Liberiamoci dal cappio: fuori c’è aria pulita

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26 Gennaio 2021

La crisi di governo mentre si muore di Covid. I nanetti sembrano di nuovo giganti. ll grande strappo che sancisce il distacco totale del Palazzo dalla realtà

Sono in viaggio ormai da un’ora su un treno che vola sulle rotaie, fuori c’è aria, vento, paesaggio e dentro una scacchiera di passeggeri. Ognuno di loro respira l’aria dentro tre o quattro centimetri cubi di spazio in una mascherina. Inspira l’odore del materiale FFp2, espira dentro uno spazio angusto, inspira, espira, sempre meno ossigeno, la bocca è arsa, gli elastici tirano, le orecchie dolgono. È quello lo spazio della politica dei partiti del palazzo, oggi.

Un’aria stanca, angusta, che ci opprime, che ci obbliga mentre guardiamo paesaggi e aria, fuori, che non sono irreali. Ma che restano fuori.

Quando è arrivato il Covid ricordo il restringimento delle libertà e un tema forte, impellente, necessario di vedere un governo nazionale dover reagire a una pandemia: come avrebbe fatto?

Un uomo solo, i suoi decreti, meno peggio di quello che ci si sarebbe aspettati, forse, ma fin da subito la nostra lotta contro un virus letale, soprattutto con i nostri pensionati, cioè i nostri vecchi, e lo stato di emergenza e quasi di eccezione che ricordava misure marziali ci hanno interrogato su quale fosse da Costituzione l’organo capace di decisioni democratiche per la nostra Repubblica. Il Presidente del Consiglio – che non è un premier come dice l’imbecille stampa nostrana – ha iniziato una serie di decreti in un tripudio di dirette, spesso ripetute dal suo account facebook in un cortocircuito davvero impressionante, ma che di fronte alla gravità della situazione è stato notato, ma forse anche giustamente senza troppa denuncia. Giuseppì, come l’italico ghigno riesce sempre a trovare una via di sdrammatizzazione e di farsa anche di fronte a un sistema economico mondiale che affondava, ecco Giuseppì diventava un personaggio, la sua voce, le sue pause, il suo vocabolario moderato, poi la conferenza stampa delle 18 diventava il telefilm migliore da guardare con una drammaturgia perfetta, nonostante la lentezza e la noia delle parole ripetute a un pubblico così sconcertato da doversi sorbire dati sostanzialmente inesistenti, perché non chiari, non calcolati su parametri omogenei (difficile per tutti) e anche la politica e i grandi giornali abbandonavano gli aggettivi della catastrofe e i titoloni gratuitamente giganti della paura, perché c’era da infondere qualche nota che sfumasse la botta iniziale degli orgasmi da fine del mondo, storie e foto che solo in libri di fantascienza o di thriller internazionali avevamo visto. (con la dfferenza che due ore dopo eravamo fuori dalla sala, oppure in cinque giorni si passava a un altro libro).

 

Che cosa abbiamo ottenuto allora, in quel tempo? Che sparisse l’ossessione di Salvini, di colpo. Che sparissero le risse da cortile che ci attanagliano da anni e che finiscono sempre in prima pagina. Le volgarità, le inezie, la scarsa spina dorsale, il senso inevitabilmente sbagliato di saper individuare e lavorare sui temi che contano. La politica si scatenava, certo, in un balletto strumentale  e meschino fra mascherine sì e no, sovranisti per il no, comizi e feste senza il bavaglio sanitario, buffoni in arancione con ex generali baffuti, ma l’attenzione generale era per quei numeri, per la casa che si chiudeva, gli spostamenti che si limitavano, i passi da contare, le biciclette sui tetti se c’era spazio, le chitarre e i canti e le frasi enfatiche, le mascherine tricolori, non ci è mancato nemmeno l’inno, come se dovessimo reagire patriotticamente in una pandemia globale, viva il Risorgimento (che per inciso una fetta di Italia non saprebbe nemmeno in che secolo collocare, ma viva).

