Palestina: donne, calcio e barriere

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17 Luglio 2020

Le calciatrici della nazionale palestinese, provenienti da diverse città e villaggi della Palestina, attraverso l’analisi di documentari ed interviste realizzate con diverse giocatrici

Quali sono le difficoltà che incontrano le calciatrici palestinesi nel loro rapporto con il mondo del calcio? Uno studio di Natali Shaheen sulle calciatrici della nazionale palestinese, provenienti da diverse città e villaggi della Palestina, attraverso l’analisi di documentari ed interviste realizzate con diverse giocatrici, è diventato un racconto collettivo che Q Code Mag pubblicherà a puntate. Le difficoltà che queste atlete devono affrontare derivano dalle differenze di genere, dalla cultura e dalla situazione economica e politica. Il confronto tra queste difficoltà e l’esperienza del calcio femminile diventa il racconto di un mondo al femminile.

Il calcio femminile sta diventando sempre più popolare ed è seguito in tutto il mondo. Ne ha dato dimostrazione la partita conclusiva della Coppa del Mondo femminile 2015, tra USA e Giappone, che ha coinvolto più di 53 mila spettatori allo stadio e un pubblico televisivo internazionale che ha superato i 25 milioni di telespettatori.

Ciononostante le donne affrontano giornalmente, nel lavoro, a casa o in qualsiasi altro tipo di attività quotidiana, discriminazioni di genere.

Le donne affrontano in tutto il mondo gli stessi ostacoli, in particolare per quanto riguarda la possibilità di praticare alcuni tipi di sport; vi sono però alcune differenze a seconda della nazione in cui vivono, soprattutto in base ai diversi aspetti culturali, tradizionali e religiosi a cui devono fare riferimento. Le barriere culturali, e più in generale quelle legate alle tradizioni, sono fra i maggiori problemi che le donne devono affrontare; e questo avviene sicuramente in Palestina.

La Palestina è considerata una comunità maschile dominante. Questo significa che le donne non sono libere di prendere decisioni per quanto riguarda il proprio stile di vita. In altre parole, la maggior parte delle donne che vivono nella comunità palestinese ha ‘guardiani’ maschi che decidono della loro vita sociale e autorizzano o vietano, a piacimento, determinate questioni. Il ‘guardiano maschio’ è solitamente un membro della famiglia.

In una cultura dominante maschile, l’opinione sul ruolo delle donne nel posto di lavoro, a casa o nella vita pubblica, è modellata su stereotipi di genere.

Dalle interviste realizzate su un campione di calciatrici palestinesi è emerso che uno dei maggiori ostacoli da affrontare è quello della mancata accettazione, da parte della società, delle donne che decidono di giocare a calcio.

Tutte le calciatrici intervistate hanno dichiarato: «Ancora oggi il calcio femminile non è accettato da gran parte della società. Vivere in una società patriarcale limita le possibilità di partecipazione al calcio femminile, e questo è un grande ostacolo per noi ragazze. Inoltre il gioco del calcio è monopolizzato dagli uomini e pertanto, secondo la società palestinese, le donne non sarebbero fisicamente in grado di competere in questo sport».

Saja Ibrahem

SAJA ha aggiunto che «La società non accetta la pratica femminile del gioco del calcio perché sostiene che il fisico delle ragazze si trasformerà e diventerà come quello maschile».

Ecco le parole di SHADEN: «Quando noi donne abbiamo iniziato a giocare a calcio, molte persone hanno rifiutato l’idea che potessimo farlo e ci hanno sottoposto a volgari e pesanti abusi verbali; questo perché le generazioni precedenti non erano abituate a vedere donne dedite allo sport o al lavoro. Anche attualmente sento persone che mi criticano perché gioco a calcio».

Allo stesso modo JACKLINE si è espressa così: «Quando ho trovato una squadra di calcio femminile nell’Università di Betlemme e ho deciso di farne parte, ho subito molti commenti negativi per questa mia scelta; in tanti dicevano che il gioco del calcio è uno sport per uomini e che è vergognoso che una ragazza universitaria giochi a calcio come i maschi».

