Intervista a Giuseppe Conte

di

21 Gennaio 2020

Segni di percorrenza, tratto quarto

In realtà, ogni cosa che accade, avviene in mondi e modi incalcolabili.  La poesia permette che tutte le cose accadano allo stesso essere umano e che quell’essere umano forse siamo noi. È, in qualche modo, l’assicurazione necessaria che la vita di ognuno appartenga allo stesso mondo, di ogni tempo. E sul quale, qui e ora, abbiamo facoltà di lavorazione. La serie di queste interviste rappresenta un dialogo polifonico attorno a un vero, presunto o necessario ruolo sociale e umano della poesia, tra racconto e cambiamento.

 

 

Il complice

Mi crocifiggono e io devo essere la croce e i chiodi.
Mi tendono il calice e io devo essere la cicuta.
Mi ingannano e io devo essere la menzogna.
Mi bruciano e io devo essere l’inferno.
Devo lodare e ringraziare ogni istante del tempo.
Il mio nutrimento sono tutte le cose.
Il peso preciso dell’universo, l’umiliazione, il giubilo.
Devo giustificare ciò che mi ferisce.
Non importa la mia fortuna o la mia sventura.
Sono il poeta.

J. L. Borges

poeta
Giuseppe Conte è nato a Imperia nel 1945. Si è laureato in Lettere presso l’Università Statale di Milano, ed è stato collaboratore di riviste letterarie, redattore della rivista Il Verri diretta da Luciano Anceschi, assistente universitario di Estetica a Milano con il Prof. Dorfles e di Letteratura Italiana a Torino con il Prof. Barberi Squarotti, e docente nelle Scuole Superiori. Abbandonato l’insegnamento, si è poi dedicato a tempo pieno all’attività di scrittore. Esordisce nel 1972 con un volume come “La metafora barocca” (Mursia editore), destinato a diventare un punto di riferimento costante per gli studi secenteschi, e nel 1979 in poesia con “L’Ultimo aprile bianco” (Guanda, Società di Poesia), cui seguirà nel 1983 “L’Oceano e il Ragazzo”, uscito direttamente nei tascabili della BUR di Rizzoli, che fu salutato da Italo Calvino come un libro fondamentale nel rinnovamento della poesia italiana. In seguito, ha pubblicato altre raccolte di poesia, romanzi, saggi, libri di viaggio, libretti d’opera, testi teatrali. Il suo romanzo, “Il Terzo Ufficiale” (Longanesi, 2002) ha vinto i premi Hemingway e Basilicata. Ha tradotto Blake, Shelley, Whitman, D. H. Lawrence, ed ha curato l’antologia “La lirica d’Occidente”, Guanda 1990. È in uscita una sua nuova antologia che, prima in Italia, comprenderà anche la poesia delle maggiori tradizioni dell’Oriente (quella araba, persiana, turca, indiana, cinese, giapponese). Dal 1986, è consulente per la poesia dell’editore Guanda (Gruppo Longanesi), e dal 1984 collaboratore di diversi quotidiani, settimanali e periodici. Ha scritto come commentatore su Stampa Sera, come critico letterario sul supplemento di Repubblica “Mercurio”, e attualmente è collaboratore del Giornale e del Secolo XIX.
Tra i libri pubblicati: “Lettera ai disperati sulla primavera” (Ponte alle Grazie, 2006) e “Ferite e rifioriture” (Lo Specchio, Mondadori 2006). Momento culminante di una storia poetica iniziata trent’anni fa con “L’ultimo aprile bianco”, “Ferite e rifioriture” si caratterizza per un registro epico, nel quale figurano, forse per la prima volta, momenti di intenso pathos autobiografico. Nel libro precipitano, dunque, abbandono, inquietudine e malinconia che investono di senso inedito il grande tema della poesia di Conte e della nostra vita: il destino della cultura occidentale. Nel 2015 la Mondadori pubblica in un Oscar l’intera produzione poetica (1983-2015). Il suo ultimo romanzo è “I senza cuore”, (Giunti, 2019) e l’ultima raccolta di poesie è uscita nel 2019 per Mondadori col titolo “Non finirò di scrivere sul mare”.

Che cos’è la verità, in poesia?

Mi è capitato di scrivere che la poesia è una forma di finzione che non può perdere di vista la verità. Sembra un paradosso, ma la poesia nasce da un desiderio di creare qualcosa di nuovo, qualcosa che non c’era prima al mondo, e usa il linguaggio per farlo: la finzione sono le immagini, le metafore, tutto quello che è forma e che designa uno stile.
Ma detto questo, una poesia che fosse soltanto esercizio di linguaggio, bravura, virtuosismo stilistico, francamente non mi basterebbe: voglio sentirci pulsare la carne, la vita nella sua totalità, la ricerca dell’invisibile, la contiguità con il mistero delle cose e del mondo. La verità è questa, una ricerca, la strada verso un punto d’arrivo irraggiungibile ma indispensabile.

Si dice che ogni essere umano sia innumerevole. E che gli innumerevoli si possano riconoscere in ogni essere umano. È questo che fa la poesia?

