Città Satellite: la Città del futuro

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5 Marzo 2020

La prima puntata del reportage scelto nel 2019 dalle giurie dei Pitching di Meglio di un romanzo – Festivaletteratura di Mantova

Alla periferia di Limbiate, nella provincia di Monza-Brianza, ci si può imbattere nelle rovine di un gigantesco parco di divertimenti, una “città dei giochi in mezzo alle fabbriche” aperta negli anni del boom economico e ormai inaccessibile.
Pochi chilometri separano questa zona abbandonata da Milano e da una delle aree più ricche e popolose d’Italia, ma la memoria di ciò che ha rappresentato si intreccia nitidamente ai destini di un Paese (il nostro) e a quelli di pochi abitanti che continuano a vivere ai suoi confini. Città Satellite di Giulia Oglialoro è il reportage scelto a Festivaletteratura 2019 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo per essere sviluppato a puntate sul sito del Festival e su Q Code Magazine, che coordina la giuria con il condirettore Christian Elia.
In questa prima puntata incontriamo Gino, titolare di una sala da ballo e testimone di un luogo “scomparso sotto la scure del tempo”.

[Leggi l’introduzione]

LA CITTÀ DEL FUTURO
[di Giulia Oglialoro]
Prima puntata

 

Un salone grande, punteggiato da colonne in finto marmo. Catene luminose al led rosa e blu elettrico pendono dal soffitto. Entro passando attraverso pesanti tendoni rossi che ricordano i vaudeville dell’Ottocento. In fondo alla sala, un bancone con gli sgabelli alti, di quelli in legno lucido, che arredano le catene dei ristoranti western, e poi lì accanto un pavone in ferro con la coda spezzata, e poi ancora lungo le pareti un acquario spento, contiene solo una conchiglia e qualche corallo. Le statue sono ovunque, bianchissime, in finto stile neoclassico – quelle femminili hanno collane di fiori intorno al collo, quelle maschili sono inondate da torce che sprizzano a rotazione luci verdi e blu e viola. All’altra estremità della sala, Gino Amoroso – un uomo sulla settantina, felpa sportiva e pantaloni a scacchi – spolvera lunghi divani a righe. “Sono come quelli che si vedono nei vecchi film americani” dice, “non le sembra?”

Questo è il Comedia Club, sala da ballo alla periferia di Milano, inaugurata nel 1964. Gino e sua moglie Antonietta l’hanno presa in gestione nel ’93, dopo averla frequentata per oltre vent’anni. Qui vivono e qui danno lezioni di mazurca, viennese, polka, valzer lento, tango e fox strot.
Su una parete, una stampa in bianco e nero che raffigura Parigi di notte convive accanto al poster di due anziani impegnati in un casqué – la donna tende le braccia al cielo, lustrini argentati le cadono dai polsi.

Questo è il Comedia Club, ed è tutto quel che rimane di una Città che non esiste più.
Un bosco fitto circonda il locale. La neve si scioglie sull’asfalto crepato, gocciola da montagne di televisori e ruote e materassi abbandonati lungo la strada. Di fronte al Comedia, un grande cancello, chiuso con catenacci. Poco oltre s’intravedono appena il profilo di un ottovolante e qualche insegna sbiadita, le erbacce hanno divorato ogni sentiero.

Comedia Club, Limbiate (Città Satellite). Foto: Giulia Oglialoro

“I primi ad ammalarsi sono stati i pesci” dice Gino. Ce n’erano tanti, nel lago di Città Satellite, “trote e carpe e salmoni”, arrivavano coi camion, dentro grosse cisterne. Ogni giorno la gente veniva a pescare, i ragazzi in gita scolastica gettavano pezzi di pane e allora dall’acqua scura venivano su tutti i pesci, anche quelli più piccoli, acchiappavano qualche mollica e poi scomparivano.
C’erano anche le scimmie nelle gabbie, e i cavalli e i lama nei recinti, sparsi qua e là fra le giostre.

Una volta Gino ha chiesto di poter usare un lama per uno spettacolo: i ballerini volteggiavano e facevano le acrobazie e intanto portavano l’animale a spasso per la sala, in mezzo al pubblico. La gente lo guardava a bocca aperta, allungava le mani per accarezzargli il pelo.

