La forma e il contenuto (I). Una sentenza costituente

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18 Novembre 2019

Un’inchiesta politica sulla Spagna di oggi

Una settimana fa i cittadini spagnoli sono stati chiamati a rieleggere le Cortes del Regno (Camera e Senato) per la quarta volta in quattro anni, la seconda negli ultimi sei mesi: 20 dicembre 2015, 26 giugno 2016, 28 aprile e 10 novembre 2019.

Piuttosto che indugiare sull’analisi del voto, degli equilibri che consegna e delle future maggioranze e loro fattibilità ci proponiamo di offrire un punto di osservazione cercando di sollevare alcuni problemi di fondo, alcune costanti che esistono a prescindere e nonostante gli equilibri parlamentari, questioni che esistono a prescindere dal potere legislativo per intenderci e che hanno a che fare piuttosto con la peculiare evoluzione che si sta producendo nello stato di diritto in Spagna.

Queste elezioni d’altronde sono venute (e sono state convocate) nel momento di maggior crisi dello Stato dall’epoca in cui, tra 1975 e 1978, la dialettica tra la legalità dello Stato franchista e la legittimità dell’opposizione democratica derivò in un processo di transizione dalla dittatura alla democrazia rappresentativa sotto forma di monarchia parlamentare.

Quella transizione, fino a qualche tempo fa considerata esemplare, in realtà consegnava alla giovane democrazia iberica una serie di nodi e questioni irrisolte che, lungi dall’essere aggrediti in questi quattro decenni, sono stati nascosti o elusi dietro una patina di apparenti successi.

Alla confluenza tra quei nodi irrisolti (o sottovalutati) e le nuove sfide della democratizzazione e della crescita civile nelle nazionalità sub-statali si misura il progetto politico della Spagna di oggi.

Il calcolo politico di chi le ha convocate (o un evitabile errore in merito) ha
voluto fare coincidere la campagna elettorale con la pubblicazione, proprio il
14 ottobre scorso, della Sentenza Numero 459/2019 del Tribunal Supremo (TS) di Madrid.

Si tratta dell’approdo della Causa speciale 20907/2017 iniziata contro i membri del Governo autonomo catalano in carica nell’autunno del 2017, della Presidenta del Parlament di Barcellona e dei presidenti delle due entità espressione della società civile indipendentista Omnium Cultural e Assemblea Nacional Catalana (ANC).

I nove condannati a pene detentive per sedizione sono: Oriol Junqueras (Vicepresidente della Generalitat) 13 anni; Dolors Bassa (Lavoro), Raül Romeva (Esteri) e Jordi Turull (Territorio) 12 anni; Carme Forcadell (Presidenta del Parlament) 11 anni e 6 mesi; Joaquim Forn (Interni) e Jordi Rull (Ufficio della Presidenza) 10 anni e 6 mesi; Jordi Cuixart (Presidente Omnium) e Jordi Sànchez (Presidente ANC) 9 anni.

I primi quattro sono condannati anche per malversazione e nel caso di Junqueras si aggiunge l’aggravante di essere il cervello della sedizione. Agli altri tre imputati, Carles Mundó (Giustizia), Santi Vila (Impresa) e Meritxell Borràs (Ufficio del Governo), è toccata una condanna a venti mesi commutati in 60mila euro di multa per disobbedienza.

Già questa differenza di trattamento è indizio del senso politico piuttosto che giuridico della sentenza: i condannati per disobbedienza hanno abbandonato il Governo autonomo (sebbene per differenti motivi e in momenti distinti) prima della dichiarazione d’indipendenza simbolica del 27 ottobre 2017.

Si tratta, con qualche ritocco, del quadro punitivo richiesto dalla Abocacía del Estado (dipendente dal Governo di Madrid). Il Fiscal (la Pubblica Accusa formalmente indipendente) chiedeva la condanna per ribellione, con pene tra i 7 e i 25 anni, e la scandalosa anomalia spagnola rappresentata dalla presenza del partito di estrema destra Vox (come Parte Civile) chiedeva dai 25 ai 74 anni di carcere.

