In lotta per i diritti

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28 Ottobre 2019

Attivisti in Mesopotamia per il diritto all’acqua: la diga di Ilisu e Hasankeyf

“L’8 ottobre era l’ultimatum fissato per il trasferimento degli abitanti da Hasankeyf a Nuova Hasankeyf. Ad oggi circa un terzo della popolazione ha lasciato i villaggi di residenza”.

Ercan Ayboga è un ingegnere ambientale e attivista per il diritto all’acqua curdo turco.
“Ho studiato in Germania, poi sono tornato nella zona curda della Turchia, dove sono stato tra i fondatori di Intiative to Keep Hasankeyf Alive“. Il movimento è una coalizione di attivisti e organizzazioni che portano avanti campagne per “fermare questo progetto e per sviluppare alternative con il coinvolgimento degli stakeholders a qualsiasi livello con l’obbiettivo di migliorare la situazione socio-economica delle persone che risiedono nella regione, sviluppare l’eredità culturale e preservare l’ambiente”, come si legge dal loro sito.

Lo scorso settembre la Turchia ha iniziato a riempire il bacino artificiale creato dalla diga di Ilisu, la 4° diga più grande della Turchia, passando alla fase conclusiva di un progetto della fine degli anni ’90 dalla storia travagliata.

Dodicimila anni di storia che verranno spazzati via: le acque sommergeranno presto i 199 villaggi nella zona, tra cui Hasankeyf, uno dei luoghi abitati più a lungo della storia. Posizionata sulla via della seta, Hasankeyf conserve le tracce di 20 diverse culture tra l’est e l’ovest e centinaia di monumenti storici. L’area è meta per turisti e archeologi da tutto il mondo (dei 400 siti archeologici solo una ventina sono stati studiati); ma, soprattutto, casa per più di 100 mila persone, ora costrette ad emigrare lasciandosi alle spalle i luoghi dove da secoli abitano i loro antenati. Insieme a botteghe, attività legate al turismo e campi dove coltivare e allevare il bestiame.

La diga di Ilisu è costruita sul bacino del Tigri, in una zona dove la presenza di curdi turchi è maggioritaria. Da qui il Tigri attraversa tutto l’Iraq, fino ad arrivare alle paludi irachene, nel sud est del paese, per poi tuffarsi nel Golfo del Persico. È un progetto immenso: una volta che sarà riempita il volume d’acqua sarà di 11 miliardi di m3 per una fornitura di 3800 megaWatt/ora.

“L’ultimatum dell’8 ottobre sarà posticipato di almeno un mese a causa di alcuni problemi tecnici e lavori non finiti, come d’altra parte è successo molte volte negli ultimi anni”, continua Ercan.

Per accogliere chi costretto a trasferirsi è stata costruita Nuova Hasankeyf. Il nuovo villaggio è un agglomerato di edifici – alcuni già con crepe e danneggiamenti causati dalle esplosioni per creare il bacino, secondo le testimonianze dei pochi già trasferiti – che sorgono vicino ai pochi monumenti originali salvati dall’acqua, trasportati interi o rimontati sopra il bacino della diga, per tentare di preservare la memoria storica e il turismo nell’area.

“Ci sono diversi problemi: a fronte di 2100 richieste da famiglie e abitanti della zona, solo 800 sono state accettate – più di metà degli abitanti non hanno ancora un luogo dove trasferirsi. Molti si lasciano alle spalle posti di lavoro e attività, e il governo non sembra intenzionato a fornirne di nuovi. Tutto il processo, dall’inizio della costruzione ad oggi, è stato gestito molto male, e nonostante il governo continui a dire che il progetto favorirà i villaggi di questa zona, stiamo subendo solo le conseguenze negative. Al momento alla diga ci lavorano circa 50 locali, all’inizio del cantiere stavano tra le 100 e le 200 – numeri molto bassi per lavori a breve termine, che non portano ricchezza nei nostri territori, ma favoriscono le grandi aziende dell’ovest della Turchia con la fornitura d’energia. La diga di Ilisu è una catastrofe a livello sociale: costringerà chi rimasto privo di lavoro a trasferirsi nelle grandi città, che in ogni caso non hanno le strutture adatte ad accogliere un simile numero di persone”.

Save the Tigris, il diritto all’acqua in Iraq

“Vogliamo che le persone e i governi cambino le loro priorità, la salvaguardia delle acque deve diventare una delle preoccupazioni principali”.
Salman Khairallah è iracheno, ha 28 anni e una figlia di nome Tigri. Lo stesso nome del fiume che si batte per proteggere.
 Salman è attivista ambientale, uno dei coordinatori di Save the Tigris and Iraqi Marshes, campagna internazionale di advocacy per difendere le acque del Tigri.

La prima volta che parliamo lo incontro ad Erbil, nel Kurdistan Iracheno, poco prima che parta per Mosul per tenere un workshop e consolidare la rete di giovani attivisti che negli anni ha costruito. La campagna Save the Tigris, con il supporto della Iraqi Civil Society Solidarity Initiative e del Iraqi Social Forum, è attiva in Iraq e nella regione autonoma del Kurdistan Iracheno dal 2012, e si batte per sensibilizzare cittadini e governi sulla salvaguardia ambientale e sul diritto all’acqua.