“A Città Satellite ci venivano tutti”. Le famiglie, le compagnie di amici, gli amanti. La maggior parte erano operai, lavoravano nelle raffinerie, come Gino, “nei grandi stabilimenti della Snia o facevano l’Alfa Romeo. Una città dei giochi in mezzo alle fabbriche… L’hanno aperta nel ’64, e c’era una canzone, quell’anno lì, con un bacio piccolissimo / con le labbra tue di zucchero…” E così, per più di quarant’anni, un mare di gente che andava e veniva, una fila lucente di macchine, non se ne vedeva la fine. I più arrivavano con le Seicento, sobbalzando sulle strade disfatte e malconce, qualcun altro persino a piedi, camminando fra sentieri boscosi e campi incolti, con le zecche che di tanto in tanto si attaccavano ai polpacci.

Di giorno tutti in fabbrica, chini sui telai, a saldar carrozzerie, la sera a mangiar patatine e cotolette nei chioschi, o al Comedia Club – alcuni spegnevano le sigarette sui divani, sulla stoffa ci sono ancora i segni delle bruciature. “Mi dico sempre che dovrei cambiarli, i divani, fare spazio, prendere cose nuove, ma poi non lo faccio, non lo faccio mai”.

Adesso siamo alla periferia di Limbiate, nella Monza e Brianza, ma all’epoca Limbiate mica esisteva. “Questo fazzoletto di terra si chiamava Case Sparse. Se prendevi una mappa non ci trovavi, stavamo lì dov’era disegnato il bosco”.

C’erano ristoranti, piste di pattinaggio, abitazioni nuove di zecca e grandi viali per passeggiare sotto le luminarie. E poi tantissime giostre, “tutte quelle che immagini” – autoscontro, sale giochi, “lattine da sparare”, e persino una tabaccheria, la gestivano tre fratelli. Venivano dal manicomio di Mombello e ripetevano tutti e tre la stessa frase. Prendevi un pacchetto di sigarette e uno dopo l’altro dicevano: Duemila lire, duemila lire, duemila lire. Gino non ricorda più i loro nomi, e dove siano andati dopo, “quando la Città è finita”, solo questo modo che avevano di parlare, uno dopo l’altro, come campane: Arrivederci, arrivederci, arrivederci.

C’era anche la casa degli orrori, su due piani, al tempo faceva paura davvero. Però lui non è che si spaventasse molto, li conosceva gli attori, quelli che passavano le giornate al buio, truccati “come le bambole morte”. Certe volte, quando finivano il turno, venivano a bere qualcosa qui al Comedia, entravano con i costumi ancora addosso.

Non esisteva nulla di simile in Italia. Esistevano i luna park temporanei, di una stagione, certo, “ma i parchi divertimento… Città Satellite è stato il primo”. Un luogo votato al divertimento perenne, la promessa di una gioventù che non si sarebbe mai arresa.

Gino immerge uno straccio in un secchio d’acqua, lo torce fino a ridurlo una treccia sottile, ascolto l’acqua che gocciola. “C’era un treno che girava intorno al parco” dice, “ti davano il gelato quando salivi”. Ora i binari s’intravedono appena sotto la neve, scompaiono in mezzo al bosco.
Al centro della città c’era l’ottovolante, azzurro, “puzzava di ruggine”. Le carrozze avevano la forma di una navicella spaziale. “Salivano piano” dice, mentre le luci blu e rosa si riflettono sul pavimento bagnato, “salivano piano e da lassù potevo vedere il lago, e la gente seduta a mangiare sui grandi tavoli in legno; vedevo i boschi e vedevo persino Milano, con le case piccolissime in lontananza”. Poi la giostra scendeva giù velocissimo. Gino chiudeva gli occhi, sentiva il Sole sotto le palpebre.

“Per primi si sono ammalati i pesci, sì. Un’alga aveva infettato il lago…” Allora sono arrivati le ASL, i carabinieri, i tribunali: hanno accertato che le condizioni igieniche erano scarse; hanno emanato un’ordinanza di abbattimento della pista go-kart per abusivismo edilizio, “una cosa del genere”; hanno aperto un’indagine sulla gestione dei parcheggi, affidata a una cooperativa priva di autorizzazione, e nel 2002 “son finiti i giochi”. Messa all’asta dal Tribunale di Milano, Città Satellite è stata acquistata dal comune di Limbiate, che ne ha fatto un eterno cantiere, incagliato tra promesse e progetti mai realizzati.

