Intervista ad Alessandro Fo

di

4 Febbraio 2020

Segni di percorrenza, tratto quinto

In realtà, ogni cosa che accade, avviene in mondi e modi incalcolabili. La poesia permette che tutte le cose accadano allo stesso essere umano e che quell’essere umano forse siamo noi. È, in qualche modo, l’assicurazione necessaria che la vita di ognuno appartenga allo stesso mondo, di ogni tempo. E sul quale, qui e ora, abbiamo facoltà di lavorazione. La serie di queste interviste rappresenta un dialogo polifonico attorno a un vero, presunto o necessario ruolo sociale e umano della poesia, tra racconto e cambiamento.

 

 

Il complice

Mi crocifiggono e io devo essere la croce e i chiodi.
Mi tendono il calice e io devo essere la cicuta.
Mi ingannano e io devo essere la menzogna.
Mi bruciano e io devo essere l’inferno.
Devo lodare e ringraziare ogni istante del tempo.
Il mio nutrimento sono tutte le cose.
Il peso preciso dell’universo, l’umiliazione, il giubilo.
Devo giustificare ciò che mi ferisce.
Non importa la mia fortuna o la mia sventura.
Sono il poeta.

J. L. Borges

poeta
Alessandro Fo è nato a Legnano nel 1955. Insegna Letteratura latina all’Università di Siena. Le sue principali raccolte di poesie sono Otto febbraio (Scheiwiller, Milano 1995), Giorni di scuola (Edimond, Città di Castello 2000), Piccole poesie per banconote, (Pagliai Polistampa, Firenze 1° gennaio 2002), Corpuscolo (Einaudi 2004), Vecchi filmati (Manni 2006), Mancanze (Einaudi 2014) e la plaquette Esseri umani (L’Arcolaio 2018). Per Einaudi ha anche tradotto e curato Il ritorno di Rutilio Namaziano (1992), l’Eneide (2012, insieme a Filomena Giannotti) e, di Apuleio, Le metamorfosi (2010) e La favola di Amore e Psiche (2014). Ha inoltre curato varie edizioni di opere di Angelo Maria Ripellino, tra le quali quella che riunisce le tre raccolte poetiche Notizie dal diluvio. Sinfonietta. Lo splendido violino verde (Einaudi 2007, con Federico Lenzi, Antonio Pane e Claudio Vela).

 

Che cos’è la verità, in poesia?

Direi, con Saba, il fare la «poesia onesta». L’autenticità di fondo, come, fra le raccolte della poesia italiana recente, in Coppie minime di Giulia Martini o in Dolore minimo di Giovanna Cristina Vivinetto. È una condizione necessaria, anche se non sufficiente, in quanto, affinché ‘precipiti’ qualcosa che meriti l’onore dell’etichetta di «poesia», occorrono anche altri fattori, che potremmo sintetizzare nella formula «fuga dal banale».

 

Si dice che ogni essere umano sia innumerevole. E che gli innumerevoli si possano riconoscere in ogni essere umano. È questo che fa la poesia?

Una simile definizione è indubbiamente di taglio poetico, e la si può sottoscrivere. Non penso però che sia tanto l’individua qualità di «innumerevole» a sostenere un potenziale farsi della poesia, quanto invece la capacità, da parte del poeta, di giungere a toccare con efficacia una corda emotiva fra le innumerevoli che sono in ciascuno di noi.

 

Il senso del possibile, come si alleva nella poesia? Come pratica il futuro?

Domande difficili. Personalmente non mi sono, direi, mai messo a scrivere con una prospettiva del genere, nel senso programmatico della questione. Non saprei dunque entrare nel merito. In generale, potrei forse tutt’al più spingermi a ritenere che ogni tentativo poetico riguarda il futuro, perché lo cerca e in qualche modo lo ‘alleva’ e lo ‘pratica’. Ma penserei che il senso del possibile e la cura del futuro si possano meglio identificare come qualcosa di vagamente intrinseco al fare poetico, e al suo naturale coefficiente di militanza (su cui si torna con la terz’ultima domanda). Molto più oltre non saprei andare.

 

La Storia e le storie. Cosa raccoglie la poesia per i venturi?

Per come la vedo personalmente, la poesia raccoglie testimonianze; e mentre (con la domanda precedente) guarda al futuro, è anche un ritratto (un «sismogramma» avrebbe forse scritto Angelo Maria Ripellino) del presente, e dunque anche fonte storica, diretta e indiretta, sia della Storia, sia di come singoli individui (soggetto o oggetto del dire poetico) hanno visto il proprio personale percorso confluire in quello comune di tutti.

 

Chi è l’altro oggi? Come lo si incontra?

