Decolonizzare i saperi

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22 Giugno 2020

È sulla base di questa radicale ingiustizia che movimenti per la compensazione dei discendenti di schiavi sono sorti sulle due sponde dell’atlantico, chiedendo non aiuti o carità, ma giustizia

Il 7 giugno scorso, a Bristol, durante una manifestazione di protesta per la barbara uccisione di George Floyd, i manifestanti hanno rimosso e gettato in un vicino canale la statua di Edward Colston.

Bristol è una città portuale inglese in cui ogni anno, tra il sedicesimo ed il diciottesimo secolo, transitarono migliaia di schiavi destinati alle colonie d’oltreoceano. Colston lavorò come mercante a Bristol e proprio gli schiavi costituirono la “mercanzia” che maggiormente contribuì ad arricchirlo.

La città gli dedico una statua per le varie opere filantropiche a cui dedicò parte dei suoi guadagni, sebbene la sua “filantropia” fosse riservata esclusivamente ad un certo tipo di umanità.

Tanto è stato detto e scritto sulla rimozione di quella statua. La tematica, tuttavia, non è nuova: nel 2015, in Sudafrica, un ampio movimento politico (Rhodes must fall) ottenne la rimozione dal campus dell’università di Città del Capo della statua di Cecile Rhodes, tra i primi amministratori britannici della colonia e fervente sostenitore della superiorità biologica dei bianchi sui neri, mentre in Italia il lavoro del collettivo Wu Ming e della scrittrice Igiaba Scego ha segnalato reliquie imbarazzanti tra monumenti e strade dedicate a perpetratori di massacri o oscenità nel nostro spesso ignorato passato coloniale.

Anche nella mia città, Milano, era già emersa la problematicità di una figura come Indro Montanelli, acclamato quale “grande giornalista” da buona parte dell’opinione pubblica che, attraverso l’istituzione razzista del “madamato”, istituita dal governo coloniale italiano nei suoi territori del Corno d’Africa, acquistò e violentò una ragazza di dodici anni, esperienza sempre rivendicata con orgoglio.

Personalmente mi urta che uno spazio importante come i giardini di villa Palestro siano dedicate ad una persona del genere, ma non penso di avere molto di aggiungere a quanto già detto (e fatto) da persone più competenti di me.

Credo, invece, possa essere interessante provare ad ampliare la riflessione ed esplorare alcune critiche di questi movimenti al sapere che regolarmente riproduciamo nelle nostre scuole ed università, e che ci portano poi a riconoscere e “monumentalizzare” certe persone ed accettare la violenza della polizia nei confronti di altre. 

Per gli studenti sudafricani che occuparono il campus in quel 2015, Rhodes non era soltanto una sgradevole reliquia di un passato ancora vicino (l’apartheid fu abolito nel 1994), ma il simbolo di un ordine attuale in cui la storia, i valori, le conoscenze dei neri sono generalmente valutate come secondarie, marginali, magari “esotiche”, ma mai sullo stesso piano del sapere “scientifico”, prodotto nei centri del sapere del mondo bianco occidentale.

Trovo significativo che, al pari di Colston, Cecile Rhodes sia generalmente considerato un filantropo in Inghilterra e ad Oxford, seguendo le sue volontà testamentarie, fu istituita una fondazione tutt’ora esistente che eroga borse di studio e gli furono dedicati un edificio, una statua ed una prestigiosa cattedra, oggi al centro di critiche.

Rhodes must fall, però, non chiedeva solo di sbarazzarsi di una statua decisamente fuori luogo in Sudafrica, ma in senso più ampio di “decolonizzare” il sapere, dunque di accedere a libri, articoli e punti di vista meno eurocentrici, di avere curricula e metodi di studio più vari rispetto al canonico sistema europeo, peraltro sempre più rigido e standardizzato nel mondo anglosassone.

È significativo che, proprio in Sudafrica, pochi mesi dopo Rhodes must fall, una studentessa nera fu sospesa dall’università per via dei suoi capelli portati in stile afro e vietati in alcune istituzioni come retaggio del razzismo bianco, che impose precisi canoni anche sulla capigliatura delle donne.

Questo movimento non costituì, tuttavia, un’eccezione sudafricana: al contrario, in varie università in diversi paesi, studenti e accademici cominciarono a riflettere sulla necessità di rivedere programmi e pratiche di insegnamento e renderli meno “eurocentrici”.

Durante il mio periodo di dottorato e insegnamento alla University of Sussex, ho avuto la fortuna di partecipare ad alcuni di questi seminari sulla “decolonizzazione” dei curricula.

