Città satellite: la città del futuro – 3

di

8 Giugno 2020

La terza puntata del reportage scelto nel 2019 dalle giurie dei Pitching di Meglio di un romanzo – Festivaletteratura di Mantova

Alla periferia di Limbiate, nella provincia di Monza-Brianza, ci si può imbattere nelle rovine di un gigantesco parco di divertimenti, una “città dei giochi in mezzo alle fabbriche” aperta negli anni del boom economico e ormai inaccessibile.
Pochi chilometri separano questa zona abbandonata da Milano e da una delle aree più ricche e popolose d’Italia, ma la memoria di ciò che ha rappresentato si intreccia nitidamente ai destini di un Paese (il nostro) e a quelli di pochi abitanti che continuano a vivere ai suoi confini. Città Satellite di Giulia Oglialoro è il reportage scelto a Festivaletteratura 2019 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo per essere sviluppato a puntate sul sito del Festival e su Q Code Magazine, che coordina la giuria con il condirettore Christian Elia.
In questa prima puntata incontriamo Gino, titolare di una sala da ballo e testimone di un luogo “scomparso sotto la scure del tempo”.

[Leggi l’introduzione]

[Leggi la prima puntata]

[Leggi la seconda puntata]

LA CITTÀ DEL FUTURO
[di Giulia Oglialoro]
Terza puntata

Gino e sua moglie non sono gli unici abitanti di Città Satellite. Basta lasciarsi alle spalle il Comedia Club e camminare un paio di chilometri lungo le mura della Città, per imbattersi nella roulotte in cui vivono Ottavio Sardena e suo figlio Christian – gli ultimi giostrai rimasti.

Da fuori non è semplice intuire che si tratti di un luogo abitato: tra le ruote ormai sprofondate nel fango, e il tetto reso pesante e ammaccato dalle foglie e dai rami che si allungano fino ai vetri, questo caravan in stile anni ‘70 sembrerebbe confondersi con le tante attrazioni disfatte che punteggiano la Città. Ma se l’aspetto esterno contiene qualche nota di desolazione, la luce ambrata che avvolge le stanze, i vecchi manifesti color pastello che ritraggono la giostra di cavalli, le fotografie appese alle pareti in cui compaiono coppie che danzano vicino all’ottovolante o ragazzi in fila per l’autoscontro – tutto questo fa pensare a un museo in miniatura, una specie di capsula del tempo che conserva le ultime tracce di Città Satellite.

“Alle volte mi sembra sia stato solo un sogno” dice Ottavio Sardena, seduto davanti alla finestra. Molto anziano, parla con voce bassa e ferma, la coperta rossa poggiata sulle spalle gli dona un’aria principesca. “Sa, gli altri giostrai sono stati sfrattati negli anni, ma a noi mica possono mandarci via così, su due piedi. La roulotte ha il tetto in amianto, bisognerebbe poi bonificare il terreno…”

Dice così, e intanto un gatto si accuccia sulle sue gambe. E i felini sono i veri padroni della roulotte, ne contro almeno sette, sparsi tra il salotto e la cucina. “Tutti randagi” mi dice il figlio, Christian, mentre prepara il caffè su un piccolo fornello da campeggio – è così alto che la sua testa sfiora il soffitto, ogni suo movimento è un annuncio di disastro, urta di continuo contro mobili e credenze. “Gattacci randagi, si aggirano per il bosco, tra le rovine, noi li accogliamo, ce ne prendiamo cura”. Avvicina le mani al fornello per proteggere la fiamma, i bagliori azzurri danzano fra le sue dita.

Città Satellite nel 1964. Archivio Ottavio Sardena

“Quando sono arrivato qui,” dice il padre, “assieme a mia moglie, nei primi anni Sessanta, Città Satellite era solo una cava vuota. Una distesa di polvere, nient’altro.”

Inchioda lo sguardo al vuoto e mi racconta di un’infanzia che immagino scritta su un antico libro di fiabe con illustrazioni colorate e pagine in cartone spesso, un’infanzia trascorsa in una famiglia di giostrai e saltimbanchi, girando le piazze, le città di mare, seguendo la fortuna laddove capitava. È così che ha conosciuto Renata, sua moglie, un’estate sul finire negli anni Cinquanta: lei aveva “un tiro a segno”, indossava stivaletti di pelle e lunghe camicie a fiori, e anche se ormai è scomparsa da molti anni, è così che a lui piace ricordarla, come in quelle sere di giugno in cui, a fine turno, Renata si avvicinava, sfilava una freccetta colorata dalla tasca e lo invitava per una partita.

