Chiaroscuro egiziano

di

28 Giugno 2018

Storia dell’Egitto attraverso le parole dei suoi scrittori

Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri.

Antonio Gramsci

Se si dipingesse la storia egiziana moderna e contemporanea, il quadro che prenderebbe forma sarebbe una lunga sequenza di “scene” in chiaroscuro dove la luce del cambiamento, alimentata da promesse e nuove speranze, viene ogni volta offuscata da ombre scure e pesanti che smorzano le tinte vivaci di questo quadro, e sembrano condannare il paese del Nilo a un “destino monocromatico”, un grigio opaco. Negli angoli bui di questo dipinto nascono sempre nuovi regimi retti da “uomini forti” che, anno dopo anno, stanno portando  l’Egitto verso una nuova e tetra sfumatura di colore, il nero intenso.

 

Dopo la prima guerra mondiale, l’Egitto fu posto sotto mandato dalla Gran Bretagna, che già da tempo era presente militarmente nel territorio soprattutto per  assicurarsi il controllo del canale di Suez, inaugurato nel 1869. Il paese da qualche anno era agitato da rivolte nazionaliste che divennero più intense dopo la nuova occupazione straniera e sfociarono, nel 1919, in una vera e propria rivoluzione guidata dal partito nazionalista Wafd (Hizb al-Wafd al-Misri – Partito Egiziano della Delegazione). La rivolta, repressa nel sangue, costrinse però i britannici a concedere l’indipendenza all’Egitto nel 1922. Il nuovo governo, che vide sul trono re Fuad e come primo ministro il fondatore del Wafd, Saad Zaghlul, si dimostrò un fantoccio nelle mani degli inglesi, un nuovo “protettorato camuffato”. Il sentimento anti-britannico e anti-occidentale crebbe e trovò spazio anche nel dibattito culturale egiziano, tutto rivolto in questi anni sull’antinomia tra modernità e tradizione, tra occidentalizzazione e ritorno alle tradizioni, soprattutto religiose. La stampa ebbe un ruolo essenziale in questa vivace querelle intellettuale, nacquero numerose riviste a sostegno delle varie posizioni che stimolarono enormemente anche la produzione letteraria. Il malcontento e la frustrazione popolare furono raccolte da nuove formazioni politiche di ispirazione socialista e comunista ma anche dal nascente partito dei Fratelli Musulmani, fondato nel 1928. Dopo la seconda guerra mondiale, il ruolo decisivo della Gran Bretagna nella nakba palestinese, con la conseguente nascita dello Stato di Israele, rese ancor più insopportabile l’ingerenza inglese sul governo egiziano. Nel 1952, l’organizzazione militare clandestina al-Dubbat al-Ahrar (Liberi Ufficiali), guidata da Gamal Abd al-Naser (conosciuto in Occidente come Nasser), con un colpo di stato abbatté la monarchia e proclamò la repubblica di cui lo stesso Nasser divenne presidente nel 1954.

In foto Gamal Abd al-Naser

Il nuovo ra’is diede il via, secondo un piano di ispirazione socialista, ad una politica di nazionalizzazioni e di pianificazione dell’economia e dell’intero sistema statale egiziano, promuovendo anche la costruzione di grandi opere, come l’imponente diga di Assuan. La vicinanza all’Unione Sovietica, la continua tensione con Israele, ma soprattutto la nazionalizzazione del canale di Suez, nel 1956, provocarono l’attacco tripartito di Francia, Gran Bretagna e Israele all’Egitto che si concluse sostanzialmente a favore di quest’ultimo e accrebbe enormemente la fama del presidente Nasser che diventò un simbolo di rivincita per le masse arabe oppresse dal colonialismo straniero. Fervente sostenitore dell’ideologia panarabista, nel 1958 creò la RAU (Repubblica Araba Unita), un’entità statuale formata dall’unione politica tra Siria ed Egitto, “illuminando” ancora di più le speranze del popolo egiziano e non solo:

A quei tempi leggevo Sati‘ al-Husri e i nazionalisti arabi, e condividevo la fiduciosa certezza di Nasser nella futura rinascita della nostra Grande Nazione. Nella vasta sala della redazione, la famosa frase «un grande Stato che protegge, non minaccia; conduce alla salvezza, non alla rovina», pronunciata in occasione della proclamazione dell’unione con la Siria, pendeva ‘letteralmente’ sulla mia testa.” (Bahaa Taher, Amore in esilio, Illisso, trad. P. Viviani)

