Voci dalla Bielorussia

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12 Maggio 2021

Artiom e Palina, due ragazzi come tanti, che tentano di cambiare un regime

“Adesso sto lavorando”, scrive Artiom, “ma a breve ho una pausa di venti minuti e posso richiamarti”.
Poi mi invia su Whatsapp una foto dalla sala operatoria.

Nella foto si intravede una gamba spuntare da un telo blu che ricopre la parte superiore del corpo di un paziente. La pelle è bianca e raggrinzita. Delle cannule si infilano sottopelle all’altezza del ginocchio e una benda macchiata di sangue nasconde il polpaccio. L’altra gamba pende di lato dal piano d’acciaio rialzato. Gli rispondo che va bene, aspetterò che si liberi.

Qualche minuto dopo Artiom mi videochiama dal corridoio dell’ospedale, dice che l’operazione è quasi conclusa, che ora può parlare, e si scusa per l’inglese incerto che “come ben sai”, dice, “non ho mai parlato bene”, ma ora che non lo esercita da un anno è peggiorato. Gli racconto della mia quarantena, che ancora dura. Ho voglia di libertà, dico.

Dai notiziari ho saputo che il Parlamento Europeo ha appena respinto ufficialmente i risultati delle ultime elezioni bielorusse, così ho pensato di chiamarti, gli dico, e di chiederti com’è lì la situazione, come stai.

Artiom inizia a parlare a ruota libera e in prima istanza di sé, di come sta lui, non dice nulla. “La situazione è strana”, dice a un certo punto, “perché sai, tutti sono contrari a Lukashenko, ma rimangono dei gruppi che lo sostengono – la polizia, i comandanti – perché per vent’anni hanno avuto lui e solo lui come leader. Non abbiamo partiti qui in Bielorussia, non c’è opposizione, c’è solo lui, Lukashenko, e loro sanno che lui è garante del loro potere, e che se dovesse venire destituito il futuro per loro non prometterà nulla di buono. Quindi anche se il popolo è unito e lotta per destituirlo, c’è chi ancora si oppone e stringe il pugno per conservare la solidità del regime. La polizia, i comandanti della polizia. Ma le crepe nel regime si vedono e sono sempre più profonde.”

Ogni domenica, racconta Artiom, prendendosi qualche pausa per tradurre dei vocaboli dal russo all’inglese, con l’aiuto di Google, ogni domenica più di un centinaio di migliaia di persone scendono in strada, e questo continua da agosto, ma non possono radunarsi tutte assieme nelle piazze maggiori. È vietato. Vari cortei partono da punti diversi della città, ma spesso non riescono ad incontrarsi perché la polizia ha barricato alcune strade del centro.

“Arresti e assalti con proiettili di gomma e lacrimogeni non sono ancora cessati. Domenica scorsa ero in un gruppo di una decina di migliaia di persone e dovevamo incontrare un altro gruppo partito da un altro distretto, ma la polizia aveva chiuso una via di passaggio parcheggiando le camionette di traverso. Per sfuggire agli assalti abbiamo dovuto retrocedere, tornare indietro del tutto o arrampicarci sul tetto di un garage lì accanto, aiutandoci l’un l’altro a salire per essere fuori portata. Quando la polizia vede un gruppo di protesta che sta marciando verso il centro non blocca solamente il passaggio con i mezzi blindati, ma tenta di disperdere il gruppo lanciando la carica con una camionetta – dentro la camionetta una decina di poliziotti – e arrestando chiunque resti a tiro.”

“Chi viene arrestato non finisce direttamente in cella, ma viene portato al dipartimento di polizia, dove sarà trattenuto per almeno uno o due giorni prima di poter tornare a casa, con l’obbligo successivo di ripresentarsi davanti alla corte e di pagare una somma che non conosco, una sorta di multa per il solo fatto di aver partecipato al corteo. Quando arrivi al dipartimento di polizia ti viene richiesto di mostrare il cellulare – dice Artiom – e se trovano qualcosa. un messaggio, un’immagine, qualsiasi cosa, che dimostri che sei un dissidente, rischi di essere colpito, a mani nude o con il manganello, o di subire violenze carnali se sei una donna. Qui circolano tante storie a riguardo, e anche alcuni video su Telegram.”

Ormai l’informazione si è spostata su Telegram, perché molti siti web e radio sono stati oscurati, dice.

