Libia: un racconto incompiuto

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28 Giugno 2018

Tra colonialismo e migrazioni, le parole setacciate tra il deserto della dittatura e dell’incomprensione

I conflitti e gli sconvolgimenti politico-sociali derivati dal fenomeno delle “primavere arabe” scoppiate nel 2011, il sistema del mercato globale che sta causando il collasso di molte economie di sussistenza, i cambiamenti climatici e l’apertura di nuovi fronti di guerra in Africa, hanno inevitabilmente prodotto un aumento dei flussi migratori verso l’Europa. Tutti questi fattori, apparentemente slegati fra di loro, sono invece segmenti che compongono un lungo e ininterrotto “racconto” di sfruttamento umano e materiale che ha spesso trasformato i colonizzati di ieri nei migranti di oggi. L’Europa, di fronte a questa nuova ondata migratoria, non ha saputo far altro che rinchiudersi nella propria “fortezza”, abdicando ai principi di accoglienza e salvaguardia dei diritti umani, che dovrebbero essere alla base della sua fondazione, e in sostanza autoassolvendosi da una Storia che la vede invece ancora tra i principali protagonisti. Per tentare di fermare i flussi migratori, recentemente l’Italia ha stipulato una serie di accordi con il governo libico (come già aveva fatto nel 2008 sotto il regime di Gheddafi) andando fondamentalmente a finanziare un sistema corrotto e ambiguo e condannando centinaia di persone a un destino di torture e morte nei vari centri di detenzione.

Sarebbe significativo forse oggi sottolineare come, ad esempio, proprio i “legami storici” tra l’Italia e la Libia siano principiati da un “flusso migratorio opposto”,  il “movimento della grande proletaria”, come veniva chiamata dal poeta italiano Giovanni Pascoli, in altre parole dall’inizio della colonizzazione italiana della Libia.

Ancora una volta la letteratura degli altri può rappresentare il necessario elemento “disturbante”, capace di mostrare la continuità dei processi storici ma anche la loro discontinuità, mandando in tilt le comode pratiche di rimozione storica e autoassoluzione. Il cambiamento di prospettiva dello sguardo letterario è spesso l’unico mezzo per “rompere il confinamento, (ri)trovare corpi, voci e memorie alla deriva e tracciare cartografie aperte” (Tripoli era dolce per gli italiani. Conflitti coloniali e cartografie post-coloniali nella trama italo-libica, R. Derobertis, PLAT. Quaderni del Dipartimento di Pratiche Linguistiche e Analisi di Testi, Anno VIII – n. 2/2009 ).

 

Dopo quasi  quattro secoli di governo ottomano, il territorio libico divenne mira degli appetiti coloniali europei. L’Italia, infatti, alla fine del XIX secolo, prima con il governo Crispi e poi con quello Giolitti, diede il via in Libia ad una politica di “infiltrazione pacifica” atta a preparare il terreno all’occupazione militare. Questo progetto prevedeva l’inserimento di elementi italiani in campo culturale ed economico, la fondazione di giornali e la costruzione di scuole con lo scopo di “italianizzare” il popolo libico cancellando le sue radici berbere e arabe, e presentando la Libia – attraverso la solita retorica coloniale – come la “terra promessa degli italiani” in quanto eredi dell’Impero romano.

Nel 1911 l’Italia dichiarò guerra all’Impero turco e, nel 1912, con la pace di Losanna, la Libia divenne colonia italiana.

Nel periodo ottomano, nel paese non vi erano altri centri culturali oltre ai kuttab, le scuole coraniche, in cui si imparava a leggere e scrivere, ma che non erano in grado di fornire un’istruzione adeguata alla popolazione.

Arresto di Omar al-Mukhtar

Una funzione importante, a questo proposito, fu quella svolta dalla confraternita sunnita dei senussi che, oltre ad organizzare la resistenza anti-italiana, soprattutto nelle zone desertiche, si assunse il compito di diffondere i principi basilari per la nascita di una coscienza nazionale.