La RAU naufragò tre anni dopo la sua fondazione, e la luce abbagliante del ra’is iniziò ad affievolirsi facendo apparire i “lati bui” del suo governo. Il presidente Nasser governò l’Egitto attraverso un capillare sistema di servizi segreti atti a scovare e punire qualunque tipo di dissenso verso la Causa socialista. In accordo con il sistema del partito unico, furono sciolte tutte le altre formazioni politiche; i comunisti e i membri del partito dei Fratelli Musulmani, particolarmente invisi al nasserismo, furono duramente perseguitati. Anche molti intellettuali provarono il carcere durante il governo di Nasser, tra questi il famoso scrittore egiziano Gamal al-Ghitani, che per le sue critiche al ra’is, nel 1966, finì in isolamento nella prigione della Cittadella, esperienza da cui prese spunto per scrivere uno dei suoi racconti brevi, intitolato proprio La Cittadella (in Scrittori arabi del Novecento, Bompiani, a cura di I. Camera D’Afflitto):

Una cella rettangolare lunga quattro piccoli passi e così stretta da non consentire nemmeno di stendere le braccia per fare un po’ di ginnastica. […] Lo spinsero verso un’altra cella che aveva al centro una scrivania, messa a una distanza tale che, chiunque si fosse seduto, non sarebbe riuscito a toccare il bordo della scrivania: era di sicuro una posizione scomoda per aumentare il disagio. Avrebbero cominciato di nuovo a interrogarlo sulla Causa?

L’immagine invincibile della nazione egiziana e del suo apparato militare, mitizzata nell’intero mondo arabo, fu spazzata via in meno di una settimana nel 1967. Nella cosiddetta Guerra dei Sei Giorni, infatti, l’aviazione israeliana sbaragliò completamente l’esercito egiziano, conquistò il Sinai, il Golan e l’intera Palestina. Questa completa disfatta non rappresentò solo una sconfitta militare, ma la totale distruzione degli ideali socialisti e panarabisti, l’annichilimento di ogni possibilità di rivalsa per il mondo arabo. Un senso di profonda frustrazione pervase le società arabe, un sentimento la cui eco continua a risuonare anche nell’attualità. Molti degli intellettuali e degli scrittori della “generazione degli anni ’60” iniziarono ad interrogarsi sulle cause di questa crisi politica e sociale che arrivò al suo apice con l’insediamento del nuovo presidente Anwar Sadat, dopo la morte di Naser nel 1971. Il nuovo presidente attuò una politica liberista, chiamata infitah (apertura), con la quale riaprì il mercato egiziano alle imprese straniere. Eliminò tutti gli elementi del socialismo e dello statalismo dal suo programma di governo, represse ogni possibilità di dissenso, epurando dalla politica nasseriani e comunisti. L’economia del paese crollò in poco tempo, e l’innalzamento del prezzo del pane, nel 1977, scatenò una violenta protesta nella capitale egiziana che il presidente Sadat etichettò in maniera dispregiativa come “Intifada dei ladri”.

Lo scrittore egiziano Bahaa Taher, che dovette lasciare il paese per la sua opposizione al governo,  descrive questa situazione di totale smarrimento e disorientamento nel già citato romanzo Amore in esilio. Il protagonista è un giornalista di un quotidiano cairota inviato come corrispondente in Europa in una sorta di esilio a causa delle sue idee politiche. Costretto a scrivere il meno possibile o ad occuparsi di notizie insulse, questo personaggio è un perfetto ritratto dell’intellettuale egiziano disilluso e tradito dagli ultimi anni della politica nasseriana e da quella del suo successore. Impotente e inerme descrive i giorni della rivolta del pane, interrogandosi sulle responsabilità del suo ruolo, e su quelle di tutta una generazione:

Hai visto? La sollevazione del 18 e 19 gennaio… il popolo è in agitazione […]. L’Egitto vuole sotterrare tra le sabbie del Sahara le scorie radioattive dell’Europa! Pensa un po’! Diciamo parole su parole annodandoci al collo cravatte costose e guardandoci intorno come se ci fossero spie pronte a registrare tutto quello che viene fuori dalle nostre bocche, perché ciò avrebbe fatto cadere il Governo! E se avessimo davvero vissuto la rivoluzione così come ne discutevamo? E se fossimo tornati nei villaggi e nei quartieri poveri, fianco a fianco alla nostra gente, senza discorsi o slogan? Sarebbe veramente tutto finito, morto? […] Abbiamo creduto di aver fatto tutto quanto era in noi, quando ci siamo incontrati nel caffè e abbiamo discusso, gridato, pianto… […] Che senso ha continuare ad andare avanti in questa vita fatta di menzogne? […] Se solo potessi scomparire.

