Il diritto all’istruzione negato in un mondo di guerre

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28 Novembre 2018

Corridoi umanitari, la risposta alle stragi in mare e alla tratta di esseri umani, a cura di Maria Grazia Patania

Fra i 7.4 milioni di rifugiati in età scolastica sotto il mandato UNHCR nel 2017, quattro milioni non hanno ricevuto nessun tipo di istruzione.

 

*foto di Francesco Malavolta

Ibrahim viene dal Gambia, faceva il sarto e non è mai andato a scuola. Fra i tanti sogni che durante il viaggio si portava nel cuore di adolescente c’era quello di studiare. La vita nuova doveva essere fatta di penne, libri e speranze. Una volta trasferito ad Augusta in un centro di prima accoglienza ha atteso mesi prima di poter frequentare un corso di alfabetizzazione che non basta per fargli imparare la lingua. Dopo più di un anno, fatica ancora a leggere i libri per bambini e ignora del tutto il suo diritto a ricevere istruzione sancito, fra gli altri, dall’Articolo 24 della Quarta Convenzione di Ginevra[1] sulla Protezione delle Persone Civili in tempo di guerra.

Gli ultimi dati disponibili sui minori relativi al 2017 descrivono la seguente situazione: su un totale di circa 33.000 minori, 92%sono arrivati da soli, e di questi oltre 18.000 sono stati registrati in Italia. Ma, al di là dei numeri, qual è la situazione dei minori rifugiati a livello mondiale e in Europa? Vanno a scuola come i coetanei nati in luoghi senza la guerra? Hanno le stesse opportunità?

 

 

 

Il report UNHCR sulla situazione globale dell’istruzione non lascia dubbi sul fatto che questo diritto esista solo in teoria dal momento che -fra i 7.4 milioni di rifugiati in età scolastica sotto il mandato UNHCR nel 20174 milioni non hanno ricevuto nessun tipo di istruzione. Metà dei rifugiati a livello mondiale sono bambini e solo nel 2017 sono stati 500.000 in più rispetto all’anno precedente. Il report relativo al 2016, fra l’altro, sottolineava come -rispetto ai coetanei- solo il 61% dei bambini rifugiati terminasse la scuola primaria e il 23% quella secondaria (percentuali che arrivavano rispettivamente al 50% e al 9% se si consideravano i paesi in via di sviluppo e a basso reddito). I dati del 2016, che si sono mantenuti stabili nel 2017, avevano rappresentato un miglioramento rispetto al 2015 dovuto soprattutto alle politiche di inclusione dei profughi siriani da parte dei governi nazionali.

La vita in campi profughi sovraffollati impedisce a bambini e bambine, ragazzi e ragazze di andare a scuola e la mancata istruzione ha molte conseguenze negative. Le principali criticità riguardano matrimoni e gravidanze precoci, incapacità di diventare lavorativamente autonomi, autolesionismo e tentato suicidio, mancato o carente accesso al sistema sanitario.

La situazione è anche più grave per bambine, ragazze e donne. Per loro è ancora più improbabile ricevere una istruzione che le renda libere e indipendenti in contesti fragili come quelli dei campi per sfollati o profughi.

Un documento della Commissione Europea ha affermato chiaramente che “le ragazze che vivono in Paesi interessati da conflitti sono particolarmente vulnerabili. Le probabilità che non vadano a scuola sono 2.5 volte più alte rispetto a quelle dei coetanei”. Di conseguenza, è più facile che si trovino intrappolate in matrimoni precoci che diventano un mezzo metterle al riparo dalle violenze sessuali e non dover provvedere al loro sostentamento. Il matrimonio, però, spesso mette fine a qualsiasi formazione scolastica e le espone a situazioni di violenza domestica. Altra conseguenza riguarda le gravidanze precoci con un peggioramento della salute materna ed infantile.

