Palestina. L’Intifada dell’unità

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21 Maggio 2021

Uno sguardo sulle differenze tra la resistenza di questi giorni e il passato

C’è una foto in bianco e nero che ritrae uomini per le strade di Palestina. La testa coperta dalle kefie, i tradizionali abiti bianchi, le mani tese al cielo come a dire, “ci siamo”. E’ il maggio del 1936, ed è appena stato dichiarato uno sciopero generale su tutta la Palestina storica contro il Mandato britannico, le sue politiche ambigue, l’immigrazione ebraica che si sta facendo sempre più imponente. E’ da poco iniziata quella che passerà alla storia come al-Thawra al-Kubra, la “Grande Rivolta” palestinese, che fino al 1939 vedrà una sollevazione popolare senza precedenti infiammare città, villaggi e campagne.

C’è un’altra foto che in queste ore le viene accostata, questa volta a colori. Uomini e donne con le bandiere palestinesi, le mani ancora al cielo, come a dire “siamo tornati”. E’ il maggio del 2021, si può essere a Ramallah come a Betlemme, ad Haifa come a Jenin. Sono passati 85 anni ed è stato dichiarato un nuovo sciopero generale su tutta la Palestina storica, senza alcuna distinzione geografica. Tutto chiuso, tutti fermi.

L’Intifada dell’unità, così l’hanno chiamata. Due termini che, insieme, danno la misura dell’elemento di novità a cui si sta assistendo in queste ore.

Il Ramadan, le provocazioni israeliane a Gerusalemme Est, le minacce al quartiere di Sheikh Jarrah. E ancora, le elezioni palestinesi annunciate per la prima volta dopo 15 anni e poi nuovamente bloccate; quelle israeliane – le quarte in 2 anni – risolte con l’ennesimo spostamento a destra; la commemorazione della Nakba alle porte. Che si fosse di fronte ad un contesto potenzialmente esplosivo era evidente da tempo. E’ diventato ancora più chiaro quando i razzi di Hamas hanno raggiunto Tel Aviv, in una reazione apparsa da subito sproporzionata, e come un palese tentativo di mettere la firma sulla rabbia popolare che già stava infiammando le strade.

E che si fosse di fronte ad una pagina nuova della questione palestinese, anche questo era chiaro da giorni. Da quando, nonostante l’attenzione mediatica e globale si fosse già inevitabilmente concentrata sul nuovo massacro in corso nella Striscia di Gaza, a sollevarsi erano state le comunità palestinesi residenti nelle città all’interno dei confini israeliani. Le cosiddette “città miste”, quelle in cui si racconta di una pacifica convivenza che ha piuttosto i toni della segregazione per una cittadinanza palestinese da sempre di serie b. Quelle che, in questi giorni, hanno visto un’inedita sollevazione esplosa in seguito ai fatti di Gerusalemme e Sheikh Jarrah, unita ad episodi di violenza portati avanti da gruppi di coloni ed estremisti di destra israeliani, sostenuti dall’esercito e dalle forze di polizia. “Pogrom antiarabi”, come sono stati da più parte definiti, che hanno mostrato il volto brutale di una società sempre più spostata a destra, che delle sue frange estreme ha definitivamente perduto il controllo.

Una comunità, quella palestinese in Israele, rimossa tanto dalla narrazione mediatica quando dalla solidarietà militante. Resa invisibile dall’uso di un lessico confuso che le attribuisce la dubbia etichetta di “araba israeliana”, marginalizzata in una lotta di resistenza che spesso non ha considerato prioritaria la sua oppressione. Eppure, è proprio da quella comunità, da quelle città che si volevano “pacificate”, che è partita la scintilla di una nuova Intifada, e che uno dei suoi Manifesti politici è stato diffuso.

 Il “Manifesto della dignità e della speranza”

Il 16 maggio il web inizia ad essere invaso di appelli allo sciopero generale. Arrivano da più fronti, non sembra esserci un coordinamento centrale. Slogan e banner si moltiplicano: invitano la popolazione palestinese alla serrata “in tutti i territori della Palestina storica”, e fanno appello alla solidarietà internazionale perché siano indette giornate di azione. La data stabilita è il 18 maggio. Pochi giorni prima, in occasione delle commemorazioni della Nakba, le piazze di tutto il mondo sono già tornate a riempirsi di sit-in e cortei solidali come non si vedeva da anni. Anche in Italia: a prendere parola, in questo caso, sono le seconde generazioni palestinesi, protagoniste di una mobilitazione in presenza e sui social network che non si vedeva da tempo.

Uno dei manifesti ufficiali della rivolta del 18 maggio arriva proprio dai territori del ’48: anche questo, in sé, un elemento di assoluta novità. E’ il “Manifesto della dignità e della speranza”.