Nello stesso periodo, a cavallo tra il governo di Nasser e quello di Sadat, è ambientato Karnak Café (Il Sole 24 ORE, trad. C. Vatteroni) romanzo breve di Nagib Mahfuz, scrittore egiziano premio Nobel per la letteratura nel 1988. L’epoca di terrore, di “poteri invisibili”, di “spie che aleggiavano nell’aria” è descritta attraverso la metafora di questo café situato tra i vicoli del Cairo; un luogo di discussione, dove nascevano amicizie e amori che all’improvviso viene sconvolto da un tragico evento: l’arresto di quattro giovani avventori del locale. Alcuni di loro verranno rilasciati e torneranno al café stravolti, cambiati, senza più alcuna fiducia nella rivoluzione in cui avevano creduto:

“[…] i loro volti erano cambiati. Con la testa rasata avevano un aspetto strano, e l’antica scintilla giovanile nei loro sguardi era sparita, sostituita da un’espressione apatica. […] Cominciammo a sospettare di tutto, perfino delle pareti e dei tavoli. […] Ero assolutamente meravigliato delle condizioni della mia patria. A dispetto di tutte le scelte sbagliate, guadagnava potenza e prestigio […]. Produceva merci di ogni genere, dagli aghi ai razzi, e instradava l’umanità in una direzione nuova e meravigliosa. Ma a che serviva tutto questo, se il popolo era così debole e oppresso da non contare più nulla, se non aveva diritti civili, onore e sicurezza, e se veniva schiacciato dalla codardia, dall’ipocrisia e dalla desolazione?

Anche Mahfuz, come Taher, punta il dito contro la totale rassegnazione di quella parte della società che, davanti agli abusi dell’autorità, girava il viso altrove. Questi “indifferenti”, come li avrebbe chiamati Antonio Gramsci, rimarranno in silenzio ancora per quasi quarant’anni.

Anche Mahfuz, come Taher, punta il dito contro la totale rassegnazione di quella parte della società che, davanti agli abusi dell’autorità, girava il viso altrove. Questi “indifferenti”, come li avrebbe chiamati Antonio Gramsci, rimarranno in silenzio ancora per quasi quarant’anni

“[…] senza di loro questo locale è insopportabile. Le uniche persone rimaste, ormai, sono quei vecchi che si sono completamente dimenticati degli altri clienti in prigione: eccoli lì che fingono di dimenticare il terrore e la politica seppellendosi nelle preoccupazioni personali.

Sonallah Ibrahim, altro noto scrittore e intellettuale egiziano, nel suo romanzo Le stagioni di Zhat (Calabuig, trad. E. Bartuli) racconta proprio di questi anti-eroi che sembrano non avere potere decisionale sulle loro esistenze governate e dirette dagli avvenimenti politici e sociali. La storia, ambientata tra gli anni ’60 e l’inizio degli anni ’80, in un condominio di un quartiere degradato del Cairo, narra le vicende di Zhat, una ragazza normale che conduce una vita banale e sembra non avere una meta precisa, esattamente come il suo paese. Tra un capitolo e l’altro lo scrittore inserisce stralci di articoli di giornale che danno una visione chiara della società egiziana di quell’epoca, oppressa dalla corruzione, dalla sudditanza economica verso gli Usa, da truffe farmaceutiche e alimentari, dalla disoccupazione e dai continui abusi da parte della polizia. Di fronte a questo tragico scenario, la giovane protagonista non trova altra soluzione se non quella di munirsi di fazzoletti per asciugare le sue lacrime sempre più copiose:

Zhat teneva sempre in borsa un fazzolettino di tessuto con l’orlo ricamato, lo stringeva in pugno quando sudava o quando si confondeva, lo usava per asciugare le secrezioni che le si formavano all’angolo degli occhi […]. E ha continuato a usare quei fazzoletti a dispetto del diffondersi dei loro succedanei di carta […]. Eppure, alla fine, ha dovuto chinare il capo davanti all’implacabile avanzata della civiltà; è successo quando i fazzoletti tradizionali non sono più riusciti a contenere le scorte racchiuse nei suoi condotti lacrimali, ed è stato allora che ha riempito la sua borsetta di un’enormità di moderni surrogati e che si è premurata di averne sempre un pacchetto pieno nel cassetto della scrivania, così da liberarsi di qualsiasi secrezione inopportuna”.