Anche DEEMA si è pronunciata in proposito: «In questo momento la nostra società ha accettato, anche se solo parzialmente, il fatto che una ragazza possa giocare a calcio, ma questa accettazione è ancora molto limitata e ciò è giudicato negativamente. Le calciatrici palestinesi provengono da diverse classi sociali ed economiche, e l’accettazione del gioco del calcio femminile varia da un luogo all’altro dentro la stessa Palestina. Le donne soffrono di disuguaglianza di genere in tutti gli aspetti della società palestinese e il gioco del calcio non fa eccezione: ci si aspetta che le ragazze siano soltanto future mamme e femmine delicate, e per alcuni il calcio è contrario agli standard sociali femminili precostituiti. Inoltre nella nostra terra, i valori religiosi hanno un ruolo molto importante, sia all’interno dei gruppi islamici sia di quelli cristiani, e alcuni ritengono inappropriato che le donne pratichino sport in pubblico. La Palestina è una società dominata dagli uomini, quindi solitamente le donne hanno un controllo limitato sulle proprie scelte di vita; di conseguenza anche la scelta di fare sport da parte di una ragazza palestinese non sarà mai vista come una scelta personale: i maschi hanno il potere di negare alle donne di praticarlo e ancora oggi lo sport femminile è considerato non un diritto ma un privilegio».

Un’altra difficoltà, spesso menzionata dalle atlete, è quella delle restrizioni imposte da parte di parenti e familiari. Tradizionalmente gli uomini della famiglia hanno il diritto di controllare l’operato delle donne; possono quindi impedire azioni che, a loro parere, potrebbero portare disonore e, di conseguenza, macchiare il nome della famiglia.

Per le ragazze che vivono in famiglie con mentalità così ristrette, qualsiasi contatto con l’altro genere è considerato vergognoso e deve essere evitato con ogni mezzo. Tutto ciò viene preso molto seriamente e osservato rigorosamente dai membri maschili di una famiglia.

I palestinesi vivono secondo queste regole religiose e culturali e la maggior parte della comunità ritiene che le donne, se parteciperanno in prima persone ad attività sportive, usciranno dal controllo delle famiglie.

Durante l’intervista, alla domanda se il loro essere calciatrici sia stato accettato dalla famiglia e dagli amici, la maggior parte delle atlete ha risposto che i primi sostenitori sono proprio i familiari. Le famiglie le motivano e le incoraggiano molto e spesso vanno a vedere le loro partite per sostenerle. Tuttavia, alcune calciatrici hanno detto che in alcune occasioni i parenti non si sono dimostrati particolarmente entusiasti del fatto che giocassero a calcio, sottoponendole anche a commenti negativi, ma che in seguito, con il passare del tempo, la situazione è migliorata.

Si sono messe a confronto le esperienze di due calciatrici, SAJA e NOUR; SAJA ha detto: «Ho avuto seri problemi con la mia famiglia, soprattutto con i miei fratelli e i miei zii. Non volevano che giocassi a calcio perché, a causa del fatto di aver permesso ad una donna della famiglia di farlo, la famiglia veniva giudicata negativamente da amici e conoscenti in quanto ciò viene considerato vergognoso. Inoltre i miei familiari non vogliono che torni a casa tardi, sia dagli allenamenti che dalle partite, soprattutto quando queste si svolgono in trasferta. Secondo loro tutto questo porta disonore alla famiglia e ne macchia la reputazione. Addirittura in occasione dei ritiri di allenamento intensivo della nazionale, in cui era necessario dormire fuori casa per diversi giorni, e durante i campionati internazionali, non mi è stato permesso di partecipare. Altre volte hanno persino nascosto il mio abbigliamento sportivo solo per impedirmi di frequentare gli allenamenti. Nonostante ciò, io non li ho ascoltati e ho lottato molto»; e ha aggiunto: «Non sono l’unica a soffrire a causa di questo problema; tante altre calciatrici che amano il gioco del calcio non possono dedicarsi ad esso per questo motivo». Per quanto riguarda NOUR, ha dichiarato: «All’inizio i miei genitori non erano d’accordo che giocassi a calcio e ho provato a convincerli ad accettare questa mia passione; dopo tanti tentativi, finalmente ci sono riuscita, ma devo dire che non è stato affatto semplice».