All’interno di queste confraternite iniziò anche a svilupparsi una certa attività culturale e letteraria con una particolare attenzione alla poesia che divenne lo strumento per denunciare le brutali violenze coloniali. Tra i più famosi poeti dell’epoca spicca il nome di Ibrahim al-Usta Umar i cui versi di sofferenza e di lotta divennero noti in tutto il paese.

Prigioniero, rinchiuso in gabbia,
grida di dolore tutto il giorno,
ripete le amare note dei lamenti
[…]
Ricorda il ramo che dondolava,
su cui cinguettava con affetto.
Adesso, invece, nel dolore della prigione
si strugge di nostalgia, si lamenta
e spera.
(L’uccello prigioniero, in La letteratura della Libia, E. Diana, Carocci)

Nel 1922, con l’ascesa del fascismo, iniziò una delle pagine più buie del colonialismo europeo, una pagina ancora oggi colpevolmente rimossa dai libri di storia italiani, una frattura del racconto che ha inevitabilmente influenzato e viziato il dibattito politico e culturale anche attuale.

Il generale Rodolfo Graziani, con bombardamenti all’iprite e la creazione di veri e propri lager, portò a termine in Libia quello che Angelo Del Boca ha definito un “autentico genocidio”. Il filo spinato, la morte e i campi di concentramento, dopo essere entrati nella vita del popolo libico, inevitabilmente entreranno anche come temi nei racconti letterari.

Giunto in vista del villaggio si era reso conto che anch’esso era circondato dal filo spinato e presidiato dai soldati di Graziani, armati di fucili. Aveva provato una fitta al cuore. Assalito dalla disperazione, aveva fatto dietro front, riguadagnando in fretta il deserto per dirigersi alla volta del confine, là dove c’era il filo spinato. In quegli anni il filo spinato, così come le forche, era stato piantato ovunque.”
(Ibrahim al-Koni, Una grande oasi in festa, in La patria delle visioni celesti, Edizioni e/o, trad. A.Barbaro e I. De Cristofaro)

Ibrahim al-Koni, nato nel 1948, è uno dei più famosi scrittori libici e uno dei pochi che ha visto le sue opere tradotte in molte lingue europee.

Nei suoi romanzi e nei suoi numerosi racconti brevi descrive soprattutto il deserto, carico di significati simbolici, i suoi ritmi lenti e quasi mistici, e quella società beduina devastata dalla colonizzazione italiana.

Si diceva che la fame avesse sterminato metà della tribù in quegli anni. […] Gli italiani avevano annientato la resistenza sulla costa e iniziato a devastare il Gebel, preparando così la strada alla loro invasione a sud. […] Gli italiani avevano devastato il deserto meridionale e le battaglie si erano svolte nelle sabbie di Zalàf. I combattenti, i mugiahidin, subirono gravi perdite e furono costretti a ritirarsi verso sud; gli aggressori si trovarono così la strada spianata per entrare nelle oasi. La dolorosa notizia della disfatta aveva preceduto di qualche giorno il loro arrivo nell’oasi; si raccontavano storie di punizioni esemplari che crearono uno stato di scompiglio, così i nomadi se ne andarono, le tribù si dispersero.
(Ibrahim al-Koni, Il voto della vergine, in La patria delle visioni celesti, Edizioni e/o, trad. A. Barbaro)

Nel 1931 fu catturato e impiccato, dopo un processo farsa, il senussita Omar al-Mukhtar, capo della resistenza che, una volta rimasta senza la sua guida , non poté far altro che arrendersi completamente all’esercito italiano.

Le confraternite senussite vennero chiuse e i loro beni confiscati.  Inevitabilmente la brutalità coloniale arrestò anche lo sviluppo culturale del paese che proprio in quegli anni, a fatica, stava tentando di costruire la propria identità sociale e nazionale sotto la spinta del fermento intellettuale che arrivava dall’Egitto e dal Medio Oriente, e noto come nahdah.

