Il suono di noi stessi – 19

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30 Marzo 2020

Il contagio delle storie – 19

Convinti, quando le cose vanno bene e quando le cose vanno male, che ciascuno deve fare il suo lavoro, ci troviamo come redazione di fronte a un evento globale, che concorre a mettere a nudo quelle paure che saranno l’argomento del terzo numero del nostro semestrale cartaceo.

Partendo dal testo di Angelo Miotto, abbiamo deciso – nostra vecchia passione – di lanciare un Decameron online, nella vecchia tradizione, di fronte alle paure, di riunirsi attorno al fuoco (della passione narrativa) e di raccontarsi storie.

Mandateci il vostro racconto di questi giorni di Corona virus, tra allarmismi, improvvisati esperti, legittime paure e doverose cautele. Va bene, al solito, qualsiasi linguaggio: audio, testo, video, foto. Inedito o citando altri. Scrivete a redazione@qcodemag.it e noi vi pubblicheremo.

Il contagio delle storie – 19

Il suono di noi stessi – Lorenzo de Sabbata

Nel 1951, il compositore John Cage entra per la prima volta in una camera anecoica. Questo “luogo del silenzio perfetto” è in realtà una stanza in cui viene ridotta quanto più possibile la riflessione di segnali acustici sulle pareti. Più che il silenzio, quindi, l’assenza di ogni tipo di eco.

Le camere anecoiche – in rete se ne possono trovare parecchie immagini – sono in generale abbastanza piccole, con muri, soffitto e pavimento coperti di fitti intarsi ripetuti di gommapiuma e sostanze isolanti e un ingresso che sembra la porta di un bunker antiatomico o il portello di un sottomarino.

Claustrofobiche e opprimenti, paradossalmente esistono per simulare uno spazio aperto e silenzioso di dimensioni infinite dove condurre sperimentazioni acustiche in condizioni controllate.

Cage racconta che, una volta uscito dalla stanza abbia chiesto all’ingegnere acustico presente che cosa fossero i due suoni che per tutto il tempo aveva continuato a sentire. Uno alto, l’altro basso. L’ingegnere gli avrebbe risposto “Quello alto era il tuo sistema nervoso in azione, quello basso la tua circolazione sanguigna”.

È lo stesso Cage a raccontare quanto l’esperienza nella camera anecoica abbia effettivamente ispirato la composizione di 4’33”, una emissione di silenzio della durata esatta di 4 minuti e 33 secondi. Invertendo il setting abituale dell’ascolto musicale – musicisti produttori di suoni e pubblico silenzioso recettore –, Cage invita a riscoprire tutti quei suoni che una normale performance avrebbe coperto, in primis quelli prodotti dal pubblico stesso.

Se la camera anecoica aveva mostrato a Cage che il silenzio non esiste e che il corpo è un costante emettitore sonoro, per altri le rivelazioni sono state differenti. Molti resoconti e testimonianze parlano di effetti psico-fisici destabilizzanti: degradazione dell’equilibrio – l’orecchio interno usa l’effetto eco per mantenere la stabilità del corpo – ma anche e soprattutto ansia, attacchi di panico e, in alcuni casi, allucinazioni.

 

L’esperienza nella camera anecoica scatena quindi incubi monofonici, e per alcuni coraggiosi ascoltatori di se stessi la sfida è resistervi più a lungo possibile.

In altri casi, invece, e lo racconta bene Alex Wragge-Morley in un articolo del Guardian, si può sperimentare una dissociazione tra i suoni per come li si conosce – il battito delle mani, oggetti metallici che cozzano tra loro – e la loro ottusità generalizzata causata dall’assenza di eco. Il suono è quindi un fenomeno eminentemente sociale, ciò che ascoltiamo è quello che il mondo fa rimbalzare alle nostre orecchie.

È da ormai qualche giorno che la pandemia ha fatto sì alcuni di noi si trovino in situazioni analoghe all’esperienza della camera anecoica: isolamento o, quantomeno, distanza insormontabile dagli altri, tempi e spazi dilatati, suoni e rumori attutiti. La sensazione angusta della reclusione si accompagna a quella disarmante di produrre segnali senza una rifrazione tangibile ed immediata, come messaggi in bottiglia lanciati nel mare digitale.

Sia chiaro, per altri la realtà quotidiana è invece ipercinetica, basta entrare in un supermercato o in una farmacia, e non oso pensare a come possa essere lavorare in un ospedale. Per loro e per gli altri che continuano a lavorare, il tempo non è dilatato ma compresso, riempito dalle abituali incombenze lavorative e, soprattutto per le donne, da un surplus di lavoro di cura, in case giocoforza mai silenziose. Sono loro che devono gestire alcune delle situazioni più difficili e destabilizzanti in questi tempi pandemici.