Per farci un’idea, la condanna in Spagna per omicidio è attorno ai venti anni, molto meno per violenza sessuale e l’unico precedente di ribellione in armi (il Golpe militare di Tejero del 1981) è stato punito solo in tre casi con pene superiori a quelle inflitte a Junqueras. Ma l’importanza di questa sentenza travalica la semplice contingenza dell’essere strumento politico-repressivo e punitivo nei confronti dei dirigenti e rappresentanti dell’indipendentismo.

Nel sistema spagnolo le sentenze del TS costituiscono giurisprudenza e segnano le linee future di attuazione da parte della magistratura. L’assenza di sollevazione in armi da parte degli indipendentisti ha reso impossibile la condanna per ribellione, di cui l’esistenza di violenza armata effettiva e organizzata è ingrediente giuridicamente essenziale.

La sentenza di conseguenza è costretta (ci si costringe da sola) a costruire attorno alla condanna per sedizione le ragioni per giustificare il massimo della pena per questo reato. In questa giustificazione piuttosto che questioni giuridiche (la verifica della pertinenza delle accuse in base al codice penale) si elencano questioni di valore, opinioni circa senso e fini di un’azione la cui punibilità viene misurata in base al grado di significazione politica più o meno anti-nazionale, ovvero contraria in maniera attiva e di massa allo status quo con l’obiettivo della secessione di una parte del territorio statale.

È il grado d’implicazione simbolica, non solo effettiva, degli imputati a far sì che diverse siano anche le condanne ad esempio nel caso già citato di Vila, Mundó e Borràs.

Quello che codice penale alla mano sarebbe un reato di disobbedienza, peraltro orgogliosamente rivendicata durante il procedimento da tutti i condannati a pene detentive, viene trasformato in sedizione non già per il fatto o atto in sé quanto per il senso o fine politico che le azioni dei condannati avevano o avrebbero potuto dare.

Alcuni passaggi della ricostruzione politica dei fatti su cui si regge la sentenza meritano quindi di essere ripercorsi brevemente, soprattutto per l’impatto diciamo costituente che avranno nel futuro del progetto stato-nazionale spagnolo.

In primo luogo, il TS afferma che una massa di cittadini illusi è stata spinta a rivendicare il “diritto a decidere” quando in realtà si trattava solo di un progetto di pressione nei confronti del governo spagnolo da parte di quello catalano. Secondo la sentenza si trattava in ogni caso di un illegittimo “diritto a fare pressione”, cioè a spingere il governo spagnolo a sedersi a un tavolo di trattative piuttosto che accettare il risultato del referendum non accordato dell’1 ottobre, comunque illegale.

Un atto che secondo la sentenza quindi non può essere tollerato poiché a quanto pare nessun partito, gruppo, entità e tantomeno istituzione sub-statale può esercitare pressioni nei confronti dello Stato né del governo in carica. Tornado però alla questione del “diritto a decidere”, il TS rispolvera un classico della visione restrittiva dell’autodeterminazione secondo il quale tale diritto sarebbe estinto nelle cosiddette naciones civilizadas (cito letteralmente) rette da sistemi di democrazia rappresentativa parlamentare. La sentenza ciononostante fa un passo in più verso la condanna o non applicabilità al caso spagnolo e catalano di qualsiasi procedimento volto alla normazione della secessione territoriale financo in caso di maggioritario sentire in merito da parte della popolazione di un determinato territorio.

E qui avviene una fusione tra “stato di diritto” e Stato spagnolo, e la trasmutazione di questo in essenza del primo. Partendo dal presupposto che fuori dallo “stato di diritto” non c’è democrazia e che la Spagna è uno “stato di diritto” esemplare la sentenza giunge a due conclusioni. Queste però sono di tipo politico piuttosto che giuridico: il popolo catalano, come soggetto dotato di diritti civili propri separabili da quello spagnolo, non solo non esiste ma non può aspirare ad alcun potere costituente autoconvocato a partire dalla società civile; la secessione sarebbe un atto antidemocratico che attenta contro i diritti civili di tutta cittadinanza spagnola.