Dopo la seconda guerra mondiale e la caduta fascismo,  la Libia fu amministrata dalle forze alleate fino al 1951, anno dell’indipendenza del paese e della salita al potere di re Idris I. Il monarca posto sul trono da Gran Bretagna e Francia, portò avanti negli anni una chiara politica di apertura verso i due paesi, anche dopo l’intervento militare britannico nella crisi di Suez, creando non poco scontento tra i nazionalisti libici, vicini al nasserismo egiziano.

Il primo settembre 1969 proprio un gruppo di ufficiali nasseriani, guidati dal colonnello Muammar Gheddafi, depose il re con un colpo di Stato, proclamando la nascita della Repubblica Araba di Libia.

Gheddafi si pose alla guida del governo provvisorio, diede il via alla nazionalizzazione di tutte le imprese straniere del paese, chiuse le basi militari britanniche e statunitensi, e nel 1970, dopo averne confiscato i beni, espulse tutti gli italiani. Nel 1977 la Libia divenne una Jamahiriyya  “governo delle masse”, termine coniato dallo stesso Gheddafi, e si trasformò rapidamente in un sistema dittatoriale. Il ra’is, con un colpo di teatro, rinunciò a qualunque carica di governo, rimanendo però sostanzialmente unico vero comandante, con il titolo di Guida della Rivoluzione.  La filosofia del nuovo regime era definita nel Libro Verde, un testo scritto sempre dal ra’is, in cui sono confusamente mescolate idee del socialismo arabo, shari‘a  e convinzioni tradizionali. Con l’allettante slogan “nessuna rappresentanza al posto del popolo”, Gheddafi smantellò il parlamento, i partiti politici, i sindacati, i giornali, e ridusse al silenzio tutti gli oppositori, definiti traditori del popolo, che spesso subivano processi e pestaggi in televisione e venivano giustiziati pubblicamente.

La trasmissione era una replica di quella che avevo visto all’ora della siesta, ma adesso era sera, e tutti quanti erano svegli per vederla. – Era presente all’incontro? – Ustadh Rashid esitò, poi annuì e disse: – sì, ero presente -. […] Poi l’inquadratura cambiò […] apparve un uomo seduto a una scrivania cosparsa di fogli. Poteva sembrare un giornalista, ma dagli abiti e dalla capigliatura riccia a forma di elmetto capii che era un membro del Comitato rivoluzionario.
– Mele marce, – disse nell’abituale tono forte e abbaiato delle dichiarazioni del Comitato.
– Abbiamo scoperto i traditori invidiosi che disprezzano la nostra rivoluzione. Noi del Comitato rivoluzionario, i Guardiani della Rivoluzione, abbiamo catturato tutti i membri di questo gruppo deviato e coloro che li proteggevano e finanziavano. Li puniremo severamente […] Il nemico è stato sconfitto. Viva la nostra Guida, viva la rivoluzione di Settembre! […] Due uomini arrivarono alle spalle e lo sollevarono per le ascelle. […] La folla stava saltando adesso, saltando e ululando: Impiccate il traditore! Impiccate il traditore!
(Hisham Matar, Nessuno al mondo, Einaudi, trad. A. Sirotti)

Nessuno al mondo di Hisham Matar, scrittore di origine libica cresciuto negli Stati Uniti, attraverso la storia del piccolo Suleiman, descrive la Libia degli anni ’70, e la repressione nel sangue dei tentativi di ribellione al regime.

Il padre del giovane protagonista viene arrestato e ridotto in fin di vita, accusato di azioni sovversive contro la rivoluzione e la sua guida. La Libia di Gheddafi era ormai diventata paese in cui per sopravvivere era necessario chinare la testa o andarsene.