In una serie di incontri aperti tra studenti e accademici, abbiamo discusso criticamente varie bibliografie e formati standardizzati di lezioni ed esami, oggi presentati come canoni universali pur essendo espressione di una specifica tradizione accademica; e ci siamo interrogati sulle finalità e priorità di tali pratiche, sulle fonti che usiamo e sul pubblico a cui ci rivolgiamo, chiedendoci come riuscire a rendere tutto questo più vario, aperto e rappresentativo, lasciando spazio anche a voci diverse da quelle degli “esperti” occidentali, che da secoli si sobbarcano il “fardello” (mutuando una celebre definizione di Rudyard Kipling) di analizzare, catalogare e governare il globo.

In questi seminari, da antropologo africanista bianco, mi sono sentito particolarmente chiamato in causa: che effetto mi farebbe se gli “esperti di Italia”, qualunque cosa questo possa significare, fossero generalmente di un altro continente e spesso incapaci di comunicare nelle lingue locali? Perché si sente raramente parlare di esperti africani e mai per tematiche che non siano strettamente correlate all’Africa?

Come mai per una persona come me è in qualche modo normale, fin da giovane, avere la presunzione di andare “in Africa” (continente gigantesco con una varietà impressionante di lingue e tradizioni) a fare qualcosa di buono, mentre colleghi africani più esperti e competenti di me faticano ad avere un visto per uscire dai loro paesi e partecipare alle conferenze “importanti” sull’Africa, generalmente in Europa o negli Stati Uniti?

Gli studenti attaccano la statua del magnate minerario e politico britannico Cecil John Rhodes, mentre viene rimossa da una gru dalla sua posizione all'Università di Città del Capo nel 2015. Foto di Rodger Bosch/AFP/Getty Images

Due punti in particolare mi colpirono. In primo luogo, la volontà di valorizzare apporti diversi nelle nostre discipline, ampliandone gli orizzonti. Negli Stati Uniti è stato fatto un importante lavoro di analisi dei “classici” dell’antropologia, valorizzando pensatori che hanno contribuito al pari dei fondatori della disciplina a delimitarne l’area di studio, ad esempio, studiando i testi di attivisti come William Edward Burghardt Du Bois o Anténor Firmin, tra i fondatori del movimento panafricano e voci importanti contro l’idea biologica di razza, criticata con argomenti simili dal padre dell’antropologia statunitense Franz Boas.

Di esempi del genere ce ne sono tanti e, al di là del loro valore storico o teorico, credo siano importanti per rompere quella narrazione tutt’ora dominante in cui gli esperti “seri” in grado di fornire informazioni “affidabili” sono generalmente eruditi occidentali.

Qualche mese fa La Stampa riprese un reportage dell’intellettuale francese Bernard-Henri Lévy, già ardente sostenitore del disastroso intervento Nato in Libia e ora improvvisatosi esperto di Nigeria in virtù di qualche settimana trascorsa nel paese.

Questo reportage ci illumina sul “genocidio” che le popolazioni di etnia Fulani starebbero perpetrando contro i cristiani, auspicando un intervento dell’Occidente prima che sia troppo tardi.

In Francia, il quotidiano Le Monde ha dedicato ampio spazio alle critiche di un gruppo multidisciplinare di studiosi (europei, ma soprattutto africani) che ha messo in luce come il lavoro di Bernard-Henri Lévy fosse un’accozzaglia di luoghi comuni infondati e pericolosi, cui è stato dato risalto solo per la “fama” del suo autore.

Purtroppo, di queste critiche non vi è traccia su La Stampa o su altri quotidiani nazionali: per i lettori italiani, le farneticazioni di Bernard-Henri Lévy rimangono l’opinione seria e ragionevole sulle complesse dinamiche Nigeriane.

Rompere questa fascinazione per un certo tipo di esperto e di narrazione non è, dunque, solamente un esercizio accademico, ma è importante anche per fornirci lenti più chiare con cui analizzare le complessità del presente, soprattutto al di fuori dei nostri confini. 

Queste riflessioni mi portano al secondo punto cruciale di quest’analisi, ossia quali sono le voci che plasmano la nostra visione della storia. Personalmente, ricordo come nella mia infanzia Cristoforo Colombo fosse una sorta di romantico visionario che sfidando le concezioni dell’epoca intraprese un viaggio che lo portò a scoprire l’esistenza di un continente fino ad allora sconosciuto.

A parte che per le popolazioni indigene non si trattava poi di una grande scoperta, mi sarebbe bastato leggere qualche passo dei suoi stessi diari (come feci per la mia tesina di laurea triennale) per scoprire come il visionario esploratore fosse un avido razzista animato esclusivamente da brama d’oro e di conquista, una persona eticamente deprecabile anche rispetto ai già non elevatissimi standard dell’epoca; e come i massacri delle popolazioni indigene, il saccheggio delle loro risorse e lo sfruttamento delle loro terre attraverso la disumana tratta degli schiavi non fossero un incidente di percorso, ma l’attuazione puntuale e scrupolosa dell’agenda di Colombo e di chi finanziò il suo viaggio ed i successivi massacri.