Paul Valéry fece dire al suo Socrate che ogni uomo nasce plurimo e muore uno. Goethe, invece, disse che invecchiando era diventato un essere collettivo. Certo che siamo innumerevoli, che in noi si muovono identità che neppure conosciamo, mostri, angeli, eroi, vittime, innocenti, draghi, principi, demoni: siamo dominati dalla pluralità e dalla contraddizione. Funzione della poesia è dar voce a tutto questo. Non è soltanto uno sgorgare di sentimenti, una sintesi di emozioni: per quello bastano le canzonette. La poesia scava nell’essere, ne scopre i segreti, la mutevolezza, le metamorfosi, insomma è una sfida continua per dire la quintessenza dell’umano e che cosa ha a che fare con il Nulla o con Dio. Grande programma; va bene, ma nessuno ti chiede di scrivere poesia, non guadagni niente, sei considerato un emarginato, e allora concediti il massimo,
l’impossibile. Mario Soldati, di cui ero amico, mi consigliava: “Fai come Borges”.

 

Il senso del possibile, come si alleva nella poesia? Come pratica il futuro?

Il senso del possibile è sfidare l’impossibile. Come il senso dell’infinito è, diceva Goethe, maestro supremo, battere tutte le vie del finito.
Ecco, battere tutte le vie del possibile è il miglior modo per praticare il futuro.

La Storia e le storie. Cosa raccoglie la poesia per i venturi?

La poesia coglie il senso della storia ma lo travalica: non si ferma lì, perché punta all’eternità. I poeti imprimono la qualità ai tempi, ma solo i venturi lo potranno vedere. Ci vogliono 50 anni, minimo, perché una grande poesia sia svelata e colta in pieno nella sua rappresentatività storica: ci sono voluti per Baudelaire, ad esempio.
La poesia ci lascia, più che le storie, che toccano al romanzo, i colori e i profumi di un’età, sul piano sensoriale, e i suoi sogni, le sue utopie, i suoi ideali sul piano spirituale.

Chi è l’altro oggi? Come lo si incontra?

Per dirlo con Rimbaud, ognuno di noi è l’Altro di se stesso. L’ho premesso al mio romanzo Sesso e apocalisse a Istanbul (2018) e lo credo davvero. Per dirlo con una minore temperatura intellettuale, l’altro è ciò che noi possiamo rifiutare o amare: chi lo rifiuta, finisce in una vita statica, misera, infelice. Chi lo cerca e lo ama, ha più possibilità di essere nel grande flusso delle cose, di sentire la musica dell’universo. Tutta la mia esistenza è stata dominata, dagli anni Settanta del secolo scorso, da questa ansia di scoprire alternative al mondo come è per un occidentale, ho percorso mille sentieri, la spiritualità dei Nativi Americani, l’Oriente, l’India, l’Islam.
La poesia mi ha accompagnato in questo viaggio, dall’Ultimo aprile bianco (1979) a Non finirò di scrivere sul mare (2019).

La poesia rende giustizia? Può essere il suo ruolo, oggi?

Non lo so, la giustizia è calpestata e irrisa nella realtà, da Amleto a Renzo Tramaglino, la letteratura lo conferma. Diciamo che la poesia può lottare perché la giustizia viva, perché sia un ideale, insieme alla libertà. Guardando l’ultimo film di Polanski, un genio a mio avviso, mi sono commosso quando è comparso Zola, pronto per il suo J’accuse. Questo è uno scrittore, mi sono detto, quasi con il nodo alla gola. E ho ammirato la fame inflessibile di giustizia del protagonista, a prescindere dalle proprie personali convinzioni. Lottare per sconfiggere un’ingiustizia che non riguarda te: questo è eroismo. E la poesia ha in sé qualcosa di nascostamente, umilmente, pacificamente eroico.

La poesia può essere anche reazione al reale? Come lo agisce?

Da anni, andiamo sostenendo, a livello europeo – in Francia il tema è ancora più sentito – che la poesia è una forma di resistenza spirituale: una risposta di lotta ma anche di gioia e di bellezza, alla barbarie che avanza nella nostra società e nel mondo.

 

Dare un nome alle cose le mette al mondo. Come dobbiamo raccontare il bene comune, oggi?

Si ricorda, ma non credo sia possibile, quando si diceva che era un delitto parlare degli alberi? Io ho commesso questo delitto dagli anni Settanta del secolo scorso, ho parlato di alberi, fiori, animali, onde, cieli, antiche divinità, e li ho tenuti al mondo, sinché oggi sappiamo tutti quanto sia importante salvare gli alberi, piantarli, e io direi di più, amarli e abbracciarli: conosco poche sensazioni più vitali di quelle che si provano abbracciando un albero. Il bene comune oggi è la Madre Terra. Io almeno ci ho provato, in prosa di romanzi e in versi, a raccontarlo.

Quali sono le domande alle quali collettivamente è necessario iniziare a rispondere?

La poesia continuerà a fare domande e a inseguire la verità. Le risposte le deve dare la società: rispondere alle ingiustizie, all’impoverimento di masse umane sempre più grandi, alla finanza globale eretta a potere assoluto, al decadere dell’umanesimo, all’avvelenamento dei mari, dell’aria, della terra, ai mutamenti climatici: non sono risposte facili, né innocue.

Versi a commiato?

Ma tu, chiunque ti abbia generato,
ama la libertà, cerca la gioia
e non dimenticarti mai del mare.

G. Conte