“Abbiamo diversi contatti con attivisti ed ONG europee e del resto del mondo”, continua, “con cui teniamo stretti rapporti. Scambiamo idee e strategie, ci teniamo informati e la connessione con altre realtà ci aiuta ad avere più voce e dare rilevanza al tema anche a livello internazionale”.

La diga di Ilisu e le altre sparse tra Turchia ed Iran mettono in pericolo i delicati equilibri delle Iraqi Marshes, il più grande ecosistema paludoso dell’Asia, diventato patrimonio dell’Unesco nel 2016 grazie al lavoro della campagna Save the Tigris. Se continuasse di questo passo, la riduzione del flusso d’acqua porrà di sicuro in dubbio la sopravvivenza dei bufali d’acqua e di alcune specie di piante, ma soprattutto costringerà all’emigrazione i Ma’ad (arabi di palude) una popolazione che abita queste terre e vive soprattutto dell’allevamento dei bufali.

I problemi si stanno già facendo vedere, lo scorso anno a Bassora sono morte tra le 6mila e le 9mila persone a causa dell’inquinamento e delle salinità dell’acqua.

“Le acque che arrivano dall’Iran dopo la costruzione delle dighe provengono da aree agricole”, racconta Salman, “e sono piene di concimi e pesticidi. Inoltre, la riduzione del flusso d’acqua dolce provoca una risalita delle acque salate del golfo lungo il corso del fiume, ponendo a serio rischio la salute della popolazione. Più di 500 persone al giorno si rivolgono agli ospedali per malattie legate alla cattiva qualità dell’acqua. Ma non è solo un problema di scarsità del flusso d’acqua, c’è una cattiva gestione interna che significa grandi sprechi. Le strategie adottate dal Ministero per le risorse idriche sono le stesse che venivano applicate negli anni ’50: c’è bisogno di innovazione, di accordi internazionali per regolamentare i flussi d’acqua delle dighe e di maggiore informazione. L’inquinamento e la gestione delle acque sono uno dei problemi principali dell’Iraq e dell’intera Mesopotamia”, conclude.

“Se un tempo si combatteva per il petrolio, oggi la fonte di rivalità è diventata l’acqua. Iran e Turchia hanno costruito diverse dighe su molti degli affluenti del Tigri, e ci hanno privato del 60% del flusso d’acqua del fiume. Dei 40 affluenti del Tigri dal territorio iraniano e dei 16 dal territorio turco ne rimangono ben pochi che scorrono liberamente”.

L’acqua come strumento di pace

La campagna Save the Tigris and Iraqi Marshes lavora a livello nazionale e internazionale, rivolgendosi sia a governi che cittadini.

“La parte di advocacy è rivolta al governo iracheno, turco e iraniano perché trovino un accordo sulla gestione delle dighe e del flusso di acqua”, dice Salman, “mentre organizziamo festival, forum, workshop e altre iniziative per favorire la presa di coscienza tra i membri della società civile. Vogliamo che cambi il paradigma acqua uguale conflitto. In questo momento l’acqua è usata dai governi per dividere le persone e creare conflitti, ma noi pensiamo che la società civile possa dimostrare il contrario: è possibile usarla come ponte per favorire la collaborazione e il dialogo tra le persone ed i paesi. Vogliamo creare unione nella regione mesopotamica e portare insieme tutti quei movimenti che si occupano del tema, usando l’acqua come uno strumento di pace”.

“L’acqua è già stata usata come arma da parte del governo turco negli anni ’80 contro la Siria”, commenta Ercan, “bloccando il flusso dell’Eufrate per fare pressioni sul PKK, ed ancora negli scorsi anni abbiamo moltissimi esempi di questo. Un problema grande è la mancanza di accordi tra gli stati: Iraq e Siria hanno entrambi firmato la convenzione sui corsi d’acqua internazionali dell’ONU, mentre la Turchia non lo ha fatto e continua ad approfittare della posizione debole di questi paesi. L’acqua è solo uno strumento di pressione in più: in questo modo non fa altro che aumentare la conflittualità dell’area. I governi continuano a creare divisione, e le popolazioni non hanno contatti che non siano mediati dai governi: non ci si riconosce come uniti in qualche modo. Condividiamo lo stesso bacino d’acqua e affrontiamo gli stessi problemi: le questioni legate alla pace, alla terra e all’acqua, se considerate insieme, possono unire le persone, non sono costrette a dividerle. È per questo che dal 2011 lavoriamo insieme a Save the Tigris e molti altri movimenti in tutta la Mesopotamia”.

Fermare la costruzione della diga di Ilisu oggi è poco probabile, per non dire impossibile. Nonostante questo, <> conclude Ercan Ayboga. “Sappiamo che questi non sono gli unici problemi della zona riguardo il diritto all’acqua – continueremo a batterci per assicurare una buona qualità di vita e il rispetto dei diritti”.