“I primi anni lavoravamo qui solo d’estate. Poi nel1964, al signor Brollo, che era proprietario di tutto il terreno, è venuta l’idea di fare una Città dei giochi. Niente più spettacoli viaggianti, ma giostre fisse, aperte tutto l’anno. Con i ristoranti, gli animali, un posto per ballare, e il treno che gira tutt’attorno.” Ottavio mica ci credeva, all’inizio. Gli avevano parlato di città simili in Cina, nel Nord Europa, ma lui non aveva mai vissuto in un posto per più di tre mesi. Non sapeva cosa volesse dire amare un luogo, uno soltanto. È stata Renata a dirgli: fermiamoci. “Christian è nato quell’anno.”
“Papà, a lei non interessano queste cose” dice il figlio dall’altra stanza.
“La giostra preferita di mia moglie era quella dei cavalli. A me piaceva quella coi seggiolini volanti, di notte sembrava un fiore illuminato. Vedevo i ragazzi sfrecciare via, velocissimi, alcuni si spingevano e arrivavano ancora più in alto.”

Il figlio arriva con il caffè e decine di mappe sotto braccio, le sparge sul tavolo, seguo la sua unghia che corre su e giù per la carta ammuffita. Dice che il parco divertimenti sarebbe stato solo l’inizio, che il progetto vero e proprio prevedeva una “Città industriale e residenziale” – ed è come se questa promessa di grandiosità si fosse trasmessa negli anni, come se Città Satellite fosse ancora in attesa di questo miracolo urbanistico. “Qui dovevano sorgere nuove fabbriche” dice, indicando sentieri e nomi ormai sbiaditi, “qui invece degli alberghi, e pure un aeroporto, doveva essere pronto perl’Expo.”
“È venuta giù tanta di quella neve il primo anno” dice il padre.
“E poi qui accanto ai gonfiabili dovevano farci un cinema, vede? Lo scriva, che ci avevano promesso un cinema.”
“Tanta di quella neve che abbiamo dovuto chiudere la Città per qualche giorno. Stavamo così, sepolti sotto la neve come un segreto.”

Osservo le giostre disegnate, i palazzi ridotti in scala, i chilometri compressi in pochi centimetri. Planimetrie sempre più articolate, piante di città mai esistite che immagino di sovrapporre alle immagini satellitari di adesso, alle foto scattate dai droni dai tanti fotografi amatoriali che vengono a fare gite nel parco. Capisco che una mappa è solo un modo per nominare un luogo, ed è difficile dire cosa sia stata Città Satellite perché la sua immagine si fonde con ciò che poteva diventare, ciò che ha significato per chi l’ha vissuta e ciò che è diventata.
“Dicono che vogliono costruire, e poi costruire, costruire ancora.”

Se è difficile tracciare il perimetro di Città Satellite, di una cosa sono sicura: Gino e i Sardena vivono ai confini. Non solo alla periferia di Milano, alle porte di un defunto paese dei balocchi, ma anche ai confini di tutte le mappe e i progetti, in un limbo putrido che sfugge a qualsiasi coordinata, in uno spazio in disfacimento che è un luogo fisico ma anche mentale, fatto di procrastinazioni e atti mancati. E nell’eterna attesa che qualcosa cambi, il terreno sotto i loro piedi diviene sempre più instabile, malfermo, sempre più tossico.
“Scriva che non è vero, non è vero niente.”

Città Satellite nel 1964. Archivio Ottavio Sardena

La luce fuori dalla roulotte comincia a calare, se presto attenzione mi sembra di poter sentire i respiri di tutti i gatti nella stanza.