“C’è stato un caso in cui un poliziotto ha infilato un manganello nell’ano di un manifestate appena arrestato. Non so per quale motivo, se avesse reagito o insultato qualcuno del distretto, ma la verità è che per certi atti non c’è giustificazione. Ci sono anche storie di poliziotti che al dipartimento di polizia hanno impedito a dei colleghi di perpetrare le violenze, certo, ma quei poliziotti lavorano comunque al servizio del sistema, del regime, per reprimere le proteste. E noi il regime vogliamo cambiarlo.”

Chiedo ad Artiom se è possibile avere accesso ad alcuni canali Telegram su cui girano video e notizie, e in tutta prontezza lui mi invia un link, che apro immediatamente. Le descrizioni che li accompagnano sono in russo, ma le immagini, dice, valgono più delle parole.

Così ho accesso al canale di Nexta, adibito esclusivamente alla circolazione delle informazioni su quanto accade in Bielorussia. Il primo video che compare mostra un ragazzo immolarsi per protesta di fronte al dipartimento di polizia di Smalyavichy, a una ventina di chilometri da Minsk. Fiamme rosse e fumo si alzano dalla sua schiena, dal collo e dalla testa, e dal retro delle gambe, come se il suo stesso corpo le stesse sprigionando, e non ne stesse invece venendo divorato.

Il ragazzo, l’uomo – anche Artiom ha visto il video, ma non riesce a chiarirne l’identità, né l’età – è in piedi, e si sfila la maglietta dimenandosi, ma non può più liberarsi dal fuoco. Ormai l’atto è compiuto. Si getta a terra accanto alla maglietta, che ora è un tizzone ardente, e rotola, grida. “Ho sentito dire che era ubriaco, dice Artiom, ma questa è comunque la violenza espressiva a cui assistiamo tutti i giorni.”

Il secondo file che incontro è la foto di un murales. Sono rappresentati Putin e Lukashenko in stile cartoon. Si guardano a poca distanza, come due amanti, e hanno i vestiti e la pelle rossa, tutto il murales è realizzato con varie gradazioni di rosso. Lukashenko sta infilando una mano nella tasca della giacca di Putin, che sembra trattenergli il braccio con una mano, e portare l’altra alla bocca di Lukashenko, che gli succhia lascivamente un dito: l’indice.

Un’altra foto inquadra un’anziana con il capo coperto in ginocchio su un marciapiede, al lato della strada. Ha appena posato a terra dei fiori rossi e bianchi, nel punto esatto di via Prytytskoho in cui Alexander Taraikovsky è stato ucciso a colpi di arma da fuoco dalla polizia, il 10 agosto 2020, a Minsk, durante una protesta pacifica. “Era uscito per recarsi da suo padre, la moglie l’ha aspettato a casa per due giorni senza riuscire a rintracciarlo, prima di ricevere la chiamata che la avvisava dell’accaduto”: così recita la descrizione della foto. “Non dimenticheremo, non perdoneremo”: così si chiude la didascalia.

C’è speranza però, dice Artiom, e mi sembra che sorrida. “Niente è più come prima, ora le persone iniziano a parlare fra di loro, a raccontarsi i propri problemi. Non si parla solo di politica, ma di tutto. Oggi i vicini, la gente del quartiere inizia a radunarsi, a incontrarsi nei cortili. Si vede sventolare ovunque la bandiera – non la classica bandiera verde e rossa, ma quella nuova, bianca e rossa, che in realtà è la bandiera storica. Ho conosciuto persone che non avrei mai immaginato di incontrare, durante i cortei e ai raduni di quartiere. Tre giorni fa noi del distretto ci siamo dati appuntamento in un cortile, c’erano adulti e ragazzi e bambini, e ho giocato a pallavolo con persone di cui prima non conoscevo nemmeno il nome, nonostante fossero della mia zona. Questo dà speranza, la gente inizia a fare comunità.”

“Durante uno di questi raduni ci siamo spostati alla scuola elementare del quartiere”, racconta poi. “Chiunque potesse ha portato dei vestiti bianchi e rossi. Ne abbiamo tagliati dei pezzi, delle strisce di tessuto e le abbiamo attorcigliate e fissate alla rete metallica del campetto di basket della scuola. Oppure abbiamo dipinto di rosso e bianco le cortecce degli alberi, e lo abbiamo fatto perché quelle strisce di tessuto saranno difficili da rimuovere, fissate in quel modo, e la vernice sugli alberi sarà quasi impossibile da lavare. Se vogliono ripulirli dai colori dell’indipendenza dovranno grattare.”