Per quelli come me, invece, la metafora della camera anecoica regge. Anche se non sono solo nel mio isolamento e posso condividere tanto di quello che penso e che sento, mi ritrovo comunque con molto più tempo “libero” e col pensiero fisso a come riempirlo.

Il suono degli altri, fuori dal mio bilocale metropolitano, mi arriva attutito, mediato dai social network che bazzico incessantemente, da qualche telefonata, videochiamata e audio messaggio. La città stessa, nella zona periferico residenziale in cui mi trovo, ha cambiato il suo sottofondo: manca il ronzio costante del traffico, i clacson, la cagnara dei bambini all’uscita da scuola, le risate dei gruppetti che passano per andare chissà dove.

Adesso sono le urla di ambulanze e sirene che lacerano con costanza un tessuto sonoro più ristretto, dominato dalle voci dei vicini e dalle loro televisioni che si trasmettono attraverso i muri e, in misura minore, dalle parole di quei camminatori solitari che, parlando al telefono, passano veloci sotto casa mia. E poi, c’è il silenzio, la mattina presto, la sera. Alle ore dei pasti.

Sono momenti in cui molti di noi si riscoprono spaventati, io sono spaventato, di una paura sottile, che striscia sottopelle, dove proiezioni di ripresa e calcoli rassicuranti sulle percentuali del contagio non riescono ad arrivare. Mi sembra che siano pochi ad avere veramente paura del COVID come esperienza della malattia, così come pochi sono quelli che riescono ad essere spaventati per un fenomeno tanto vero quanto inimmaginabile come la crisi ambientale.

In un rapporto di ricezione e proiezione, la paura collettiva, condivisa, si articola in ansie personalizzate che entrano in risonanza con il vissuto di ciascuno e se ne nutrono, alimentando poi a loro volta l’angoscia generale. La mia compagna teme che la situazione non si risolva, che rischio di contagio e contenimento diventino la nuova norma nella società della pandemia globale.

L’amico lontano teme per i suoi genitori, categoria a rischio, ma teme ancora di più di non poterli più salutare, di rimanere solo. Io temo che il mio corpo e la mia psiche non reggano alla pressione del silenzio. E, come in una camera anecoica, molto spesso mi ritrovo a sentirli, ad ascoltarli.
Sento di tutto, anche se cerco di non ascoltare. Scricchiolii, assestamenti, piccole frane, forse annuncio di più grandi slavine.

Sensibili all’atmosfera assediante della pandemia, corpo e psiche reagiscono in modi spesso imprevedibili, ma mai sconosciuti. E non sembra essere così solo per me: amici ritrovano antichi mal di schiena sepolti sotto strati di pilates, altri riscoprono angosce e nevrosi che bulimia lavorativa e turbo socialità avevano scacciato in angoli remoti.

Interroghiamo i nostri corpi alla ricerca di segnali di contagio, misuriamo la febbre, raschiamo la gola, tratteniamo il respiro per verificare la resistenza dei nostri polmoni. Le iniezioni massicce di serie tv, film, podcast, videogames e qualche libro aiutano ma non bastano per non dover fare i conti con tutto quello che emerge a causa di questa bassa marea di produzione, consumo e socialità.

Sfuggire a qualsiasi prezzo da un presente fino a poco fa inimmaginabile sembra il mantra di questi giorni, sfuggire e dire agli altri di farlo, intimarli di soffocare qualsiasi turba – Niente Panico! – impegnandosi in attività di qualsiasi tipo, be creative, be productive!

Perché non accettare questa camera anecoica, invece? Perché, noi che possiamo, non utilizziamo
il tempo per ascoltarci?

 

Come Cage, potremmo trovare risposte inaspettate a domande che ci portiamo dentro da tempo e il coraggio di farci qualcosa, non più immersi nel flusso obbligato di azioni e reazioni che regge le nostre vite. O come Wragge-Morley, esplorare la solitudine e perlustrare le nostre paure attenti alla dissonanza tra noi fuori dal COVID e noi dentro al COVID, alla distanza tra ciò che siamo stati fino ad ora e tutto quello che potremmo anche essere.

Il tempo passa, veloce, anche quando non sembra. Da quando ho iniziato a scrivere queste righe sono passati più di due giorni che mai avrei pensato potessero trascorrere così repentinamente.
Tra un po’, non è chiaro esattamente quanto, ma questo è un altro aspetto della mancanza di un’ eco forte e chiaro, la porta della camera si aprirà e noi potremo uscire di nuovo.

Ci rimane ancora un tempo buono per capire cosa faremo, come torneremo al mondo e agli altri, cosa vorremmo per noi e per la società in cui viviamo e vivremo.