Mondo del lavoro, è tempo di cambiare

di

11 Maggio 2020

L’impatto socio-economico di un’emergenza sanitaria che produce nuovi poveri, accentua le disparità sociali, ma ci dà anche l’opportunità di ripensare la società e il mercato del lavoro

Febbre, difficoltà respiratoria, tosse secca. Sono alcuni dei sintomi del Coronavirus. Disturbi del sonno, ansia, stress, depressione. Sono alcuni degli effetti diretti e indiretti della quarantena su mente e corpo.

Lavoro nero, lavoro grigio, precariato. Sono i fenomeni che caratterizzano ormai da tempo il mercato del lavoro italiano.

Emergono gli invisibili – Una realtà fatta di drammi personali, soggetti vulnerabili, vite invisibili e diritti non tutelati. Storie di serie B che fingiamo di non vedere. Ma che adesso emergono con forza, andando ad occupare prepotentemente le pagine dei quotidiani e le homepage dei principali siti di informazione.

A Palermo, un uomo arriva alla cassa con del cibo, ma non ha i soldi per pagare. A Bari, una coppia urla davanti ad una banca chiusa, chiedendo un prestito per fare la spesa e comprare medicine. A Vergato, una bambina di 12 anni chiama i Carabinieri e lancia un grido di dolore: “Aiutateci, abbiamo fame. Papà ha perso il lavoro e non abbiamo soldi”.

La chiusura di migliaia di attività e imprese dovuta al lockdown sta avendo e avrà un forte impatto socio-economico sulla popolazione italiana. Con conseguenze inevitabili anche dal punto di vista psicologico.

La fragilità delle economie mondiali – Qualche settimana fa, l’Organizzazione Mondiale del Lavoro (OIL, agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere il lavoro dignitoso) stimava che oltre 25 milioni di persone nel mondo avrebbero potuto perdere il lavoro per effetto dell’emergenza sanitaria.

Una stima decisamente al ribasso, dato che a fine marzo, negli Stati Uniti, in sole due settimane, 10 milioni di persone hanno richiesto un sussidio di disoccupazione. Tanto che la stessa OIL ha poi riconosciuto “l’elevato rischio che il numero di disoccupati possa essere superiore rispetto alle prime stime elaborate”, identificando i settori e le fasce sociali più a rischio.
In ogni caso, le prime valutazioni del Direttore generale dell’OIL, Guy Ryder, rimangono tuttora valide.

“Questa pandemia – scriveva il 27 marzo – ha mostrato le profonde faglie nei nostri mercati del lavoro. Le aziende di tutte le dimensioni hanno già interrotto le attività, ridotto l’orario di lavoro e licenziato il personale. Spesso – proseguiva Ryder – i primi a perdere il lavoro sono quelli il cui impiego era già precario: commessi, camerieri, personale di cucina, addetti ai bagagli e addetti alle pulizie. In un mondo in cui solo una persona su cinque ha diritto a sussidi di disoccupazione, i licenziamenti provocano catastrofi per milioni di famiglie”.

Allo stesso tempo, in molti stanno continuando a lavorare, anche se esposti al rischio, spesso senza tutele né alternative. Basti pensare ai lavoratori coinvolti nell’economia informale, in agricoltura o nel settore delle costruzioni.

Per loro, che rappresentano il 61% della forza lavoro mondiale, la modalità “smart working” non è un’opzione possibile. Uscire di casa è l’unico modo per portare il cibo a tavola, per sfamare sé stessi e i propri figli. Anche se questo significa esporsi ad un rischio di contagio.

“Tutto ciò – precisava Ryder – non solo aumenterà la diffusione del virus, ma a lungo termine amplificherà notevolmente i cicli di povertà e disuguaglianza”.

Italia precaria – In questo senso, l’Italia non rappresenta un’eccezione. Tra chi ha perso il lavoro da un giorno all’altro senza ammortizzatori sociali, chi continua a lavorare nei settori essenziali, spesso senza DPI (dispositivi di protezione individuale) e salari dignitosi, il virus non fa altro che produrre nuovi poveri, accentuare precarietà e disparità sociali già esistenti, mettendo in luce una serie di dinamiche ben radicate nel nostro Paese.