“Tre giorni fa al raduno ho anche incontrato un musicista. Suonava in una banda in giro per l’Europa, e ha detto al mio gruppo di persone, alle persone del quartiere, che avrebbe potuto organizzare un concerto privato per noi e per chiunque volesse unirsi, anche da altri distretti. E abbiamo preparato il concerto: l’uomo suonerà fra qualche giorno con degli strumenti acustici, sebbene il suo gruppo faccia hard metal, e si è già reso disponibile a organizzare un altro evento come si deve più avanti, con chitarre elettriche e tutto quanto. Come vedi c’è spazio anche per la normalità, non solo per la protesta. La gente gioca, ride e si incontra nei caffè, o va ai concerti. Il tempo speso insieme ha acquisito un valore diverso. La comunità si sta cementando, ed è una comunità orizzontale, non verticale. Le persone parlano, si raccontano i loro problemi, ci si raduna nei cortili e si portano caffè, tè, biscotti e grandi caraffe di succo da offrire a chiunque si presenti. Questo processo di avvicinamento è iniziato dalla primavera, credo – dice Artiom – lo stato non ha imposto restrizioni per il coronavirus e non ha fornito mascherine e beni necessari fino a maggio, quando ormai era troppo tardi, così la gente ha iniziato a capire che le altre persone, con cui si condividono certi spazi – il palazzo, i giardini, le vie del distretto – sono una risorsa, e che essere solidali conviene.”

“A pallavolo ho giocato con dei ragazzini intorno ai dieci anni, e mi hanno detto che la prossima volta porteranno al raduno anche i loro genitori, che sanno giocare piuttosto bene, e cercheranno di portarli ogni giorno, o almeno tre volte a settimana, e se la mia famiglia ha bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa, può anche rivolgersi a loro. Vedi, la gente inizia a uscire di casa non solo per protestare contro il governo, ma anche per stare insieme, e fare comunità. Abbiamo anche creato un gruppo di scacchi su Telegram.”

Artiom si gira. Sento delle voci provenire dal fondo del corridoio che ha alle spalle: lo stanno chiamando. La pausa è finita e deve tornare in sala operatoria.

“Stasera ti invio dei video e alcune foto”, mi dice, “nei prossimi giorni chiamami quando vuoi, vorrei che mi raccontassi un po’ anche tu quello che stai facendo.” Faccio in tempo solamente a chiedergli se ha visto la foto che Palina ha postato su Instagram qualche giorno prima, e mi risponde di no, che non l’ha vista, ma di mandargliela. Mentre si incammina per il corridoio gli spiego che la foto la ritrae mentre sorride, con il mento appoggiato sul palmo della mano, sdraiata nell’erba, in un parco, a pochi metri da un cordone di poliziotti in tenuta antisommossa. Ricordati di inviarmela, dice Artiom, poi mi raccomanda di chiamarlo nei giorni successivi, e chiude la videochiamata.

Mi ritrovo a pensare che non sto facendo nulla, che la mia libertà è ridotta a una trentina di metri quadrati in cui muoversi, tutto in attesa dell’esito negativo di un tampone che sono venti giorni che non arriva. Penso di essere sprofondato in una monotonia inscalfibile, mentre dove vive Artiom, dove mangia e studia e lavora, ci sono cuori che palpitano velocissimi e piedi che corrono, voci che urlano e mani che combattono. Penso alla fortuna di poter ascoltare la voce di chi sta vivendo in prima persona un forte cambiamento, di chi si sta caricando sulle spalle la responsabilità di una protesta sociale, e improvvisamente percepisco quella voce come preziosa, e sento come il bisogno di essere al suo fianco in qualche modo, di sostenerla. Ma come?

Scrivi qualcosa, mi dico. Che la loro voce arrivi lontano.