“Nessuno veniva più a pescare da un pezzo, e poi col tempo la gente nell’acqua aveva buttato di tutto, rifiuti di ogni tipo”. Prima che si chiudessero i cancelli, del lago rimaneva solo una chiazza di latte sporco, e una costellazione di sigarette e bestie morte che galleggiavano nel mezzo.

Mentre l’odore della candeggina si sparge per tutto il locale, Gino scompare qualche secondo nello sgabuzzino e torna con una scatola di fotografie in bianco e nero. “Ecco” dice, “questi erano i divi che venivano al Comedia Club negli anni Sessanta. Città Satellite era appena nata e già splendeva”.

Stende le fotografie sul bancone e ci appoggia sopra i gomiti, con i palmi delle mani tiene gli angoli. È una lotta fisica, la sua, contro la carta ispessita dall’umidità, contro i bordi arricciati e ingialliti.
“Mille volte hanno promesso che avrebbero riaperto il parco” dice, mentre osservo la foto di una cantante che tiene un ghepardo al guinzaglio; dall’autografo, in basso a destra, quasi sbiadito, leggo Lara Sampol.

“Volevano farci gli hotel a cinque stelle, con le piscine e i campi da golf… Formigoni voleva costruirci la ruota panoramica più alta d’Europa” dice, e intanto Gianni Morandi stringe due colombe fra le mani, il pubblico intorno osserva meravigliato. “Prima dell’Expo hanno stanziato milioni per costruire un eliporto, e pure un cinema all’aperto, in mezzo al lago” – e vedo Mina che brinda avvolta in un cappotto di piume scure. Un primo piano mostra Patty Pravo sorridente, i lunghi capelli scompaiono nel nero. “Se era un sogno non mi sono svegliato”.

Esterno Comedia Club (Salon Dancing) negli anni Sessanta, Limbiate (Città Satellite). Foto: Archivio Gino Amoroso

Da anni, racconta Gino, è sempre la stessa storia che si ripete: il Comune annuncia un grande progetto di riqualificazione, appalta i lavori a qualche ditta costruttrice e puntualmente la ditta dichiara il fallimento poco dopo l’inizio dei lavori. “E così, il discorso si interrompe…”
Gino dice proprio così, il discorso. L’impressione, non appena si mette piede a Città Satellite, è proprio quella di un discorso interrotto, di un luogo ormai sprofondato in un balbettio afasico.

Percorrendo via del Laghetto, la strada che dal paese di Limbiate conduce al vecchio parco divertimenti, non s’incontrano che ruderi in mattoni scoloriti, ossature in cemento, cavi gommosi appesi agli alberi, infissi per finestre gettati fra le chiazze di erba alta e robusta – dettagli di un paesaggio frantumato, illeggibile come la pagina di un libro in cui qualcuno si sia divertito a scombinare tutte le lettere. Ma è oltre i cancelli d’ingresso che il discorso sembra esplodere del tutto, tra i solchi lasciati dalle giostre smantellate e le impalcature di lavori mai conclusi, tra l’ottovolante arrugginito e i chioschi senza più tavoli né sedie, svuotati senza che asservissero a un’altra funzione e lasciati così, sigillati, deserti, bastimenti sul nulla.

“La Città del futuro” dice Gino, “Così la definivano i giornali negli anni Sessanta, La Città del futuro…” e io contemplo la possibilità che la storia di questo paese dei balocchi non abbia a che fare solo con i suoi anni dorati, ma anche con tutto ciò che non è mai accaduto, le Città mai esistite, tutti i progetti abbandonati ancor prima di esser stati realizzati, e che la dimensione più autentica di Città Satellite sia proprio questa sua incompiutezza, questo bosco magmatico e informe, covo di potenzialità inespresse, eterna annunciazione di un futuro che non arriva.