Nel gennaio 2017, una ricerca condotta dall’UNFPA ha analizzato la situazione di 2400 donne e ragazze siriane rifugiate in Libano fra le quali si è registrato un aumento allarmante di matrimoni precoci: oltre un terzo delle intervistate fra i 20 e 24 anni si era dovuta sposare prima di diventare maggiorenne. Eppure, benché già nel 2012 il matrimonio precoce fosse stato definito un “abuso dei diritti umani” e “una grave minaccia alla vita delle ragazze”, poco è stato fatto per evitarlo. I danni della mancata istruzione si ripercuotono su intere comunità ed è ormai chiaro che l’istruzione femminile abbia un impatto positivo sulla vita economica e sociale dei contesti in cui vivono. Una donna istruita sarà molto più incline a investire in attività vantaggiose per la comunità, a mandare i figli (e le figlie) a scuola e a “assicurare acqua potabile, assistere adeguatamente i figli quando sono malati e farli vaccinare (…) Le donne istruite sono più preparate a proteggere i propri figli dalle minacce”.

Anche a livello europeo esistono tutele specifiche che in teoria garantiscono il diritto all’istruzione per rifugiati e beneficiari di protezione internazionale. La DIRETTIVA 2004/83/CE del Consiglio recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta all’Articolo 27 afferma quanto segue: “Gli Stati membri offrono il pieno accesso al sistema scolastico, secondo le stesse modalità previste per i loro cittadini, a tutti i minori beneficiari dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria”.

Consultando un documento della Commissione Europea relativo agli anni 2014-2017, si legge quanto segue “In linea con l’aquis dell’UE, la maggior parte degli Stati Membri garantisce l’accesso automatico al sistema di istruzione per tutti i minori non accompagnati a prescindere dallo status giuridico e alle stesse condizioni dei propri cittadini (…) Solitamente viene sviluppato un piano formativo per ciascun minore non accompagnato dopo averne valutato le esigenze specifiche”. Ma, in base ai dati UNICEF al 30 giugno 2018, la situazione è ben diversa. Se consideriamo l’Italia, ad esempio, in riferimento alla voce “bambini e adolescenti coinvolti in attività di apprendimento informali strutturate” su un target di 5000 solo in 50 vi hanno effettivamente partecipato. Per quanto riguarda il sistema scolastico ufficiale, invece, su un target di 1500, solo 168 minori sono stati realmente raggiunti. L’UNICEF mette infatti in evidenza come fra le principali sfide da affrontare ci siano: strutture ricettive scadenti, detenzione dei bambini migranti spesso privati dell’accesso al sistema scolastico e ai servizi di base, continue discriminazioni contro rifugiati e migranti

Fra i tanti benefici dell’apertura dei corridoi umanitari, come dimostrato dalla prassi di Sant’Egidio, ci sarebbe anche l’inserimento dei minori in percorsi formativi e scolastici con il supporto della comunità che li ospita. Se consideriamo che Filippo Grandi (Alto Commissario per i Rifugiati) ha affermato che “la durata media dell’esilio è 20 anni e 20 anni sono ben più lunghi di un’intera infanzia”, questo approccio attualmente è l’unico che riesce a guardare al futuro uscendo dalla logica dell’emergenza che non garantisce nessuna sostenibilità all’accoglienza.

[1] Art. 24 Le Parti belligeranti prenderanno le misure necessarie affinché i fanciulli d’età inferiore ai quindici anni, divenuti orfani o separati dalla loro famiglia a cagione della guerra, non siano abbandonati a se stessi e siano facilitati, in ogni circostanza, il loro sostentamento, l’esercizio della loro religione e la loro educazione. Quest’ultima sarà, se possibile, affidata a persone della medesima tradizione culturale. Le Parti belligeranti favoriranno l’ammissione di questi fanciulli in un paese neutrale per la durata della guerra, con il consenso della Potenza protettrice, se ve n’è una, e se esse hanno la garanzia che siano rispettati i principî indicati nel primo capoverso. Esse si sforzeranno inoltre di prendere le misure necessarie affinché tutti i fanciulli d’età inferiore ai dodici anni possano essere identificati, mediante una targhetta di identità o con qualsiasi altro mezzo.