Palina è bielorussa, vive anche lei a Minsk, e l’ho conosciuta insieme ad Artiom in Germania, durante un campo di volontariato internazionale. Lo stesso giorno decido di chiamare anche lei, ma come scopro le è andata via la voce: tossisce forte e allora chiude la chiamata e decidiamo di sentirci per messaggio. Le chiedo come sta, e se ha voglia di raccontarmi com’è stato fare l’osservatrice elettorale, e qualche dettaglio riguardo quella foto nell’erba, perché mi ha incuriosito. Lei risponde con lunghi messaggi e, come Artiom, racconta di quello che sta vivendo.

“Ho fatto l’osservatrice elettorale alle elezioni, sì, mi scrive. Solitamente solo persone appartenenti a organizzazioni filogovernative vicine a Lukashenko ricoprono il ruolo, ma quest’anno molta gente comune si è presentata. In teoria non eravamo autorizzati a stare effettivamente in loco, ai seggi elettorali. Ci è stato detto che era per questioni di sicurezza legate al coronavirus, sebbene questo motivo pretestuoso non abbia impedito al governo di tenere eventi di massa fino a poco prima delle elezioni, ma al nostro seggio la commissione era abbastanza imparziale – quanto può esserlo una commissione qui, diciamo –, e ci è stato concesso di essere sul posto in alcuni momenti, dietro a delle paratie trasparenti da cui potevamo vedere ogni cosa.”

“Dal primo giorno noi osservatori abbiamo registrato molte violazioni, e abbiamo scritto delle lettere di lamentela ufficiali, che sono cadute nel vuoto. Il primo giorno di votazioni (ce ne sono cinque, più il giorno principale, l’ultimo, che fa sei in totale), abbiamo contato 28 persone votanti, ma sul documento ufficiale è stato riportato che erano 97. La commissione ha falsificato molti numeri, soprattutto durante i primi giorni, quando gli era più facile che tutto passasse inosservato. Noi, di nostro, abbiamo provato a fare pressione. Come detto abbiamo scritto lettere di lamentela, ma non se ne è fatto nulla. Anzi, la donna a capo della commissione ci ha detto che i risultati delle elezioni sarebbero stati “i soliti, come sempre”, e che non spettava né a lei né agli altri membri decidere nulla: gli eventi avrebbero seguito il loro corso naturale. Queste sono le elezioni in Bielorussia.”

Come se non bastasse, durante il penultimo giorno utile per votare quasi tutti gli osservatori indipendenti del nostro seggio sono stati arrestati, di modo che, dopo le lamentele precedenti, non interferissero durante l’ultimo giorno in cui l’affluenza è maggiore, e che non registrassero tutte le violazioni. Io e altri due ragazzi siamo scappati dalla polizia, e nei giorni seguenti abbiamo dovuto nasconderci.

“Il giorno in cui sono scappata dalla polizia un amico doveva venirmi a trovare dalla Finlandia. L’ho incontrato alla stazione dei pullman, gli ho chiesto scusa e gli ho detto che avremmo dovuto nasconderci. Lui era scioccato. Siamo tornati a casa mia perché non sapevo dove altro andare sul momento, e per ore ho continuato a controllare la vista dalla mia finestra. Quel giorno, ad un certo punto siamo usciti per una breve passeggiata vicino a casa, vicino alla ferrovia, e abbiamo visto una volante della polizia venirci incontro sulla strada. Il mio amico si è spaventato: pensava fossero venuti per me, e anche io per un attimo l’ho temuto, ma erano solo di passaggio. Io ancora non avevo votato, così il giorno dopo mi sono vestita nel modo più differente possibile dal giorno prima, ho acconciato diversamente i capelli e mi sono presentata al seggio.”

“Dopo aver votato ho deciso che era meglio nascondermi nella casa di mio padre fuori città. L’abbiamo raggiunto in treno e sono rimasta al villaggio per qualche giorno con il mio amico finlandese, mia madre e mio padre, che ci aspettava là. Anche lì, al villaggio, non mi sono sentita di poter andare da nessuna parte, o uscire di casa senza prima controllare la vista dalla finestra che non ci fosse nessuno. E lo stesso sul treno che ci ha portati al villaggio: camminando per le carrozze ci guardavamo spesso alle spalle, e una volta seduti buttavamo occhiate frequenti ai corridoi. La sto controllando anche adesso la finestra – dice Palina in una registrazione vocale che ha modo di mandarmi una volta riacquistata la voce – perché è ancora possibile che io venga arrestata. Chiunque può essere arrestato oggi, in Bielorussia, dice. Solitamente la gente crede nella polizia, del tipo: “fanno il loro dovere”, “possono salvarci”, ma ora, nel mio paese, di loro abbiamo solo paura.”