“Non era semplice vivere e lavorare qui,” confida il padre, “Ci venivano tutti, la brava gente e i criminali.” Da una cartella gialla che odora di pioggia e lavanda invecchiata estrae decine e decine di articoli datati tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, in cui il bosco alle porte di Città Satellite viene descritto come “il cimitero della malavita”, un luogo in cui si consumano regolamenti di conti e traffici di ogni tipo. Esito qualche secondo. L’immagine di Città Satellite come “regno di banditi, ladri e sequestratori”, di affari illecitirealizzati tra un giro sull’ottovolante e una partita a freccette, avrebbe un ché di comico, se non si sovrapponesse alle notizie di ritrovamenti di cadaveri a pochi metri dai castelli colorati che segnavano l’ingresso del parco, o all’operazione “Epaminonda bis”: all’alba del 7 giugno 1985, schiere di carabinieri fecero irruzione nel palazzo che sorgeva a un centinaio di metri da questa roulotte, arrestando 87 persone con l’accusa – si legge in un articolo di Repubblica datato quello stesso giorno – di “cattura per omicidio, associazione a delinquere di stampo mafioso, rapine, lesioni, detenzione e spaccio di stupefacenti, porto e detenzione di armi da guerra e munizioni”.

“Certe notti sentivamo le sventate di mitraglia in mezzo al bosco, mio figlio si svegliava gridando. Al mattino trovavo i segnali stradali bucati, raccoglievo i bossoli davanti a casa.”
“Alla signorina non interessano queste cose” dice il figlio, “Scrive gli articoli, e di come vivevamo o non vivevamo non interessa a nessuno.”
“In Città venivano anche quelli delle Brigate Rosse” dice il padre.
“Non dire scemenze” dice il figlio.
“Non sono scemenze” dice il padre, “me lo ricordo. Un piccolo gruppo di amici, tre ragazzi e una ragazza, vestiti di tutto punto. Frequentavano spesso la Città nei primi anni Settanta.” Non ha mai saputo i loro nomi, Ottavio, ma li avrebbe riconosciuti nelle foto sui giornali come gli esponenti della Walter Alasia, la colonna brigatista attiva a Milano. “Un giorno giocavano alla giostra dove si pescano i pesciolini di plastica. Ridevano, si divertivano. Poi uno di loro si è piegato e gli è scivolata la pistola dal taschino della camicia. È finita nell’acqua. Nessuno rideva più.”
“Non è mai successo” dice il figlio.
“Invece sì” dice il padre. “Il ragazzo mi ha puntato gli occhi addosso… Io ho raccolto la pistola e gliel’ho ridata, che altro dovevo fare?”
“Ti inventi le cose” dice il figlio “Così hai qualcosa da ricordare. Ma non è mai successo.”
“I miei ricordi sono i miei ricordi” dice il padre. Osservo la sua sagoma in controluce, il vento muove gli alberi pallidi alle sue spalle.
“Comunque presto andremo via.”
“Io non vado da nessuna parte.”
“Hanno sfrattato tutti e sfratteranno anche noi.”
“Forse qualche pesce nel lago è ancora vivo. Lo sa, signorina, che avevamo le carpe e le trote? Verso la fine qualcosa non andava perché pescavamo pesci troppo grandi. Dicono che sia stata qualche alga a infettare tutto.”
“Ho preso una casa a Misinto, qui vicino” mi dice il figlio, e con l’unghia gratta via una piccola crosta sul vetro. “E ho un nuovo lavoro, appendo le luminarie nelle città, durante le feste. Lo faccio anche per gli spettacoli dei circhi. Nella casa nuova avremo un giardino grande, possiamo portarci i gatti. E poi ci sono i bar vicino, c’è un ipermercato. È un buon posto per noi.”
“Quando sono arrivato qui, al posto della Città c’era solo il deserto” dice il padre, “Solo una grande, inutile collina.”
Christian arrotola alcune mappe e sotto due fogli impilati spunta la foto di un ciliegio in fiore.
“Lo fotografo ogni anno, ogni primavera” mi dice il padre. “È il primo albero che abbiamo piantato. A dire il vero, l’aveva piantato mia moglie. Sta qui vicino, prima dell’ingresso nel parco. Strattonato dal vento e picchiato dalla neve. Eppure è rimasto, qualcosa rimane sempre.”

Un gatto sale sul tavolo, scavalca le tazzine con lo zucchero ormai rappreso e cammina sulle ultime mappe. Ha il pelo sporco di fango e piccole croste vicino agli occhi. Si sdraia supino, allunga la schiena fino a coprire l’intera lunghezza del tavolo, poi tende le zampe verso il soffitto.

Città Satellite. Archivio Ottavio Sardena