Dai finanzieri ai mercanti: i bassi salari di Germania e Cina

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9 Giugno 2018

La terza puntata del Glossario del Capitalista Moderno esplora la questione salariale dietro la forza economica di Germania e Cina

Da sei anni Anja pulisce pavimenti e lava piatti per due euro all’ora. È sbigottita di fronte ai giornali che inneggiano al “miracolo del lavoro” tedesco.
“The dark side of Germany’s jobs miracle”, Sarah Marsh e Holger Hansen, Reuters, 8 febbraio 2012.

“Lavoro alla macchina che modella la plastica dalle 6 del mattino alle 6 di sera”, dice Xu Wenquan, un minuto sedicenne con il viso di un bambino e le mani coperte di bruciature. Quando gli si chiede cosa gli è successo alle mani, risponde che “me le sono scottate, le macchine sono roventi”. Suo fratello, Xu Wenjie, 18 anni, racconta che sono venuti quattro mesi fa da un piccolo villaggio del Guizho, provincia molto povera della Cina, camminando oltre 800 km per lavorare alla Huanya [fabbrica che produce decorazioni natalizie per Wal-Mart]”.

David Barboza, In Chinese Factories, Lost Fingers and Low Pay, New York Times, 5 gennaio 2008.

Come abbiamo visto nelle puntate precedenti di questa rubrica, il capitalismo è un sistema intrinsecamente contraddittorio: se da una parte il suo motore è il profitto e il mantenimento di elevati profitti richiede il contenimento dei salari, dall’altra salari troppo bassi riducono il potere di acquisto di chi dovrebbe assorbire beni e servizi prodotti e con ciò permettere l’effettiva realizzazione dei profitti.

Abbiamo anche visto come a partire dall’inizio degli anni ’80 del secolo scorso tale contraddizione sia esplosa in molte delle più grandi economie del mondo. I dati forniti dal Fondo Monetario Internazionale[1]  ci dicono che tra il 1980 e il 2010 nei paesi del G7 – con l’aggiunta della Spagna – la crescita dei salari reali sia stata sistematicamente più lenta di quella della produttività del lavoro.

Questo significa che per 30 anni filati ai lavoratori non sono stati integralmente riconosciuti gli incrementi della loro produttività, il che naturalmente spostava la distribuzione del reddito in favore del capitale e creava un enorme problema di domanda, di smaltimento della produzione.

Abbiamo già illustrato la risposta “americana” a questo problema, fondata sull’indebitamento.

La banca centrale statunitense ci dice che tra il 1996 e il 2007, dunque nel decennio che ha preceduto (e preparato) la grande crisi, il debito delle famiglie statunitensi è cresciuto di un impressionante 32 percento del PIL. Per capire l’ordine di grandezza, è sufficiente osservare che tra il 1970 e il 1980 il debito delle famiglie nordamericane crebbe solo del 6 per cento rispetto al PIL[2].

D’altra parte, abbiamo detto che se non ti pagano abbastanza ti devi indebitare. E se ti devi indebitare, la finanza (banche, società finanziarie, ecc.) prospera, perlomeno sino a quando i debitori riescono ad onorare i propri obblighi di ripagamento.

 

Dovrebbe tuttavia essere chiaro che attribuire la colpa di quanto accaduto alla finanza e ai suoi magheggi (che pure esistono e che nella puntata precedente abbiamo cercato di descrivere almeno in modo generale) è insensato, è il classico giochetto del capro espiatorio.

Questo va sempre tenuto a mente per non farsi gettare troppo fumo negli occhi e non accettare il punto di vista oramai così diffuso secondo il quale basterebbe imbrigliare con qualche regola più severa banche e finanzieri e tutto andrebbe a posto. Fatto fuori il cattivo gnomo di Zurigo, i problemi sarebbero risolti.

La seconda risposta al problema dello smaltimento della produzione indotto dal peggioramento della distribuzione dei redditi ci porta invece in Cina e in Germania. Apparentemente due economie che hanno poco in comune, ma con meccanismi di funzionamento assai simili che vengono generalmente definiti “neo-mercantilisti”.

Innanzitutto, anche in Germania e Cina si è dato un problema di scollamento fra dinamica del salario reale e della produttività del lavoro. In Germania il problema si è manifestato a partire dal 1996 e, con particolare vigore, tra il 1996 e il 2007.