Per quanto riguarda gli amici delle calciatrici intervistate, questi sono sempre stati solidali con loro e spesso molti di loro seguono le partite per incoraggiarle. Come si deduce dalle interviste fatte alle calciatrici, molte ragazze palestinesi vorrebbero giocare a calcio ma, a causa delle restrizioni familiari o delle imposizioni della società, sono costrette a rinunciare.

In un’altra intervista NIVEEN ha sottolineato: «Sto cercando di convincere i miei amici che le donne possono giocare a calcio e che la religione islamica non lo proibisce». AMIRA ha aggiunto: «Le mie amiche musulmane che portano il velo e le mie compagne di classe mi dicono sempre: “Vorremmo poter giocare come fai tu!”; e quando io le invito a venire a giocare a calcio con me, loro rispondono: “non possiamo … sai che la nostra cultura non ce lo permette”».

Un altro problema che pone la nostra società è quella del modo di vestirsi. L’hijab è un vestito che copre tutto il corpo, tranne il viso e le mani, e deriva da una parola araba che significa “copertura”. Le donne musulmane possono essere costrette ad indossarlo oppure possono indossarlo per scelta personale, familiare o sociale. Alcune donne lo indossano non solo per scopi religiosi, ma anche per abitudine, per moda o come protezione dallo sguardo maschile. Comunque non indossarlo potrebbe essere visto come un’azione contro l’Islam.

Deema Yousef

La maggior parte delle donne musulmane pratica sport in abiti a maniche lunghe, mentre altre indossano abiti in stile occidentale. Le decisioni prese dalle ragazze e dalle donne musulmane, per quanto riguarda la scelta del proprio abbigliamento sportivo, può causare conflitti e controversie all’interno delle famiglie, delle comunità e dei leader religiosi.

La maggior parte delle calciatrici intervistate ha risposto di essere libera di indossare l’abbigliamento sportivo previsto dal calcio (pantaloncini e maglietta) ma che la scelta dipende dal luogo specifico in cui si deve giocare la partita e dalla mentalità della gente del posto. Questo accade perché la mentalità della gente varia da città a città e in alcuni luoghi sono più rigorosi che in altri. SHADEN, a questo proposito, ha detto: «In Palestina sei criticata quando metti dei pantaloncini; lo considerano un abbigliamento inappropriato per una donna e vogliono che le calciatrici indossino maglie a maniche lunghe e pantaloni». NOUR ha aggiunto: «Prima non avevo la libertà di indossare vestiti da calciatrice, ma ora va meglio. Tuttavia ancora oggi ricevo molti commenti negativi da parte di varie persone e questi commenti vengono riportati anche sotto le nostre immagini pubblicate sui social media». DEEMA ha commentato: «Personalmente indosso sempre il completo da calcio, tuttavia sono stata spesso criticata per via dei pantaloncini che indosso durante le partite; ma il mio caso non è il più grave in quanto a numerose calciatrici è addirittura proibito indossare la divisa per motivi sociali o religiosi». JACKLINE ha aggiunto: «In occasione di una partita giocata con la nazionale in una zona a sud di Hebron, non abbiamo potuto mettere i pantaloncini per rispettare le tradizioni della città di Dura che ci ospitava; abbiamo quindi dovuto indossare una maglietta a maniche lunghe e la calzamaglia sotto il completino». Mentre SAJA ha riferito: «Indosso l’hijab e faccio sport con indumenti a maniche lunghe; questa è una mia scelta personale e mi sento a mio agio e sono felice».

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