È arrivata l’estate, iamme iamme, e vogliamo forse negare le vacanze e il mare agli italiani? Non scherziamo, sono voti, non cittadini da amministrare. Sono voti per stare nelle stanze e mantenersi le strutture, le poltrone, le giacche i tailleur e le cravatte di seta, i poteri, quelli piccoli e quelli grandi. E i vizi, perché no. Il virus sembrava quasi andato, ma la seconda ondata era dietro le porte. Annunciata a dire il vero. Eppure anche il Palazzo se ne andava in vacanza, senza fare i compiti per l’autunno.

Giuseppì ha retto bene, alla fine i soldi sono stati stanziati, magari pochi e non bastano mai, ma una risposta c’è stata e in Europa ha anche pestato i piedi, per una volta ci siamo sentiti quasi ascoltati, in un complesso di inferiorità che non ha mai avuto senso, se non nell’autocommiserazione misera che soffriamo a partire dal non riuscire mai a parlare inglese (e a scuola continuiamo a insegnare come non parlarlo). Sole pizza e amore finivano, purtroppo si tornava al lavoro, anzi forse abbiamo esagerato ad andare in Grecia, in giro, feste, spiaggia e chitarra, loro son giovani, noi siamo stanchi, ci dobbiam riprendere, poi vediamo. Colpa dei cittadini? O di chi li amministra? Quando le cose vanno male, la colpa è dell’italico temperamento saltacode, e perché no se dichiari al fisco che guadagni poco opochissimo, come fai poi a esigere ristori su documenti fiscali che hai truccato? Ma diciamoci la verità: se si chiama governo, ha da governare.
Altrimenti da governati, ci si faccia governanti.

Altro giro di chiusure, altri negozi chiusi e la consapevolezza che non saremmo mai più tornati alle strade deserte, non perché non ce ne fosse bisogno, ma perché il sistema capitalista andava in fallimento; come per la tregua di natale, per dio, comprate, comprate e poi abboffatevi anche un po’ in famiglia.

È qui che inizia la seconda grande tragedia che ci ha lasciato il 2020. Quella del 2%, che intravede uno spiraglio. Punto. Uno spiraglio che vede solo lui e per lui. Matteo Renzi e l’auto-piscoterapia.

 

 

La crisi di governo si annuncia, si allontana, si avvicina, i grandi giornali non resistono e i nanetti sembrano di nuovo giganti e poi non non vale nemmeno far la cronaca di un periodo talmente basso di questa nostra Repubblica da rappresentare il grande strappo, la grande ferita, lo iato incommensurabile che sancisce il distacco totale del Palazzo dalla realtà.

Il palazzo è un’isola, i tg, i giornali: raccontano crisi di governo e Covid, mischiano la presunta love story Polverini Lotti con la variante brasiliana, infarcendo il web, la carta e la televisione, ahimé ancora guardata così tanto dai nostri poveri vecchi, di virologi che dicono cose tutte diverse da mesi, polemiche e sbertucciamenti del fiorentino che aveva promesso di andarsene dopo il fallimento del referendum, e grandi paure, filmati di assembramenti, fenomeni virali di non ce n’è coviddi che dimostrano solo come si debba, una volta di più, essere davvero pazienti di fronte a una degenerazione senza fine del nazional popolare trash, sdoganato da Berlusconi tette e premi, veline e Ricci e poi riproposto in tante salse diverse anche dalle oscene colonne destre e dalla rete.

Conte sale al Quirinale e si va al Conte Ter, oppure no. Dopo una vita passata a capire, raccontare la politica, cercare di mantenere intatta una speranza che davvero qualche cosa di utile potesse venire fuori dalla spremuta di 945 e passa cervelli che abbiamo votato o che sono stati votati con una delega. Io delego te perché tu mi rappresenti. Una frase che solo a scriverla mi pare una barzelletta che non fa più nemmeno ridere, un controsenso, con tutto il dispiacere per i tanti bravi politici che esistono e che lavorano per amministrare, ma che non hanno nessun peso nel gioco delle segreterie e che sui giornali non ci finiscono, perché son gregari o perché sui giornali non si dice di non essere d’accordo con il partito, altrimenti fuori.