“Ho iniziato a scendere in strada il 10 di agosto, perché fino al 9 sono rimasta nascosta. Non ho paura durante i cortei, forse per gli antidepressivi che prendo, o perché già nel 2017 ero scesa in piazza a protestare contro le misure di Lukashenko che sfavorivano i disoccupati e la povera gente, e avevo già assistito ad alcuni assalti brutali a gente disarmata, per cui ero in un certo senso preparata. Certamente quando sono fuori casa mi resta dentro un fondo di preoccupazione costante per me e per le altre persone, ma non abbastanza da impedirmi di scendere in strada ogni domenica. Ho incontrato molta gente in strada: amici che non vedevo da tanto, conoscenti, persone che mi hanno riconosciuta senza che ricordassi i loro nomi. La massa di persone che si muovono insieme verso il centro della città è enorme ma di volta in volta incontro qualche volto noto, anche se la mia principale compagna di marcia rimane mia madre. Mia madre è con me tutto il tempo. Forse questa è un’altra delle ragioni per cui non ho paura. I cortei raccolgono centinaia di migliaia di persone. La gente ha iniziato ad essere molto attiva dal punto di vista politico, come mai prima. E anche molto solidale, e unita. Credo sia iniziato tutto dalla primavera, o poco prima, dall’inizio della pandemia insomma. Qui non abbiamo avuto nessun lockdown, nessuna misura contenitiva né supporto da parte del governo, quindi la gente ha iniziato a cercare l’aiuto di cui aveva bisogno nelle persone che la circondavano. Vicini, amici o sconosciuti.”

“In primavera io, a dire il vero, stavo pianificando di andarmene da Minsk e dalla Bielorussia. Avevo perfino iniziato ad approfondire il mio studio del polacco. Ma ora vedo quanto qui la gente sia determinata a cambiare le cose, così ho iniziato a sperare per il meglio, nonostante le tragedie che sono successe per le strade, e ancora succedono. Perché sì, credo che noi, il popolo, possiamo cambiare il regime, anche se è difficile e costerà sacrifici. La nostra situazione è molto simile a quella che c’era in Lituania, Lettonia ed Estonia nel 1990. Loro hanno lottato per il cambiamento e l’hanno ottenuto. Anche noi possiamo. La foto di me sdraiata nell’erba di fronte ai poliziotti schierati l’ha scattata mia madre”, racconta Palina. “Non erano veterani, anzi. Sotto le maschere potevo vedere che erano giovani. Credo proprio fossero studenti dell’accademia di polizia. Ho provato a entrare in contatto con loro, prima di tutto con gli occhi. Li ho guardati, ho sostenuto il loro sguardo fermo. Poi uno di loro ha iniziato a parlarmi. Siamo obbligati a rimanere qui, schierati, anche se non vogliamo, ma non sappiamo come andarcene, ha detto. L’ha detto senza che io aprissi bocca, come per scusarsi. Io li guardavo solamente. Questo perché in Bielorussia se ottieni l’accesso al corso di studi per entrare nei corpi di polizia non puoi abbandonarlo, sei obbligato a portarlo a termine. Se vuoi lasciare gli studi devi pagare una grossa somma di denaro. Conosco storie di ragazzi che hanno provato a cambiare, a uscire dall’accademia, e sono stati trattenuti come schiavi di proprietà. Io e i miei amici, dopo quel pomeriggio in cui mia madre ha scattato la foto, stiamo cercando di capire se c’è modo di aiutarli a scegliere liberamente, e a tirare fuori dall’accademia chiunque non voglia rimanerci, o abbia cambiato idea sul proprio futuro. Vedremo cosa si può fare.”

“Anche qualche giorno dopo le elezioni, mentre marciavo per strada, ho visto arrivare una camionetta della polizia e un poliziotto ci ha mostrato dal finestrino, passando, il simbolo della rivoluzione. Due dita a V, in segno di pace e di vittoria. Ci ha mostrato che era con noi. E durante un altro corteo, una domenica che non ricordo, un poliziotto ci ha indicato la strada da prendere per garantirci il passaggio libero fino a Piazza dell’Indipendenza. Not all of us are evil, ci ha detto, traduce Palina per messaggio. Sento che molti di loro stanno con noi che marciamo, con il popolo in rivolta, ma sfortunatamente non tutti loro. Non ancora.”

