Intervista a Maria Grazia Calandrone

di

7 Gennaio 2020

Segni di percorrenza, tratto terzo

In realtà, ogni cosa che accade, avviene in mondi e modi incalcolabili. La poesia permette che tutte le cose accadano allo stesso essere umano e che quell’essere umano forse siamo noi. È, in qualche modo, l’assicurazione necessaria che la vita di ognuno appartenga allo stesso mondo, di ogni tempo. E sul quale, qui e ora, abbiamo facoltà di lavorazione. La serie di queste interviste rappresenta un dialogo polifonico attorno a un vero, presunto o necessario ruolo sociale e umano della poesia, tra racconto e cambiamento.

 

 

Il complice

Mi crocifiggono e io devo essere la croce e i chiodi.
Mi tendono il calice e io devo essere la cicuta.
Mi ingannano e io devo essere la menzogna.
Mi bruciano e io devo essere l’inferno.
Devo lodare e ringraziare ogni istante del tempo.
Il mio nutrimento sono tutte le cose.
Il peso preciso dell’universo, l’umiliazione, il giubilo.
Devo giustificare ciò che mi ferisce.
Non importa la mia fortuna o la mia sventura.
Sono il poeta.

J. L. Borges

poeta
Maria Grazia Calandrone (Milano 1964) è poetessa, scrittrice, giornalista, drammaturga, artista visiva, autrice e conduttrice per la Rai, scrive sul «Corriere della Sera» e tiene laboratori di poesia nelle scuole e nelle carceri. Vincitrice del premio Montale per l’inedito nel 1993, ha pubblicato numerosi libri di poesia, tra i quali – per Crocetti – La scimmia randagia (2003, premio Pasolini Opera Prima), La macchina responsabile (2007), Sulla bocca di tutti (2010, premio Napoli), Serie fossile (2015), Il bene morale (2017) e – per Mondadori – Giardino della gioia (2019). Con Gli Scomparsi (pordenonelegge 2016) ha vinto il premio Dessì. Il suo sito è www.mariagraziacalandrone.it

 

Che cos’è la verità, in poesia?

La parola “verità” è pericolosa, perché chi ha creduto o sentito di possedere la verità, lungo tutta la storia umana, ha teso a imporla ad altri, sia in buona fede che no.

La verità della poesia è però una verità che non oppone uomo a uomo.

Non ho scritto la verità dei poeti, perché molti autori contemporanei, cui piace autodefinirsi poeti, hanno provato a imporre la legge del proprio stile come unico stile praticabile da parte di una poesia prodotta in una società agonizzante e ingiusta. A mio parere, non è più tempo di trascrivere in poesia la nostra solitudine e la nostra sconfitta, è tempo di lanciare il nostro cuore di autori oltre l’ostacolo, perché incontri per noi e prima di noi nuovi orizzonti di senso. Che sono i più antichi e remoti orizzonti di senso, visto che per poesia intendo un sentimento di collettività attiva.

 

Si dice che ogni essere umano sia innumerevole. E che gli innumerevoli si possano riconoscere in ogni essere umano. È questo che fa la poesia?

Precisamente. Il poeta, mentre scrive, scavalca sé stesso e raggiunge lo stato di identificazione, il punto dove gli esseri (umani e non solo, in verità) non sono “simili”, sono “identici”, radicalmente identici.

Aggiungo che il nostro essere ciascuno innumerevole ci pone davanti alla responsabilità morale della scelta tra le parti di noi da lasciar agire nella società. I miei due ultimi libri, Il bene morale e Giardino della gioia, sono stati messi al mondo come uno dei molti promemoria della nostra complessità e come invito a prestare attenzione alle nostre responsabilità nel disamore e nello sfacelo, come nell’amore e nella gioia. Non esiste gioia che non abbia guardato dritto in faccia il dolore.

 

Il senso del possibile, come si alleva nella poesia? Come pratica il futuro?

Se la poesia è quella che ho descritto sopra, i poeti possono contribuire a costruire il futuro attraverso il linguaggio. Il linguaggio è il nostro modo di pensare il mondo, l’attenzione alle parole cambia la materia fisica del nostro cervello, sviluppa nuovi collegamenti, mette in comunicazione aree complesse. Chi legge impara, si modifica, allena la sua mente alla novità. E la novità avviene ogni giorno, è sempre avvenuta. Altrimenti, siamo fermi come fossili. E, per svegliare il fossile, non c’è altro che la magnifica intuizione dantesca dell’Intelletto d’Amore.

 

La Storia e le storie. Cosa raccoglie la poesia per i venturi?

Nel senso della storia grande e di quella nostra, microscopica, la poesia può anche avere valore di testimonianza. Ma non basta, se un poeta immenso come Paul Celan non si limita a descrivere la Shoah, ma compie un salto quasi impossibile, che all’atterrito Adorno non riusciva neanche di immaginare. Celan fonda sulla corona di spine dell’umanità la fiducia nella parola, nel canto. Il Salmo di Paul Celan è una delle poesie più importanti che siano mai state scritte, perché canta dal fondo dell’orrore con esiti poetici altissimi.

 

Chi è l’altro oggi? Come lo si incontra?

Incontrare l’altro è un esercizio quotidiano. Avere la consapevolezza dell’esistenza dell’altro, identico a noi e così diverso da noi, non è affatto scontato. Simone Weil sostiene, anzi, che accorgerci dell’altro sia la conquista più grande.