Lo iato fra la società e i partiti si allarga, ma a questo punto il meccanismo è rotto.

 

 

Consumare una crisi di governo in un momento di debolezza del Paese come questa, delle famiglie, dei giovani che non sanno nemmeno quando torneranno a ritmi ragionevoli di socialità, con dottori e infermieri e strutture ospedaliere sollecitate allo stremo quasi da un anno, con lavoratori che hanno perso tutto, altri che sopravvivono, altri ancora che devono rischiare, con i lutti consumati senza gli ultimi saluti, con le nostre teste che lavorano giorno e notte su questo senso si chiusura, di costrizione, di latente paura, di interrogativo su cosa sarà dopo, con un occhio a chi dovrebbe essere un punto di riferimento e che invece passa il tempo a insultarsi in beceri comizi videotrasmessi. Una soap opera schifosa, i “responsabili”a cercare di tenere su la struttura, diciture che scomodano parole che davvero suonano grottesche. Responsabilità sarebbe stato non aprire nessuna crisi di governo aspettando che si uscisse da una situazione drammatica. Responsabilità è non indebolire il mercato Italia, non mettersi di traverso con il 2% per l’egotismo squallido di chi è stato sorpassato ormai dal divenire partitico e politico.

Rimane solo una sensazione di schifo, cerco un’altra parola ma non la trovo, di repulsione, ecco, di incazzatura forte, di voglia di staccare con questo mondo strano che non vedo per le vie della mia città, che non incontro nei problemi reali delle persone, nel mondo dei ragazzi, dei vecchi, un palazzo dove il dibattito è sempre su qualcosa che provochi frattura e scontro, dove il politico è un attore non sociale ma cinematografico, dove il politico è in costante presenza sui mezzi di comunicazione e non in un ufficio a lavorare come chi ha una responsabilità verso i propri deleganti.

Ecco, basta. Lo iato per me si è allargato troppo, le sponde son troppo distanti per sperare che si possano riavvicinare. Mi è rimasto il municipalismo, come chiave, forse la politica sul territorio, più vicina, più facile da approcciare, da criticare, più facile forse un giorno da riprendere e più attenta al conflitto, dove il rapporto con il cittadino elettore è più stretto, dove le cravatte di seta possiamo forse anche abolirle per un buon maglione (son metafore direbbe il Postino), e scarpe comode per camminare nelle nostre vie e capire di che cosa davvero abbiamo bisogno.

Una politica che sorge dal sociale, non una politica che si cala da una professione, che non richiede oggi nemmeno una preparazione adeguata, non foss’altro quella di parlare in italiano corretto. Macchiette. Cosa dovremmo  additare alle nostre gioventù che crescono di questa politica partitica che potranno  votare a breve, anzi forse a brevissimo. Votare chi, che cosa? Ci sono idee? Sì ci sono e spesso sono fuori dalla cerchia, non le ascoltano. Anche quanto c’è di buono e serio scompare, perché finisce dentro un meccanismo esausto, logoro, che non funziona più. Nemmeno gli antisistema, così baldanzosi che qualcuno ce l’aveva la speranza, hanno scoperchiato la scatoletta di tonno.

 

 

Alla fine in giardino ho tolto la mascherina oggi e c’era il sole e l’aria iniziava a sapere di primavera. Manca ancora un po’, ma un fiore è già sbocciato su un pruno e lo guardo preoccupato, forse è troppo presto, speriamo ce la faccia.

Abbiamo bisogno di respirare, di nuovo ossigeno. Il panorama, gli alberi e i fiori, le nostre città sono reali. Il Palazzo è un disco volante, mi dico che prima o poi si alzeranno nubi di vapore e si accenderanno i razzi e se ne torneranno tutti dal mondo alieno da cui sono arrivati, speriamo che i migliori si salvino.

Non è antipolitica. Proprio no, la facciamo noi la politica. È la voglia matta di liberarmi da una finta rappresentazione della democrazia, quella che ci hanno venduto come tale, ma che non sanno servire.