradio.it/playlist/2018/11/Genova-2001-03303576-5a14-4f3d-88e9-d376b92b0c2f.html

Il dissenso corre sul filo. Dei panni stesi
La vignetta di Enrico Natoli

Mutande e calzini, sui fili tirati fuori dalle finestre e da un palazzo all’altro. Fuorilegge. Il decoro, orribile parola declinata allora dal presidente del consiglio Silvio Berlusconi, prendeva forme autoritarie. E ci sarebbe da ridere, se la cornice dei diritti violati non avesse insanguinato, poi, quei panni.

A Genova 2001 Piazza De Ferraris capitò anche di vedere un operaio che lucidava con strofinaccio e spruzzino ogni singolo cubetto di porfido, per allietare la sfilata degli Otto. Tappeto rosso verso Palazzo Ducale.

La vignetta di Enrico Natoli