Riporto questo esempio perché ne fui particolarmente colpito, ma credo sia un sintomo di un problema più ampio, ossia di come il modo in cui tendiamo a vedere la nostra storia come una sorta di “universale avanzata di democrazia e libertà”, riprendendo la disanima critica di questa idea dello scrittore indiano Pankaj Mishra, quando una prospettiva più ampia e plurale ci permetterebbe di coglierne molte criticità che ancora influenzano pesantemente il presente.

Sentiamo spesso di come il Regno Unito per primo abolì la schiavitù, ignorando la rivoluzione di Haiti del 1804 ed il suo leader carismatico Toussaint Louverture, morto nelle carceri di una Francia in piena restaurazione napoleonica dopo la rivoluzione del 1789, ma comunque costretta a riconoscere l’indipendenza all’isola ribelle, primo territorio libero dalla schiavitù e per questo marginalizzato e boicottato dalle potenze occidentali.

Le abolizioni europee arrivarono dopo, furono il risultato delle lotte degli schiavi stessi e spesso vennero rimpiazzate da nuove forme di sfruttamento e marginalizzazione, come i famigerati lavori forzati imposti ai sudditi non europei nei vari imperi coloniali o il segregazionismo negli Stati Uniti.

Mentre gli ex schiavi furono abbandonati a sé stessi, lo storico David Olusoga ci ricorda come il governo britannico fu invece generoso nel compensare finanziariamente gli ex proprietari di schiavi per la loro perdita, contraendo un debito di 20 milioni d sterline che i contribuenti inglesi (compresi i discendenti degli schiavi) hanno finito di rimborsare nel 2015.

È sulla base di questa radicale ingiustizia che movimenti per la compensazione dei discendenti di schiavi sono sorti sulle due sponde dell’atlantico, chiedendo non aiuti o carità, ma giustizia.

Guardando la nostra storia dalle colonie, con massacri, sfruttamento e politiche razziste ad accomunare i paesi che si spartirono l’Africa nella celebre conferenza di Berlino (1884 – 1885), la violenza della Prima Guerra Mondiale e i regimi totalitari che portarono alla Seconda non sono incidenti di percorso, ma parte integrante di una forma di dominio radicata e globale, come enfatizzato tra gli altri dai filosofi Hannah Arendt e Achille Mbembe.

Oltre alle compensazioni elargite dal governo britannico agli ex proprietari di schiavi, è giusto ricordare l’importanza del periodo coloniale nel generare uno squilibrio radicale di ricchezze e capacità tra Nord e Sud del mondo di cui oggi è difficile, e forse per molti anche non conveniente, liberarsi.

In How Europe underdeveloped Africa, lo storico della Guyana Walter Rodney, marxista panafricanista assassinato a 38 anni da una bomba nella sua macchina in circostanze mai chiarite, mostra come multinazionali europee oggi leader nei loro settori quali Unilever o Cadbury consolidarono il loro capitale tra la fine del diciannovesimo secolo e l’indipendenza delle colonie prevalentemente grazie alle materie prime che poterono procurarsi a bassissimo costo in virtù del lavoro forzato e altre pratiche di sfruttamento imposte dai governi coloniali. Sicuramente l’ingegno e lo “spirito del capitalismo” dei dinamici imprenditori anglosassoni hanno contribuito a questo exploit economico, ma gran parte del credito va distribuito equamente tra lo sfruttamento dei sudditi delle colonie extraeuropee e quello del proletariato nei grandi centri urbani descritti nei romanzi di Dickens. Delle conquiste in termini di diritti sociali e di cittadinanza di quei tempi, invece, dobbiamo essere grati esclusivamente all’attivismo politico di questi ultimi due gruppi. Fortunatamente queste tematiche vengono ricordate e discusse anche al di fuori delle università: oggi, la zona portuale di Bristol è costellata di monumenti ed itinerari che ne ricordano il passato schiavista, mentre l’International Slavery Museum di Liverpool e il People’s History Museum di Manchester sono due spazi meravigliosi per esplorare e comprendere quel periodo da un punto di vista colpevolmente ignorato nella nostra istruzione di base. 

Arricchire il nostro patrimonio di autori e punti di vista diversi e cercare di problematizzare la nostra visione della storia sono tra i principali punti emersi in quei seminari sulla decolonizzazione.