“Siamo qui per scrivere insieme un nuovo capitolo”, si legge nel documento. “La questione è semplice: siamo un unico popolo in tutta la Palestina. Il Sionismo ha cercato di dividerci e isolarci in aree geografiche separate, di trasformarci in società diverse. Così, ognuno di noi vive nella sua prigione”, prosegue.

La prigione di Gaza, naturalmente. Assediata ormai da 15 anni, ciclicamente colpita da raid militari che somigliano sempre più a test di massa per nuovi sistemi d’arma. Quella della Cisgiordania, militarmente occupata dal 1967, frammentata, colonizzata. Quella che il Manifesto definisce “la prigione della cittadinanza”, in cui vivono 1 milione e mezzo di palestinesi costretti a una vita di discriminazioni. La prigione delle diaspore, infine, che sono tornate a reclamare il proprio diritto al ritorno con manifestazioni ai confini della Giordania e del Libano.

“Ma oggi – si legge ancora nel Manifesto – scriviamo un nuovo capitolo di unità e di Intifada che ha un solo obiettivo: la riunificazione della società e della lotta palestinese”. E così è stato: la giornata del 18 maggio ha visto manifestazioni imponenti e trasversali, senza alcuna distinzione geografica.

La rabbia come fatto politico

Se l’appello al superamento delle frammentazioni imposte dalla dominazione coloniale israeliana è la principale novità di questi giorni, lo è anche la composizione delle piazze. A guidare questa rivolta non ci sono partiti né schieramenti politici. Nonostante l’evidente tentativo da parte di Hamas di monopolizzare la resistenza e schiacciarla su un piano esclusivamente militare, le sollevazioni di queste ore parlano d’altro. Si inseriscono in un più vasto contesto di mobilitazioni che, ormai da un decennio, sono caratterizzate dall’assenza di una leadership politica o partitica organizzata e da una composizione prevalentemente giovanile.

Alla testa del movimento una generazione da sempre estromessa dalla partecipazione politica e dal gioco democratico – se le elezioni si fossero davvero svolte a maggio, sarebbe stata la sua prima volta alle urne -; cresciuta in un contesto di occupazione, apartheid e colonialismo. La cosiddetta “generazione Oslo”, che inizia a reclamare il proprio diritto di parola già nel 2011, nel pieno delle rivoluzioni arabe, e che a più riprese in questi anni ha guidato tentativi di sollevazione, sperimentando nuovi approcci intersezionali come il movimento femminista “Tal3at”. Ma che questa volta fa di più.

Tra gli elementi centrali di queste ore c’è infatti la volontà di ridefinire le coordinate della lotta di resistenza, e l’uso delle parole scelte per nominare l’oppressione. Un tentativo di riappropriazione e risignificazione del linguaggio, che rifiuta le astratte categorie imposte dalla diplomazia e dal sistema mediatico internazionale.

“Pulizia etnica”, “apartheid” e “occupazione militare” come strumenti di un più vasto sistema di colonialismo di insediamento sono i termini che si chiede di avere il coraggio di utilizzare, abbandonando il “vocabolario del negoziato” imposto a partire da Oslo, il lessico bellico, la vuota retorica della “pace”.

Dal fiume al mare” è lo slogan che oggi torna a farsi spazio, non tanto nell’accezione che nega l’esistenza di Israele, quanto in quella che re-impone un’unità identitaria e resistente.

Una generazione che non teme di connettersi con altre lotte, tracciare paralleli, osare immaginari radicali. E in fondo, tornare a quell’eredità che fu propria degli anni d’oro dell’OLP e di una resistenza che si inscriveva nell’alveo di un più vasto movimento anticoloniale e per il diritto all’autodeterminazione dei popoli.

Uscire dal particolare, osare l’universale insomma, costringerci a fare i conti con la rabbia di chi è oppresso. Con il fatto che la misura possa farsi colma, e il caos esplodere.

“Se un popolo è privato di voce e potere per decenni, prima o poi si solleverà per reclamare il suo diritto di parola. E’ tempo di capire questa rabbia, non di giudicarla”, sottolinea la studiosa Abir Kopty.

La generazione che guida questa rivolta ci sta dicendo infine che non è solo necessario, ma possibile, salvare Sheikh Jarrah e anche Gaza. Che occorre porre fine all’occupazione militare della Cisgiordania senza dimenticare Gerusalemme. Che ci si può battere per i diritti delle comunità palestinesi discriminate in Israele senza dimenticare il diritto al ritorno di quelle della diaspora. Che non è necessario cedere alla gerarchia del dolore, alla strumentale graduatoria dell’oppressione.

Solo affrontando la questione palestinese nella sua complessità, tornando alle origini, sarà possibile scrivere questo nuovo capitolo. Un’origine che ha un nome, sebbene impronunciabile: colonialismo d’insediamento. Che, come ricordano le piazze palestinesi oggi, “non ha nulla di complicato, ed è ora che finisca”.