L’altro è chiunque ed è nessuno, siamo anche noi per noi, così difficili da comprendere e spesso estranei a noi stessi, invasi da pensieri e desideri altrui che dobbiamo, con pazienza, districare dai nostri.

Allo stesso modo, qualcuno che abiti fisicamente un altro corpo, può risultare più innamorato di noi di quanto lo siamo noi stessi. Eppure, l’amore per sé stessi è indispensabile per amare un altro. Dunque, se vogliamo davvero andare incontro all’altro, dobbiamo prima sapere e accogliere quello che siamo, altrimenti portiamo al mondo il risuonare di un linguaggio vuoto dietro una maschera, e dovremmo portare un abbraccio.

 

La poesia rende giustizia? Può essere il suo ruolo, oggi?

La poesia può dare voce a chi non ne ha, e questa è una forma di giustizia. Ma non può fare davvero giustizia sociale. Può portare il suo contributo alla giustizia sociale, questo sì. Ricordando cosa ci aspettiamo dal mondo quando nasciamo. Un’attesa e un desiderio trasversali al tempo e al luogo: essere, appunto, amati. Sfamati, protetti, compresi. Perché possiamo farlo, a nostra volta.

 

La poesia può essere anche reazione al reale? Come lo agisce?

La poesia nasce dalla realtà, dunque reagisce certamente alla realtà. Se però stiamo dando alla parola “reale” la connotazione lacaniana del più autentico “vero”, la risposta è doppiamente sì, perché la poesia smaschera gli inganni della “realtà” e ci conficca (uso di proposito una parola sgradevole e quasi violenta, perché la poesia spesso lo è) dentro il “reale”, fatto di quello che siamo, dell’essenza profonda del desiderio. Dunque la poesia agisce il reale smascherandolo e facendo da specchio, a volte violento, alla nostra faccia segreta.

 

Dare un nome alle cose le mette al mondo. Come dobbiamo raccontare il bene comune, oggi?

Con fiducia. L’idiozia o lo splendore della bellezza, un testo del 2011 contenuto nel Bene morale, comincia con queste parole: «Adesso credo necessario un ottuso atto di fiducia nella bellezza. Agire come non fossimo mai stati. Come non fossimo mai stati traditi».

La penso ancora così. Credo che il solo modo di stare al mondo sia quello che Gramsci definisce “ottimismo della volontà”: vedere le cose, ma non limitarsi a vederle, lottare con fiducia affinché quelli che verranno dopo di noi possano abitare un mondo più abitabile. Gli adolescenti (Greta Thunberg, il neonato movimento, apartitico ma non apolitico, delle “sardine”) stanno agendo bene, per sé stessi e per tutti.

 

Quali sono le domande alle quali collettivamente è necessario iniziare a rispondere?

Una, sopra tutte: da che parte stai? In questo momento è assolutamente necessario esporsi, se non si vuole essere, in futuro, tra i complici del disastro antidemocratico mondiale che certa politica sta mettendo in atto per egemonizzare il potere economico, usando mezzi di propaganda capillare e invisibile, dai quali stiamo però imparando a difenderci.

 

Versi a commiato?

Desidero salutare ripetendo in versi quello che ho risposto a queste belle domande. La poesia è tratta da Giardino della gioia (Mondadori 2019)

 

Intelletto d’amore

La poesia è anarchica, risponde a leggi solo proprie, non può e non deve piegarsi a nient’altro
che a se stessa.
La sua legge interiore è ritmo, musica assoluta.
Questo spiega la commozione che proviamo nell’ascoltare letture di poesia in lingue a noi

sconosciute.
Abbiamo l’impressione di comprendere
anche se non capiamo le parole,
perché le nostre molecole consuonano con la musica profonda della poesia,
che è la stessa in ogni lingua: un ultrasuono, un rumore bianco.
Una lingua invisibile, un ronzio nucleare
traducibile per approssimazione,
una sonorità che entra in risonanza con la parte più estranea e profonda delle nostre molecole

e col rombo primario della materia

che compone la sedia

sulla quale sediamo.

Come certa musica – penso al Chiaro di luna di Ludwig van Beethoven – è un linguaggio
letteralmente universale:
i poeti lo scrivono da sempre, ma le recenti scoperte astrofisiche lo confermano
con rigore scientifico, non più solo intuitivo: il nucleo più profondo di noi
è composto della stessa materia delle stelle.
Parole di Margherita Hack: «Tutta la materia di cui siamo fatti l’hanno costruita le stelle. Tutti gli elementi, dall’idrogeno all’uranio, sono stati fatti nelle reazioni nucleari che avvengono nelle supernovae, stelle molto più grandi del Sole, che alla fine della loro vita esplodono e sparpagliano

nello spazio
il risultato di tutte le reazioni nucleari avvenute al loro interno».
Dalle scoperte ultimissime sappiamo ancora che
metà degli atomi che formano i nostri corpi è materia prodotta fuori dalla Via Lattea, viene da una

distanza che non si può
commensurare.
La vibrazione delle nostre molecole entra in risonanza materiale con la vibrazione dell’universo,
fin dentro l’universo sconosciuto. Questa forza
«che move il sole e l’altre stelle»
è quella che Dante chiama «amore».
La poesia intercetta il corale profondo e ininterrotto di questa forza, intona la sua voce
al rombo delle stelle extragalattiche

e al rombo primario della materia

che compone la sedia

sulla quale sediamo.
È un oggetto fatto di parole
sempre d’amore.
E basta.

M. G. Calandrone