In definitiva si tratta di due opinioni politiche, di certo legittime ma che attraverso la sentenza si trasformano in dogma giuridico. Curiosamente (si fa per dire) si tratta dello stesso dogma sistemato alla base della narrazione dello stato-nazionalismo spagnolo autoproclamatosi “patriottismo costituzionale”.

Anche se detto in altra maniera, visto dal versate dei diritti, non si tratta di altro che di una parte (lo Stato) che si da ragione da sola (attraverso la magistratura) in un contrasto in cui una delle due parti resta totalmente indifesa e le cui ragioni vengono tipificate come delitto potenziale, anche se non ancora come delitto di opinione, a volte anche prima di materializzarsi i fatti o a prescindere da questi.

Tutta l’argomentazione della sentenza disegna i contorni di una disobbedienza (civile) però ciò che la trasforma in sedizione punibile nel grado più alto è la sua dimensione di massa, il fatto che intacchi la legittimità dello Stato e che a questa si sommi un’istituzione regionale dello Stato come la Generalitat de Catalunya.

La sentenza stessa, e qui la giustificazione al momento di scartare l’ipotesi della ribellione, afferma che lo Stato non ha mai perso il controllo della situazione e che la legalità non sarebbe stata mai in pericolo di essere sostituita da un’altra, più per inutilità del progetto di sedizione che altro. Per concludere la sentenza, che di fatto condanna la Presidenta del Parlament solo per aver permesso una discussione e una votazione, afferma che il referendum dell’1 ottobre è stato una
sollevazione tumultuaria contro le disposizioni giudiziarie.

In definitiva: ai dirigenti della società civile (Omnium e ANC) viene rimproverato di aver mobilitato le masse in piazza contro decisioni politiche e giuridiche e di aver minacciato (potenzialmente) l’unità nazionale; ai rappresentanti politici istituzionali viene rimproverato di aver cercato di dare copertura legale a una rivendicazione politica; e tutti vengono condannati per averlo fatto in concorso, all’interno di un progetto coordinato che, non importa se pacifico e votato al fallimento per incapacità manifesta dei promotori, andava contro le istituzioni dello Stato.

In una sentenza di questo tipo elementi politici e giuridici si sovrappongono entrando in cortocircuito, il più pericoloso dei quali è la reinterpretazione del delitto di sedizione attraverso una modifica sostanziale del suo contenuto.

Di reminiscenze ottocentesche e autoritarie di difficile applicazione in società complesse come l’attuale, la sedizione diventa quell’atto di disobbedienza civile di massa e in concorso (ripetiamo, non importa se violenta o meno, e nemmeno se votato al successo o al fallimento) contro l’autorità costituita che metta a repentaglio anche solo simbolico un’unità della nazione che viene (con)fusa con la democrazia e lo stato di diritto. Ma la sentenza distilla anche preoccupanti errori, inammissibili per una così alta istanza e forse significativi della poca cura con la quale la Excelentísima Sala ha seguito il processo.

Forse il caso più emblematico riguarda Dolors Bassa. Quando si elencano le prove contro di lei la si rende responsabile dell’uso degli edifici scolastici come sede di seggio l’1 ottobre. Ecco, la Bassa, ex dirigente del sindacato UGT di area PSOE, in realtà era all’epoca dei fatti contestati responsabile del dicastero del Lavoro, che è stata anche le sua prima (e finora unica) esperienza di governo.

Ma questo grossolano errore passa in secondo piano dinnanzi alla pericolosità della sentenza e alle conseguenze politiche che comporta, tutte gravi in maggior o minor grado, senza che nessuna delle quali contribuisca a risolvere assolutamente nulla.

