Non si chiama “Corona” il virus che ci uccide – 3

di

7 Marzo 2020

Il contagio delle storie – 3

Convinti, quando le cose vanno bene e quando le cose vanno male, che ciascuno deve fare il suo lavoro, ci troviamo come redazione di fronte a un evento globale, che concorre a mettere a nudo quelle paure che saranno l’argomento del terzo numero del nostro semestrale cartaceo.

Partendo dal testo di Angelo Miotto, abbiamo deciso – nostra vecchia passione – di lanciare un Decameron online, nella vecchia tradizione, di fronte alle paure, di riunirsi attorno al fuoco (della passione narrativa) e di raccontarsi storie.

Mandateci il vostro racconto di questi giorni di Corona virus, tra allarmismi, improvvisati esperti, legittime paure e doverose cautele. Va bene, al solito, qualsiasi linguaggio: audio, testo, video, foto. Inedito o citando altri. Scrivete a redazione@qcodemag.it e noi vi pubblicheremo.

 

Il contagio delle storie – 3

Non si chiama “Corona” il virus che ci uccide – Eleana Elefante

 

Ad evidenziare quanto la nostra umanità sia scivolata incontrovertibilmente in un nero abisso di soprusi, strumentalizzazioni e discriminazioni, ci ha pensato, in ultimo, il Corona Virus (COVID-19) e chi, speculando per mestiere sul concetto di chiusura e di paura ci ha marciato sopra, rendendoci nemici degli amici, generando nuove divisioni etnico razziali, creando ulteriori ed immaginari muri e confini, ghettizzando tutti, fisicamente e psicologicamente in una quarantena globale.

Tanto per ridimensionare, i “Corona” sono una vasta famiglia di virus (almeno 7), identificati già alla fine degli anni ’60 ed in grado di infettare l’uomo causando raffreddori ed infezioni al tratto respiratorio inferiore.

Il nuovo ceppo di Corona Virus (nCOV) è stato identificato per la prima volta a dicembre 2019, nella città di Wuhan in Cina. L’omessa e/o quantomeno tardiva informazione del Governo cinese (nota dolente di un regime che evidentemente non cessa di esistere), ha decretato l’esponenziale diffusione del virus in gran parte del pianeta. L’uomo, per sua natura, si muove continuamente con tutti i virus che il suo corpo contiene.

Normalmente ed inevitabilmente prendiamo tutti qualcosa dall’altro: accade sul tram, accade nei luoghi di svago, negli uffici, al cinema, negli aeroporti, al supermercato, insomma, in tutti quei luoghi dove vi è affollamento e dove l’aria è spesso viziata o riciclata da pompe di calore o di raffreddamento. Non essendo affatto una virologa, non starò qui a raccontare ciò che non mi compete. Tutti i canali di media ed informazione, a torto o a ragione lo hanno già fatto e continueranno a farlo, temo per molto altro tempo ancora. La mia, semmai, vuole essere una umile analisi comparativa sulle drammatiche chiusure relazionali e umane che questo ignoto virus sta implementando.

Senza alcuna responsabilità istituzionale, monopolizzare l’informazione con titoli apocalittici riferiti al Corona Virus, a discapito di tutti gli orrori che continuano ad avvenire nel mondo, altro non appare che un boomerang che ci si ritorcerà “d’improvviso” contro. In balia di una Europa silente, affatto coesa, ognuno affronta l’angoscia per l’ignoto virus difendendo il proprio orticello, in piena celebrazione degli istinti e degli egoismi più vigliacchi del genere Homo Sapiens. Vergognosi appaiono gli assalti ai supermercati ed alle farmacie, tristemente le città si assopiscono in una quiete surreale, le attività commerciali, il turismo, i luoghi di aggregazione vengono messe in ginocchio. Il mondo, ancor più di prima, si sente autorizzato a respingere l’altro, senza neanche più domandarsi il perché.

Il Corona Virus decreta l’ufficiale arretramento della nostra civiltà, chiedendoci di mantenerci a distanza, di non stringerci la mano, di addolorarci con garbo, di ignorare tutto resto.

E pensare che, solo poco più in là, tra Grecia e Turchia, in questo dato momento, vi sono circa 130mila rifugiati, per lo più siriani, che tentano disperatamente di salvarsi la vita attraversando, tra botte e lacrimogeni, fili spinati di fame, di freddo, di dolore e di morte.

In Libia, dove vi sono oltre 5mila richiedenti asilo provenienti dall’Africa subsahariana, continuano a perpetrarsi indicibili torture ed omicidi illegali, in arbitrari ed illegittimi centri di detenzione, lager di violenza e di schiavitù. Persone, non dimentichiamolo, adoperate sempre più come una vera e propria bomba umanitaria contro confini scuri di minaccia e di ricatto.

Scioccanti le immagini dei respingimenti a suon di bastonate e fucilate ad opera della Guardia Costiera e delle Forze Armate Paramilitari di questi Paesi. Una mattanza umana senza tregua che continua ad inorridire una Europa che guarda, tace e concede repliche al copione dell’orrore, ormai tristemente noto che, si riproduce in un loop senza tregua.

Siamo noi che stiamo cambiando. E’ il silenzio il Virus che più di tutti dovremmo temere e domani sarà davvero troppo tardi per chiedere scusa alla vergogna che intorno abbiamo creato.

Dinanzi ad uno scenario così avvilente e restrittivo ci siamo arresi alla paura dell’altro, ponendo lucchetti di chiusura, di protezione e di riduzione di  ogni forma di ordinaria reciprocità dando forma e spazio all’isolamento e all’indifferenza.

Con ordinanze discutibili e carenti a tratti di basilare logica e buon senso, possiamo frequentare, con moderazione ed in orari specifici, bar e ristoranti ma, non possiamo andare per musei, partecipare a fiere e convegni, andare in università, a scuola, in palestra, prendere un aereo. Ci siamo ormai dipinti come i nuovi untori che vivono sotto l’assedio virtuale di una subdola angoscia.

A distanza di 75 anni dalla fine dello sterminio nazista degli ebrei, la storia sembra ripetersi in vaste aree non dissimili dai campi di concentramento, luoghi in cui l’unica legge vigente è l’inosservanza  dei diritti umani. Ma come siamo arrivati fin qui? Qualcuno, un giorno non troppo lontano, ci dovrà chiedere contezza di tutto questo scempio! E noi come risponderemo?

Forse che eravamo in preda ad una follia collettiva generata da un Virus? La cosa che appare ormai certa è che, viviamo in un mondo non più sicuro per nessuno in cui tutti siamo sotto l’attacco manipolatore e coercitivo di poteri malsani che ci piegano al silenzio. Ed allora, recuperiamo il nostro dolore, urliamo all’ unisono la nostra più profonda indignazione, tentiamo di considerare la paura come un aspetto umano e naturale ed in tal senso gestiamola, immedesimiamoci ancora nell’altro affinché attorno non vi sia più questo drammatico ed indifferente silenzio.