L’altro è colui cui non dovremmo essere indifferenti, e l’incontro è soprattutto – appunto – l’attenzione (un solo caso: le molte vite minori celebrate nelle sue liriche da Pierluigi Cappello). Purtroppo però nell’Italia di questi fine anni Dieci del Duemila viviamo un clima di forti tensioni e contrapposizioni: indifferenza, egoismo, esclusione sono tornati a farsi bandiera e programma. E a questi atteggiamenti non si può restare indifferenti, ma in altro senso: vanno contrastati, perché rappresentano l’antimateria (del bene, del bello, del giusto – e dunque anche dell’arte e, nel suo alveo, della poesia).

 

La poesia rende giustizia? Può essere il suo ruolo, oggi?

Nel senso esposto alla precedente domanda, la poesia può tentare. Non so quanto possa in effetti «rendere giustizia» e soprattutto «compensare» le infinite persone che hanno sofferto e soffrono ingiustizia. Può però avere una funzione civile, di richiamo, di accorato appello. Conosco in merito un’intera poesia di Ennio Cavalli (in Bambini e clandestini) che consta di quattro sole parole: «Sono orfanotrofi le ingiustizie».

 

La poesia può essere anche reazione al reale? Come lo agisce?

Anche qui direi che la poesia è di per sé, ontologicamente, «reazione al reale». Lo «agisce» inquadrandolo da punti di vista inconsueti, per farlo meglio ammirare nella sua meraviglia, quando è il caso, o, simmetricamente esecrare, quando la sua funzione civile intende mettere a nudo e denunciare, coi fragili e spesso poco ascoltati strumenti dell’arte, le enormi storture e sperequazioni in cui quotidianamente viviamo immersi.

 

Dare un nome alle cose le mette al mondo. Come dobbiamo raccontare il bene comune, oggi?

«Non chiederci la parola» scriveva Montale, e in questo già presentava una sua perentoria «parola». Non si può delineare un metodo valido per ogni artista e per ogni situazione. Citavo Ennio Cavalli, che di recente ha dato un taglio sempre più esplicitamente civile, impegnato e militante ai suoi interventi. Stefano Carrai chiama in causa la Storia e la necessità della memoria: nel suo La traversata del Gobi si legge il perentorio verso «il sonno della memoria genera il sonno della ragione». Altri poeti – da Matteo Pelliti (Dire il colore esatto) e Mario Laghi Pasini a Valerio Magrelli (All’unisono; ma anche il Franco Buffoni di Guerra e le più recenti raccolte di Antonella Anedda) – individuano una via meno diretta e più asciutta e allusiva; o addirittura quasi interamente affidata a una trama lirica rivolta ad altri orizzonti (penso a Il mondo che farà di Giuseppe Grattacaso, con le sue liriche sugli spazi interstellari; alla Storia di uno specifico microcosmo, Molinella, dall’antichità a oggi, in Ad ogni umano sguardo di Claudio Pasi; o al culto degli affetti praticato da Teologia familiare di Fornaretto Vieri). Francesco Bargellini ci arriva addirittura traducendo in liriche alcuni fra i più poetici brani di Platone (e appunto Platone! Si intitola il suo libro uscito presso Aragno). Ognuno cerca, trova e forse sempre meglio troverà la sua strada. La questione nodale è orientarsi al «bene comune». E da questo punto di vista mi pare che molte voci della nostra presente poesia siano già adeguatamente ‘in postazione’.
Se mai, sul «come», vorrei aggiungere qualcosa. Scherzosamente Vivian Lamarque osserva spesso che «i poeti non si leggono fra loro, si ‘controllano’», e protesta in versi contro questo atteggiamento in una delle poesie finali del suo Madre d’inverno. Occorrerebbe in effetti una maggiore generosità reciproca, un più convinto fare squadra (il «coro grande» di cui nei versi della Lamarque), anziché lavorare – piuttosto – a coprire la voce altrui con la propria, o (il che è più o meno lo stesso), a far valere la propria voce attraverso il silenzio su quella degli altri, quasi nella convinzione che tanto meglio si riuscirà a spiccare in proprio, quanto più si cercherà di gettare nebbia e oblio sull’altrui parallela ricerca. (Sarebbe anche questa, se vogliamo, una modalità dell’«attenzione» di cui si discorreva più sopra).

 

Quali sono le domande alle quali collettivamente è necessario iniziare a rispondere?

Come ci si possa configurare quali esseri autenticamente «umani»; come si possa sempre meglio intervenire contro il muro di ignoranza, pregiudizi, egoismo, indifferenza o direttamente odio, che lavora ‘per il male comune’.

 

Versi a commiato?
Versi in apparenza sfiduciati, ma, in realtà, di (un po’ amara) protesta; chiudono un mio testo di Mancanze (intitolato Vesti di un angelo):

 

ispira diffidenza la poesia,
non convince la delicatezza,
poca gente è all’altezza dell’affetto,
quasi niente è il rispetto dell’amore.

A. Fo