Secondo uno studio dell’ISTAT, durante la Fase 1 dell’emergenza, 15 milioni e 576 mila occupati su 23 milioni hanno continuato a lavorare nei settori dell’economia rimasti attivi (il 66,7% del totale degli occupati; tuttavia senza fare distinzione tra smart working e presenza fisica sul posto di lavoro e senza un riferimento al salario percepito).

E secondo un altro studio della direzione centrale Studi e ricerche INPS, basato sui dati provinciali della protezione civile e i dati amministrativi, nelle province con più occupati nei settori essenziali si è registrato un 25% di contagi in più. C’è l’esercito degli stagisti. Ci sono i lavoratori con un contratto a tempo determinato non rinnovato, i lavoratori in nero a giornata che hanno perso la loro fonte di reddito. Ci sono i commessi dei supermercati, che continuano a garantire la vendita di prodotti alimentari con contratti rinnovati di mese in mese, i riders tuttora impegnati nelle consegne a domicilio, gli operatori socio-sanitari, indispensabili ma precari.

Ci sono i braccianti impegnati nel settore agricolo, anello debole di una filiera produttiva spesso fatta di lavoro nero, lavoro grigio e caporalato (intermediazione illecita di manodopera). Alcuni di loro stanno lavorando, altri non possono spostarsi da una regione all’altra perché sono migranti irregolari privi di documenti (a questi si aggiungono i lavoratori dell’Est Europa bloccati in Romania e Bulgaria per la chiusura dei confini). Così, molti campi rimangono vuoti e il raccolto è a rischio.

Le risposte a breve termine – Se l’OIL raccomandava ai Paesi di tutto il mondo di intervenire a sostegno di lavoratori e imprese e incentiva una risposta economica globale, il Governo italiano ha messo in campo una serie di misure eccezionali (Decreto Cura Italia e Decreto Liquidità), stanziando fondi destinati alle imprese italiane, alle famiglie e ad alcune categorie di lavoratori tra cui: liberi professionisti con partita iva, co.co.co., commercianti, artigiani, coltivatori diretti, lavoratori stagionali, operai agricoli, lavoratori dello spettacolo. Tutti beneficiari del bonus da 600 euro erogato dall’Inps e dalle casse professionali.

Tuttavia, sono rimasti esclusi da ogni forma di protezione e tutela quei lavoratori che non avevano un preciso inquadramento contrattuale. È rimasto escluso quel tessuto sociale che già prima dell’emergenza sanitaria era invisibile agli occhi delle istituzioni. E che anche adesso sono le realtà del Terzo Settore e le comunità locali a sostenere con distribuzioni di generi di prima necessità, pacchi alimentari e medicine.

Secondo le stime Coldiretti, basate anche sulle rilevazioni della Caritas, i nuovi poveri sarebbero circa un milione. Tra loro “le persone impiegate nel sommerso che non godono di particolari sussidi o aiuti pubblici” ma anche “famiglie che mai prima d’ora avevano sperimentato condizioni di vita così problematiche”.

Ripensare il mondo del lavoro – Al di là della situazione emergenziale, che si inserisce nel contesto di una crisi economica mondiale, la condizione attuale impone di affrontare una serie di problemi strutturali.

Perché se è vero che siamo tutti uguali di fronte alla malattia, che il virus colpisce tutti allo stesso modo, questa pandemia ci mostra anche le storie degli ultimi, di tutti coloro che perdono il lavoro, ma non rientrano nelle statistiche e nei decreti o che rimangono poveri pur lavorando. È necessario cogliere questo periodo storico come un’opportunità per mettere in discussione alcune logiche del mercato, gettando oggi le basi per un cambiamento duraturo, che veda coinvolte istituzioni, imprese, lavoratori e società civile.

La pandemia rimette al centro l’importanza di un sistema economico che garantisca un salario minimo dignitoso, tutele e protezione sociale.

In linea con gli obiettivi di sviluppo sostenibile 8.5 e 8.8 (Agenda 2030 delle Nazioni Unite): “Entro il 2030 garantire un’occupazione piena e produttiva e un lavoro dignitoso per tutte le donne e tutti gli uomini, compresi i giovani e le persone con disabilità, e pari retribuzione per un lavoro di pari valore”. “Proteggere i diritti dei lavoratori e promuovere ambienti di lavoro sicuri per tutti i lavoratori, inclusi i lavoratori migranti, in particolare le donne, e coloro che hanno un lavoro precario”.