– È nostro dovere chiamare l’ingiustizia con il suo nome.
[…] Qui puoi scegliere solo tra il silenzio o l’esilio, tra camminare lungo i muri o andartene. Va’ a fare l’eroe da un’altra parte.
– Fino a quando, e per quanto tempo dovremo chinare la testa?
– Finché Dio non viene salvarci, nulla è eterno.
(Hisham Matar, Nessuno al mondo)

La famiglia di Suleiman, per poterlo proteggere da quella follia, sceglierà per lui proprio l’esilio, destino comune a molti libici, un esilio che salva la vita ma soffoca l’anima.

Soffro di un’assenza, un’onnipresente assenza, come un orfano non del tutto sicuro di cosa abbia perso o guadagnato col suo lutto non scelto. […] L’Egitto non ha sostituito la Libia. Al suo posto, invece, c’è questo vuoto, quest’assenza che tento di controllare come chi ha paura del buio e cerca un fiammifero da accendere. […] Come siamo pronti e adattabili a procurarci queste identità fittizie, ingannando il mondo e quello che avremmo potuto essere se solo non ci fossimo messi in mezzo, se solo avessimo aspettato di vedere cosa ne sarebbe stato di noi.”
(Hisham Matar, Nessuno al mondo)

L’esilio, la repressione, e la figura del padre sono elementi presenti anche nell’ultimo lavoro di Hisham Matar, Il ritorno, (Einaudi, trad. A. Nadotti) in cui lo scrittore questa volta narra la propria storia e quella della sua famiglia, fuggita dal paese dopo la proclamazione della Jamahiriyya. Il romanzo inizia nel 2011, dopo la caduta di Gheddafi, anno in cui Matar ha avuto finalmente la possibilità di ritornare in Libia per tentare di scoprire quale sorte fosse toccata a suo padre, Jaballa Matar. Oppositore del regime, il padre dello scrittore fu infatti sequestrato nel 1990 mentre si trovava a Londra,  e richiuso nella prigione di Abu Salim a Tripoli, luogo conosciuto come “«l’ultima fermata», il posto dove il regime spediva coloro che intendeva dimenticare.”

Dall’aereo, la Libia appare a Matar come una terra offesa, le cui ferite non perfettamente rimarginate potrebbero sanguinare ancora, una terra sognata e idealizzata nei lunghi anni d’esilio.

Ed eccola, la terra. Ruggine e giallo. Il colore della pelle appena cicatrizzata. […] E all’improvviso il mare della mia infanzia. Quanto spesso gli esuli romanticizzano il paesaggio della patria. Ho sempre evitato di farlo. Niente mi irrita più di un libico che si sdilinquisce sul «nostro mare», «la nostra terra», «la brezza del suolo natio». Dentro di me, peraltro, non avevo mai smesso di pensare che la luce di laggiù non ha eguali. Ai miei occhi ogni mare, per quanto bello, sembrava un impostore.

Narrando la storia della sua famiglia, Matar narra la Storia della Libia, dalla colonizzazione italiana sino alla rivoluzione del 2011. L’emozione del ritrovare i luoghi di infanzia si mescola ad uno sguardo amaro che svela la condizione del suo popolo, mai libero di autodefinirsi e autodeterminarsi, rimasto “incompiuto” come gli edifici nel paese.

“[…] l’incompiutezza di gran parte dell’architettura moderna in Libia mi ha sempre messo a disagio. Esprime l’abbandono assai più, ad esempio, delle rovine o di vecchie strutture decadenti. […] Questi edifici lasciati a metà mi sembrano più un affronto, più offensivi e addirittura più opprimenti di un edificio finito e crollato in tempi difficili. È un fenomeno così diffuso – muri esterni senza intonaco, grezzi – che è difficile non vedervi una mancanza di autostima. Le nostre case non finite, in altre parole, sono un riflesso del nostro presente. Come noi le abbiamo definite, così loro definiscono noi.

Nel 1996 il regime di Gheddafi massacrò più di mille persone all’interno del carcere di Abu Salim, ed è in questa circostanza che molto probabilmente, secondo le ricerche dello scrittore, morì anche suo padre Jaballa.