“Ma per favore”, dice Palina in un’altra registrazione vocale, “se stai scrivendo qualcosa prendendo spunto da quello che ti ho raccontato, non scrivere che la polizia è buona, che i poliziotti sono buoni. Quello che voglio dire è che molti di loro spero e credo siano brave persone, ma quello che hanno fatto – gli stupri e i pestaggi, o gli omicidi – è imperdonabile. So please, if you are gonna write something, don’t write that police is good”, dice.

Poi Palina smette di rispondere, non riceve nemmeno più i messaggi. Credo abbia iniziato a lavorare o sia andata a dormire, perché ormai anche a Torino sta scendendo la sera. Mi aveva accennato qualcosa riguardo un lavoro serale come fotografa. Così, prima di coricarmi anche io, riapro il canale Nexta, su Telegram, e recupero il nome dell’uomo ucciso in strada dalla Polizia. Sul canale hanno caricato nuove foto: ora non è solo l’anziana signora inginocchiata a depositare fiori bianchi e rossi sul marciapiede, ma una quantità di persone. Una foto mostra l’asfalto quasi interamente ricoperto di fiori di ogni tipo, ma sempre degli stessi colori. Bianchi e rossi.

Artiom, nel frattempo, mi invia su Whatsapp alcuni video da un concerto. “È una delle band più famose qui, in Bielorussia”, scrive. Nei video si vedono i membri della band suonare hard metal, e poi un’inquadratura che dal palco riprende tutti i presenti, perlopiù giovani, le bandiere bianche e rosse issate alte sulle teste, gridare qualcosa in russo, all’unisono, ora che il concerto è terminato. Long live Belarus: ecco cosa stanno gridando, scrive Artiom.

All’improvviso una frase mi torna in mente, l’ho detta io ad Artiom, questa mattina. Ho voglia di libertà. Come se non l’avessimo tutti, penso, voglia di essere liberi.

Ancora con il telefono in mano, mi rendo conto che il seme della loro lotta, una lotta quotidiana fatta di gesti minimi, la lotta di Artiom e Palina e di tutti gli Artiom e Palina ragazzi di Bielorussia, sta già qui, forse, in questo racconto. La loro rivolta sta in questo: nel saper dire io e poi noi, nel volersi raccontare. E nella forza di sdraiarsi nell’erba davanti a un cordone di polizia, di giocare una partita di pallavolo mentre il mondo attorno a loro scoppia.

Come mosso da un istinto, digito su Google il nome dell’uomo ucciso il 10 agosto. ‘Alexander Taraikovsky’. Compare un video dell’accaduto. Un plotone di poliziotti con caschi e tenuta mimetica è schierato ai lati di una larga strada. In sottofondo si sentono spari a ripetizione. Sono frequenti, come una gragnuola: dev’esserci un’altra squadra in azione nelle vicinanze che non è stata ripresa.

L’inquadratura traballa: probabilmente è il video appartiene a un passante che ha ripreso tutto con il telefono e poi l’ha messo in circolazione. Sullo sfondo ci sono una quantità di pullman fermi sul ciglio del viale. Si vedono persone muoversi dietro i finestrini, mani e nasi premuti sui vetri per assistere a quello che sta succedendo.

Un altro scossone dell’inquadratura, che poi torna sulla strada, dove un uomo rasato è in piedi, da solo, fermo, a pochi metri dal plotone. Indossa dei jeans e una maglia bianca. Le braccia abbandonate lungo i fianchi. Ad un certo punto sulla maglia bianca si apre una macchia rossa, come un fiore, che si allarga velocemente. Poi l’uomo si accascia a terra su lato, e muore. Il video prosegue, i poliziotti avanzano in gruppo fino a nascondere il corpo, in mezzo alla strada esplodono ordigni, si alza il fumo, ma io smetto di guardare, e quando chiudo gli occhi sul retro delle palpebre ho stampata quell’immagine. La maglia bianca, il sangue rosso. E nelle orecchie ancora le voci di Artiom e Palina, e le bandiere bianche e rosse e quel grido. Long live Belarus, long live Belarus.