Veduta dell'ottovolante (Città Satellite). Foto: Francesco Federico Natalucci

Gino mi offre un caffè (“Magari corretto?”) e il rumore della macchinetta rompe il silenzio siderale.
Dice di non aver più messo piede nella Città. In vent’anni, mai una volta che abbia pensato di scavalcare le recinzioni, se per nostalgia o semplice disinteresse non saprebbe dirlo. Lui resta ai confini, si prende cura di via del Laghetto.

Estirpa le erbacce che crescono tra le crepe d’asfalto, con l’aiuto di Antonietta installa luci provvisorie davanti al Comedia; dice che sembrano una faccenda da niente, le luci, ma bisogna immaginare cosa significhi essere i soli nel raggio di interi chilometri, affacciarsi dalle porte del locale e non vedere neanche una macchina o una casa in lontananza. Dice che i primi tempi, dopo la chiusura della Città, ancora sperava che si sarebbe fatto qualcosa, che tutti quei progetti annunciati sui giornali sarebbero nati davvero. Poi però si son fulminati i lampioni lungo la strada, a uno a uno, piccoli scoppi attutiti nel buio. “Nessuno è venuto a sostituirli”.

“Ah, e poi ci sono i rifiuti”. Gli innumerevoli rifiuti che ogni giorno Gino sgombera dalla strada. Televisori, ruote, parabole, frigoriferi, divani, materassi abbandonati davanti ai cancelli, quasi fossero offerte votive a questa Città interrotta. Talvolta, a Gino capita persino d’imbattersi in un carico di frutta gettato da un camion rubato: “può immaginarlo? Metto un piede fuori casa e trovo l’intera strada ricoperta di pesche, arance, limoni…”

Eppure, nonostante il buio e i rifiuti, nonostante la fatica di vivere in un luogo del tutto ostile, Gino non ha mai pensato di andarsene. Dai suoi racconti, capisco che il Comedia Club rappresenta ancora uno spiraglio di autentica vitalità, un punto d’incontro per i reduci di Città Satellite.
Con l’eccezione dei giostrai, creature solitarie che vivono accampate nel bosco, in perenne lotta contro le ordinanze di sfratto, gran parte delle persone che lavoravano a Città Satellite frequentano ancora il Comedia Club.

“Ignazio, per dirne uno”, il conducente del piccolo treno che girava intorno alla Città, “ma anche Bruno”, l’insegnante di pattinaggio, “e poi lo Sceriffo”, un italoamericano che aveva lavorato come cow-boy in un ranch del Texas prima di trasferirsi a Città Satellite e imbastire spettacoli di Far West, sono solo alcuni dei personaggi leggendari che popolano il Comedia. A loro si aggiungono gli allievi di Gino, tutti frequentatori della Città e amici di vecchia data, figure scombinate di un unico interminabile sogno che trascorrono i fine settimana tra le feste in maschera e i concerti di liscio.

“Un’ultima cosa” dice Gino, “un’ultima cosa prima di andare”.
Mi fa cenno di seguirlo, attraversiamo il salone e scostiamo il sipario in velluto. “Ecco” dice, aprendo una porta camuffata sotto festoni rossi e bandierine glitterate. Ci ritroviamo in una stanza grande e un po’ umida, dalle finestre a nastro una luce azzurra si schiude sui piccoli amplificatori e sui mobili nascosti sotto il cellophane.

“Qualche giorno fa sono venuti dei ragazzi, giovanissimi, mi hanno chiesto se avessi uno spazio per le feste, per qualche concerto…” Gino dice che l’idea di affittare “questa stanza morta” a dei ragazzi non gli dispiace affatto, e anzi, dice che “Se non fanno troppi disastri, possono stare quanto vogliono”, e io sorrido immaginando il curioso cortocircuito tra i concerti di liscio e la musica elettronica, tra i nostalgici del paese dei balocchi e i ragazzi che conoscono solo una Città disfatta e fantascientifica, e Gino che si muove tra queste due dimensioni come un traghettatore di anime. “Possono stare quanto vogliono, ballare fino al mattino. Del resto,” Si avvicina a un armadio vuoto, soffia via la polvere da un ripiano, “l’unico vantaggio di essere alla fine del mondo, è che nessuno viene mai a chiederti di spegnere la musica”.