Per trovare dei precedenti di una simile architettura argomentale bisogna infatti retrocedere fino alla Ley de Repsonsabilidades Políticas del 9 febbraio 1939.

I distinguo con l’epoca della dittatura sono d’obbligo ma a preoccupare invece sono le rumorose assonanze che è possibile stabilire tra quella legge del 1939 e la sentenza 459/2019 del TS.

Infatti, come suggeriscono gli autori della monografia Jueces, pero parciales: la pervivencia del franquismo en el poder judicial (2012), Antonio Doñate e Carlos Villarejo, “La maniera in cui si realizzò la Transizione permise che si amnistiassero i crimini commessi durante i circa quarant’anni di governo dittatoriale e, cosa ancor più grave, rese possibile che ad amministrare la giustizia fossero gli stessi che avevano commesso gli abusi adesso amnistiati”.

Questo perché la Ley de Amnistia con i perseguitati amnistiava anche i persecutori in un esercizio di rara perversione. Attraverso documenti e rassegne di dichiarazioni e sentenze la monografia giunge alla conclusione ampiamente argomentata che il potere giudiziario mostra abbondanti e normalizzati elementi di continuità con l’epoca franchista senza che in quarant’anni di democrazia si sia attuato per sanare questo profondo gap democratico incrostato nello stato di diritto spagnolo.

Oltre questo dibattito, che prima o poi andrà affrontato, è possibile intravvedere tutti i segnali di un accumulo di decisioni istituzionali di fondo e vincolanti, diremmo costituenti, che disegnano i contorni di una chiusura, ripiegamento e oseremmo dire regressione del sistema politico-istituzionale spagnolo.

Se la Sentenza Numero 31/2010 del Tribunal Constitucional del 28 giugno 2010 sullo Statuto di Autonomia di Catalogna, riformato nel 2006, rompeva il patto costituzionale del 1978 negando il valore evolutivo dello Stato delle Autonomie, quella del TS di cui qui ci siamo occupati interviene proprio sulla restrizione del diritto di protesta e materializzazione di un programma democratico. È significativo ma anche preoccupante che gli eventi che quella sentenza del 2010 ha scatenato sia finita nelle mani di un altro alto tribunale, e che questo sia intervenuto tirando ancora di più il nodo scorsoio dello stato di diritto.

Infatti la questione non è tanto se la Spagna di oggi sia o meno uno stato di diritto, come in molti dibattono. Addirittura i governi di Madrid hanno speso milioni di euro per costruire una piattaforma di propaganda internazionale, come España Global, che si sforza di spiegare alla diplomazia e opinione pubblica di tutto il mondo che “la Spagna è una democrazia consolidata fondata sui principi dello stato di diritto”, ecc.

Forse ci dovremmo chiedere cosa farebbero gli altri grandi paesi “occidentali” dinnanzi a una situazione simile. E forse arriveremmo alla conclusione che altri paesi hanno avuto (e forse altri avrebbero) la saggezza e sensibilità politica per non arrivare a un simile punto; ad esempio il Canada con il Québec, il Regno Unito con la Scozia, la Danimarca con le Isole Fær Øer o la Groenlandia.

Però ammettiamo che la Spagna sia davvero “una democrazia consolidata fondata sui principi dello stato di diritto”. Forse ci troviamo dinnanzi a una crisi verticale dello stato di diritto, asse portante delle democrazie “occidentali”, che se messo dinnanzi alle sue contraddizioni e in condizioni particolari che ne attaccano le basi nazionali(ste) diventa democrazia autoritaria, stato autoritario, o in transizione verso tale destinazione.

Insomma, se per l’Europa Orientale della Guerra Fredda fu coniato il concetto di “socialismo reale”, per scavare nelle contraddizioni tra principi teorici e realtà fattuale, nel caso spagnolo potremmo parlare di “democrazia reale” e “stato di diritto reale”. In fondo, tutta qui la differenza e la dialettica tra forma e contenuto.