Dopo un periodo di grande fama, grazie alla riconquista del Sinai nella guerra della Yom Kippur, nel 1973, la figura di Anwar Sadat diverrà una delle più odiate nel mondo arabo. Nel 1979, infatti, il presidente egiziano firmò il Trattato di Pace con Israele nonostante la politica coloniale di quest’ultimo verso i palestinesi fosse sempre più brutale. L’Egitto venne isolato dagli altri Stati arabi, e all’interno del paese le proteste, soprattutto dei partiti religiosi, divennero più cruente. Il 6 ottobre del 1981, Sadat venne ucciso durante una parata militare da un membro dell’organizzazione “al-Jihad”, e gli successe come presidente Hosni Mubarak, un nuovo faraone.

Il primo obiettivo del nuovo ra’is fu quello di riconciliare l’Egitto con gli altri paesi arabi facendolo rientrare nella Lega Araba. Il sistema capitalistico introdotto da Sadat fu portato ai massimi livelli da Mubarak, la crisi economica egiziana divenne imponente, mentre la corruzione all’interno del governo e dell’amministrazione pubblica continuava a mortificare ogni tipo di desiderio di progresso sociale. La legge marziale, introdotta dopo l’uccisione dell’ex presidente, diede la possibilità a Mubarak di governare “a mani libere”, limitando ancor di più la libertà di stampa e introducendo un sistema elettorale (con candidato unico) grazie al quale la sua rielezione, per trent’anni, diventerà facilmente pronosticabile. Sotto il governo di Mubarak, il paese vedrà anche il diffondersi del fanatismo religioso, alimentato dall’ingiustizia diffusa e dalla repressione del regime. Lo scrittore Ala al-Aswani, nel suo romanzo Palazzo Yacoubian (Feltrinelli, trad. B. Longhi), uscito in Egitto nel 2002, attraverso le vicende degli inquilini di questo antico edificio del Cairo, riesce a disegnare un quadro preciso di questa nuova società egiziana, vessata però dai problemi di sempre. Ogni personaggio è simbolo di una particolare condizione e problematica; Taha Shadli, figlio del portiere del palazzo, è un eccellente studente con il sogno di entrare nell’accademia di polizia dalla quale però verrà scartato a causa dell’umile lavoro di suo padre. Frustrato e disilluso si avvicinerà all’estremismo islamico. La sua fidanzata, Buthayna Sayed, dopo la morte del padre sarà costretta ad accettare le avances del suo datore di lavoro per poter mantenere la sua famiglia. Hatim Rachid, intellettuale e giornalista, è costretto a nascondere la propria omosessualità per poter continuare a lavorare e vivere serenamente. E infine, Hagg ‘Azzam, ex lustrascarpe arricchitosi con corruzione e affari illeciti, che spera di poter diventare un politico. Le parole, che Ala al-Aswani fa pronunciare nel romanzo al segretario del partito nazionale egiziano, riassumono la condizione di immobilismo di questa società:

La gente sa che falsifichiamo le elezioni?… io direi di no. Abbiamo studiato a fondo la psicologia del popolo egiziano. Dio ha creato questo popolo per essere dominato.”

Hosni Mubarak e Anwar Sadat

E perché no?! Abbiamo provato di tutto. Provammo il re e non funzionava, provammo il socialismo con Nasser e nel pieno del socialismo ci stavano i gran pascià dell’esercito e dei servizi segreti. Poi provammo una via di mezzo e alla fine siamo arrivati al capitalismo che però ha i monopoli, il settore pubblico che scoppia, la dittatura e lo stato d’emergenza. E ci hanno fatto diventare pure un poco americani e tra poco pure israeliani; e allora perché non proviamo pure i Fratelli Musulmani? Chi lo sa, va a finire che funzionano.