Secondo i già citati dati forniti dal Fondo Monetario Internazionale, in quel decennio, che coincide prima con la preparazione e poi con l’effettiva entrata nell’euro, i salari reali dei lavoratori tedeschi crescono dello 0,8% all’anno, mentre il tasso di crescita annuale della loro produttività è dell’1,8%. A beneficiare degli incrementi di produttività sono dunque soprattutto i capitalisti tedeschi e la quota salari sul PIL corrispondentemente casca.

Il problema si fa particolarmente drammatico negli anni del governo socialdemocratico guidato da Gerard Schröder, artefice delle note riforme del mercato del lavoro servite all’introduzione dei cosiddetti “mini” jobs e alla flessibilizzazione dei “maxi”: la quota salari crolla di 5 punti percentuali in 5 anni, un record assoluto e ad oggi ineguagliato nella corsa al regresso.

Quanto alla Cina[3], si tratta di un paese nel quale da sempre la quota salari sul PIL è più bassa di quanto non sia nella media dei paesi OCSE; quel che conta ai fini del nostro discorso, tuttavia, è che nel corso dell’impetuoso processo di sviluppo industriale del gigante asiatico e sino al 2010 tale quota, già bassa, continua a diminuire.

Neppure ai lavoratori cinesi, sino al 2010, venivano dunque integralmente riconosciuti gli incrementi di produttività. In questo caso però non occorre invocare nessuna riforma del mercato del lavoro.

Il fatto è che lo sviluppo industriale cinese è stato alimentato da un immenso, sterminato “esercito industriale di riserva”: donne e uomini che in massa migravano dalle campagne alle città e offrivano la propria forza lavoro a imprenditori che si trovavano in posizione di forza: se tu non ci stai perché il salario ti sembra troppo basso, là fuori ce ne sono mille che aspettano. Un esercito industriale di riserva, appunto. Oppure, secondo l’espressione coniata negli anni ‘50 dal celebre economista dello sviluppo Sir Arthur Lewis, una crescita industriale resa possibile da una “disponibilità illimitata di lavoro”.

 

 

Il 2010 può forse essere considerato un punto di svolta: prima o poi l’esercito si assottiglia, la disponibilità di lavoro comincia a essere limitata e i lavoratori e chi cerca di difenderli possono rialzare la testa. Ma anche altri cambiamenti possono verificarsi a seguito nelle dinamiche socio-economiche, come stiamo vedendo in questi giorni con la serie di espulsioni e demolizioni di unità abitative informali che sta avendo luogo a Pechino. Questa tuttavia è un’altra storia e andrà raccontata in un altro momento.

Ciò che accomuna Cina e Germania non è allora la ragione per cui, in entrambi i casi, per lungo tempo la distribuzione peggiora a danno dei lavoratori. Il comune denominatore sta invece nella risposta che queste due grandi economie danno al problema del vendere merci in un contesto di peggioramento distributivo.

Anche i tedeschi e cinesi, come i nordamericani, pagano poco i lavoratori (relativamente alla loro produttività), ma non si preoccupano che le banche concedano loro il credito necessario a smaltire la produzione, no.

Il fatto è che tedeschi e cinesi sono stati persino relativamente più duri degli “altri” (Stati Uniti, altri Paesi europei, ecc.) a schiacciare la dinamica salariale al di sotto della crescita della produttività del lavoro e dunque, rispetto a questi “altri”, hanno guadagnato competitività internazionale.

Il costo per unità di prodotto (dato proprio dal rapporto fra salario reale e produttività del lavoro) della produzione tedesca e cinese diminuisce cioè più rapidamente di quello delle vostre economie (oppure, ma non cambia nulla, cresce più lentamente) e quindi riescono a piazzarla all’estero, sui mercati internazionali.

Insomma, non hanno bisogno che le loro banche concedano crediti ai loro lavoratori affinché possano acquistare le molte merci che producono dal momento che le vendono all’estero, agli “altri”. Creando all’interno delle loro economie delle profonde disparità tra chi opera nel settore dell’export e chi invece rimane confinato in attività a bassa produttività che si accompagnano a bassi e precari salari. Un fenomeno, questo sempre più evidente anche in Italia, come paiono confermare i dati al momento disponibili.

Questo è il neo-mercantilismo. Un modello di sviluppo fondato sulle esportazioni, che spiegheremo meglio nella prossima puntata.

 


[1] “International Financial Statistics”, gennaio 2013.
[2] “L’Italia può farcela”, Alberto Bagnai, 2014, il Saggiatore.
[3] I dati di seguito riportati sono tratti da https://piie.com/blogs/china-economic-watch/chinas-rebalance-reflected-rising-wage-share-gdp