Oggi, quando parlo storia e sviluppo in Africa, faccio del mio meglio per valorizzare gli apporti di pensatori come William Edward Burghardt Du Bois, Walter Rodney, Samir Amin o Frantz Fanon; di far sentire voci recenti di economisti come Dambisa Moyo o Ndongo Samba Sylla, di filosofi come Achille Mbembe o Valentin-Yves Mudimbe, attiviste e scrittrici come Hindou Oumar e Chimamanda Ngozi Adichie, senza dimenticare politici del passato come Kwame Nkrumah, Patrice Lumumba, Julius Nyere, Léopold Sédar Senghor o Thomas Sankara. Eppure, ripensando a quelle discussioni e a come darvi un seguito, provo ancora una certa insoddisfazione, credo condivisa con buona parte degli altri partecipanti e rafforzata da vicende come quella dell’omicidio di George Floyd.

Gli studenti presenti in quei seminari pagano rette annuali da 10.000 pound (15.000 se cittadini extra-europei) per prender parte a lezioni brevi dal formato rigidissimo e a seminari altrettanto brevi e moderati da tutors contrattualizzati ogni semestre ad ore (15 pound per ogni ora di lavoro).

Tra le mie mansioni da tutor c’era quella di riempire un registro di presenze regolarmente monitorato dal ministero degli interni britannico, che si riservava di cancellare il (costoso) visto studentesco e deportare studenti extra-europei che non frequentassero le lezioni con regolarità.

Nei sei anni passati a Brighton ho assistito a vari esempi di ciò che in Gran Bretagna definiscono “razzismo istituzionale” e avevo la sgradevolissima impressione che il management dell’Università fosse lieto del nostro lavoro (volontario e gratuito) per “decolonizzare” alcuni curricula, cosi da poterlo usare come strumento di marketing per attrarre danarose élite extra-europee affascinate da questo approccio, senza, ovviamente, ridiscutere il “business plan” istituzionale. In soldoni, attrarre e spremere gli studenti extra-europei e sfruttare al massimo i propri studenti di dottorato, spesso anche loro cittadini extra-europei privi di borsa e quindi pronti ad accettare qualsiasi salario per mantenersi.

Imbellettare curricula insegnati in fretta e furia da personale sottopagato per pochi privilegiati che si possono permettere rette astronomiche contribuisce a “decolonizzare” il mondo? Rendere le nostre bibliografie e slides più “colorate” per far sentire a proprio agio la comunità multietnica dell’università può avere senso, se quella stessa comunità è stata precedentemente “filtrata” da assurdi regolamenti per il visto e tasse universitarie alla portata di pochi privilegiati?

Questa è secondo me la grande contraddizione di questo lavoro di “decolonizzazione”, che si tratti di abbattere monumenti o revisionare curricula: se visto solo come elemento estetico o di facciata, ignora la connessione strutturale tra le discriminazioni di razza, genere e classe che ha permeato la storia delle democrazie occidentali e di cui oggi i manifestanti indignati per la morte di Floyd denunciano l’ipocrisia.

I monumenti a personaggi come Colston, Rhodes o Montanelli urtano non solo per le ripugnanti azioni dei personaggi in questione, ma perché la mentalità e le gerarchie alla base di esse sono più vive che mai e ci portano a ritenere in qualche modo accettabile che un la polizia statunitense uccida afroamericani disarmati, che i nostri governi finanzino disumani campi di detenzione per migranti in Libia o lascino naufragare donne e bambini nel mediterraneo, che i fortunati sopravvissuti ai barconi vivano in baracche nelle campagne trattati come bestie da caporali senza scrupoli e che, in paesi che si proclamano democrazie sviluppate come gli Stati Uniti o il Regno Unito, le comunità di colore vengano falcidiate da un’epidemia come quella del Covid-19 e abbiano aspettativa di vita e livelli di istruzione più bassi della media, destino peraltro condiviso con le crescenti fasce di popolazioni sempre più povere in un occidente in cui le disuguaglianze non fanno che crescere e la mobilità sociale è sempre più ridotta.

Questi sono i drammi che la società coloniale ci ha lasciato in eredità e vanno affrontati con interventi strutturali profondi. Chiedere di rimuovere un monumento o inginocchiarsi in segno di solidarietà sono segnali positivi, ma anche molto facili e poco impattanti.

Se queste lotte vengono anestetizzate da cambiamenti cosmetici e ignorano la profonda connessione tra discriminazioni di razza, di genere e di classe e come la brutalità della polizia contro i più deboli supporta attivamente la violenza dei tagli allo stato sociale, all’educazione e alla sanità pubblica, il crescente sfruttamento del lavoro in forme sempre più precarie e meno tutelate e politiche migratorie brutali e insostenibili, non faremo altro che nascondere un po’ di polvere sotto il tappeto, fino alla prossima, inevitabile, ondata di rabbia.