Febbraio 2011, Piazza Tahrir. Foto di Jean Claude Coutausse

Queste ultime parole sono una profezia di quel che accadrà qualche anno più tardi, nelle elezioni post rivoluzione.
Dal 2001 in poi, le proteste di piazza in Egitto sono costantemente aumentate. L’evidente difficoltà del regime si è palesata con qualche falso tentativo di riforma per tenere a bada i cittadini, o con atti “scomposti”: l’inasprimento della censura e della repressione. Il presidente Mubarak ha sempre mantenuto stretti rapporti politici ed economici con l’Occidente, proponendosi come figura “stabilizzatrice” del Medio Oriente e come paladino della laicità e della democrazia. Ma la situazione all’interno del paese è sempre stata diversa. Ad esempio, lo scrittore Muhammad Abd al-Nabi, nel suo romanzo Fi ghurfa al-‘ankabut (Nella stanza del ragno), uscito nel 2017, ha raccontato la vergognosa vicenda avvenuta a maggio del 2001, e nota come “Cairo 52”; a bordo del night club “Queen Boat”, frequentato abitualmente da omosessuali, vennero arrestati cinquantadue uomini accusati di “corruzione abituale”, “condotta oscena” e “vilipendio alla religione”, e sottoposti a “esami” per provare la loro omosessualità. Nel 2010, solo un anno prima dello scoppio della rivoluzione, è stato inoltre censurato il primo graphic novel  egiziano, Metro (Il Sirente, trad. E. Pagano), del blogger Magdi al-Shafee. Tutte le copie sono state ritirate e la casa editrice Malameh è stata condannata a pagare un’ammenda perché, come si legge nel verbale, alcuni personaggi ritratti possono facilmente essere riconducibili a uomini politici esistenti. La storia, che si svolge quasi completamente nelle stazioni della metro che portano i nomi di Nasser, Sadat e Mubarak, è ancora una volta un racconto di frustrazione, corruzione e abusi, con un duro attacco ai mezzi di informazione colpevoli di falsificare la realtà a favore del regime,  anestetizzando i cittadini.

Nel 2011, sull’onda delle proteste scoppiate in Tunisia, anche le piazze del Cairo si sono infiammate. La violenta risposta del governo non è riuscita a fermare la rivolta che si è allargata ad altre città egiziane costringendo Mubarak a dimettersi. In quei giorni, una luce abbacinante aveva dato l’impressione di poter rischiarare la futura Storia egiziana. Nel 2012, dopo un breve governo militare, le elezioni hanno sancito la vittoria del partito dei Fratelli Musulmani. La disastrosa situazione economica, aggravata dal crollo del settore turistico, la decisione del neo eletto presidente Morsi di attribuirsi ampi poteri in ambito giudiziario e la paura di una islamizzazione del paese, hanno però riacceso le proteste e portato al governo con un colpo di Stato il generale al-Sisi. Un buio intenso è calato sull’Egitto. Dal 2014, anno della salita al potere del nuovo presidente, favorevolmente salutato dai governi europei e americano, gli arresti arbitrari e le torture ai danni degli oppositori politici e non sono triplicati.

Latuff Cartoons - al-Sisi Collective death sentences -

A gennaio 2016, la morte del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni sembrava poter riaccendere i riflettori internazionali sugli abusi perpetrati sotto il governo del generale, ma gli interessi economici dell’Italia (e dell’Europa) in Egitto hanno allontanato la possibilità di una seria inchiesta internazionale. Sempre nel 2016 lo scrittore Ahmed Nagi è stato arrestato con l’accusa di “oscenità” in riferimento al suo romanzo Vita: istruzioni per l’uso (Il Sirente, trad. E. Rossi, F. Fischione). Dopo alcuni mesi di carcere, grazie a una mobilitazione internazionale è stato scarcerato.
Il paese del Nilo, da oltre sessant’anni, sembra ricoperto da una pesante nebbia che riesce spesso a oscurare completamente quella luce che magari a fatica era filtrata. Questa coltre, che copre città e abitanti, immobilizza la società, e la riporta sempre al punto di partenza

Gli uomini vendono, comprano, pisciano e la catena della produzione gira sempre, nonostante la ressa. Se volassi come un’aquila, dall’alto la scena ti si presenterebbe proprio così, ma se, al contrario, sei solo un ragazzo, o un topolino che gira nell’ingranaggio di produzione, in realtà non ti muoveresti affatto dal posto in cui ti trovi adesso. Andresti al lavoro e lo porteresti a termine, riceveresti forse uno stipendio discreto, ma non avresti mai la sensazione di aver raggiunto alcun risultato e, quand’anche accadesse, non si smuoverebbe mai nulla.” (Ahmed Nagi, Vita: Istruzione per l’uso)