La violenta politica interna degli anni ’80 e ’90, coincise con una altrettanto sconsiderata e folle politica estera. Nel 1988 la Libia fu anche posta sotto embargo economico perché il regime di Gheddafi fu riconosciuto responsabile dall’Onu di un attentato aereo in cui morirono più di duecento persone.

Foto di Rory Mulholland

Alla fine degli anni ’90 il ra’is, in difficoltà a causa delle restrizioni economiche, decise un astuto cambio di rotta in politica estera e ottenne la fine dell’embargo e la ripresa dei rapporti diplomatici con Europa e Stati Uniti. Quello che non era assolutamente mutato era l’atteggiamento del regime verso il popolo libico, sottoposto a repressione e censura.  La continua e completa violazione dei diritti umani in ogni sua espressione non impedì però all’Italia, nel 2008, di firmare con il regime di Gheddafi il Trattato di amicizia e partenariato che prevedeva un “indennizzo” alla Libia per i danni coloniali e in cambio il regime del ra’is si impegnava a  coadiuvare la marina italiana nel pattugliamento delle coste per fermare i flussi di migranti.

Nel 2011, il terremoto delle primavere arabe ha colpito anche la Libia, Muammar Gheddafi e il suo regime sono crollati. Europa e Stati Uniti, anche questa volta, sono “entrati” nella storia libica bombardando.

Nei giorni del fermento rivoluzionario, la felicità e la speranza per un futuro di libertà hanno trovato spazio nei versi di  Ashur al-Tuwaybi, uno dei più famosi e attivi poeti libici contemporanei. Quelle che durante il regime erano parole tabù, vengono pronunciate finalmente senza paura e a voce alta.

Dal balcone della mia stanza da letto che affaccia su un palmeto e su una strada angusta e polverosa, sento le voci di ragazzi tra i quindici e i diciassette anni. Tra queste spicca quella di mio figlio, studente dell’ultimo anno delle superiori. Le loro voci s’alzano e si intrecciano con fervido entusiasmo. Mi metto ad origliare attentamente e mi accorgo che discutono della Libia del dopo-Gheddafi. Noto che ripetono parole come: democrazia, giustizia, uguaglianza, tolleranza, ingiustizia, dittatura, rivoluzione, ribelli, partiti, ideologia, società civile.
Uno di essi vuole guadagnare il consenso generale su ciò che dice, e gli altri sono divisi tra sostenitori e oppositori. Sette mesi prima o poco più, nessuno di loro avrebbe parlato di simili questioni – tanto meno ci avrebbe pensato.
Niente paura per la sorte di questi futuri uomini.
(Ashur al-Tuwaybi, Non restare ancora fermo alla mia porta con il vento alle spalle, trad. S. Sibilio)

Dopo sei anni, la profonda ferita libica fatica a rimarginarsi, una ferita generata da una lunga Storia in gran parte occultata e obliata per tentare di rimuovere colpe e responsabilità. La caduta del regime non è bastata a portare pace e libertà al popolo libico, perché troppo spesso “La libertà è un lungo cammino pieno di sangue.” (Ashur al-Tuwaybi, Non restare ancora fermo alla mia porta con il vento alle spalle)

Ora sembra come se nulla fosse accaduto, come se nulla fosse mutato.
Sono cambiate le bandiere e gli slogan, cambiati i prigionieri e chi sta seduto dietro le armi.
Ma la nostra mente e la nostra anima sono cambiate? Di sicuro no.
Questo non è ancora accaduto. La strada che ci accompagnerà verso una società moderna sarà lunga e tortuosa. Una società che con onestà dica a chi sbaglia che ha sbagliato, a chi ruba che è un ladro. Una società che rende i diritti ai suoi detentori senza favori.
(Ashur al-Tuwaybi, Non restare ancora fermo alla mia porta con il vento alle spalle, trad. S. Sibilio)

Rivoluzione libica, 2011. Foto di Alfred Yaghobzadeh.