Fermarsi per ripartire

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16 Marzo 2021

La seconda puntata di “Quell’ultimo sentiero”, il reportage di Beatrice Spazzali, scelto nel 2020 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo

La seconda puntata di “Quell’ultimo sentiero”, il reportage di Beatrice Spazzali, scelto nel 2020 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo.

 

La Val Rosandra, al confine tra Italia e Slovenia, è la porta di passaggio della rotta balcanica sull’Europa occidentale. Gli aspri sentieri carsici oggi meta di escursioni in mezzo alla natura vengono attraversati silenziosamente da decine e decine di profughi, testimoniando vecchie e nuove migrazioni iscritte nella memoria delle comunità locali ma disperse in quella dei più. Cosa rappresenta l’anima di questa terra di confine? Quell’ultimo sentiero di Beatrice Spazzali è uno dei due reportage scelti a Festivaletteratura 2020 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo per essere sviluppati a puntate sul sito del Festival e qui. In questa prima puntata, quattro lapidi nel piccolo cimitero di San Antonio in Bosco riportano indietro le lancette della storia al 1973, quando il destino di un gruppo di giovani clandestini cambiò per sempre in una fredda notte d’autunno.

2 puntata.

Fermarsi per ripartire

di Beatrice Spazzali

Dembele Seydou, Mamdou Niakhate, Traore Bakary e Mibaye Somila Diby hanno trovato come meta finale del loro viaggio la terra rocciosa e calcarea del Carso. Erano partiti dal Mali, il loro paese d’origine, e avevano attraversato la Costa d’Avorio e il Ghana arrivando in Nigeria. Qui si erano imbarcati su un aereo per l’Algeria, da dove un altro aereo li aveva portati a Zagabria. La loro destinazione finale era la Francia, dove li attendeva un lavoro in fabbrica.

Una porta in ferro del Silos di Trieste. Dalla grata si intravede l’architettura ad archi dell’edificio. Foto di Beatrice Spazzali.

Il 20 ottobre 1973, alle 15:30, il cimitero di San Antonio in Bosco era gremito di persone, molte delle quali avevano portato con loro un fiore. Stavano tutti partecipando in modo commosso ai funerali dei tre ragazzi morti nella notte tra il 12 e il 13 ottobre.
La legge stabilisce che deve essere il Comune nel cui territorio vengono rinvenuti dei corpi a occuparsi delle spese del funerale e della sepoltura, se nessuno si presenta a reclamare i cadaveri e ad assolvere le faccende burocratiche, e così è stato.

A ogni modo, la stampa locale scrive che “la tragica disavventura dei tre africani ha avuto un’eco sincera di compianto in città”, e in effetti le foto della giornata mostrano una folla di persone dagli sguardi tristi. Nelle prime file, accanto al cumulo di terra smossa per ospitare le bare, si vedono dei bambini e diverse persone si affacciano e si sporgono stretti dal muretto della parte superiore del cimitero. Tra la folla spunta in altezza anche un ragazzo di colore, in una foto si vede una donna che gli porge un biglietto, si tratta del fratello di Niakhate Mamadou, il più giovane dei ragazzi morti, arrivato qualche giorno prima all’ambasciata del Senegal di Roma (e non a quella del paese di origine perché all’epoca la Repubblica del Mali non aveva rappresentati in Italia) proprio per cercare di raccogliere qualche notizia in più su dove fosse morto il fratello.

Due ritagli con le immagini dei funerali tratti dall’edizione de Il Piccolo del 21 ottobre 1973.

Nei giorni seguenti il ritrovamento, i dettagli emersi permettono di mettere a fuoco una trama più ampia fatta di fili che sono traffici clandestini di persone considerate manodopera e che vista con gli occhi del presente, assomiglia ancora a quello che succede oggi, se pur con qualche differenza. Oggi le persone che arrivano sono soprattutto giovani tra i 20 e i 30 anni da Pakistan, Afghanistan, Siria, Iran e Iraq, ma anche da Bangladesh, Marocco, Turchia, Algeria ed Eritrea, come riportato dai dossier statistici sul sistema accoglienza e protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati a Trieste elaborati annualmente dall’associazione ICS. Le mete più ambite restano Francia, Germania e i Paesi del Nord Europa, dove spesso ci sono le famiglie ad aspettarli, o comunque dove ci sono più opportunità.

Alcuni luoghi simbolici di arrivo della trafficata rotta in città, che nel tempo dell’attesa si popolano per poi svuotarsi ciclicamente, sono la Stazione Centrale di Trieste, il Silos e l’antistante piazza della Libertà, non a caso spesso protagonista di manifestazioni a favore o contro il fenomeno migratorio.

Il centro di Piazza della Libertà e in fondo la Stazione Centrale di Trieste. Foto di Beatrice Spazzali.

Piazza della Libertà si trova esattamente di fronte alla Stazione Centrale e se la si guarda dall’alto non è altro che una grande rotonda dove confluiscono Viale Miramare, Corso Cavour e via Ghega, importanti arterie di accesso e uscita dalla città. Al centro ci sono grandi aiuole disposte in modo concentrico e attraversate da due vialetti che si incrociano perpendicolarmente all’ombra di alcuni ippocastani. Lo spazio è stato ricavato dall’ampliamento della vecchia Piazza del Macello risalente al 1780 e dall’interramento di un vasto tratto di mare ed è circondata da imponenti palazzi con elementi architettonici di pregio.

Qui è dove il 24 ottobre 2020 il gruppo Son Giusto, riconducibile all’estrema destra triestina, ha organizzato una manifestazione contro le politiche di immigrazione e accoglienza, sotto lo slogan “contro il business dell’immigrazione clandestina, riprendiamoci il controllo dei nostri quartieri”. La manifestazione, autorizzata dal Comune e dalla Questura, è stata vista come una provocazione da parte del mondo delle associazioni, che in quella stessa piazza spesso operano per soccorrere i migranti e che quel giorno si sono riunite spontaneamente facendo resistenza passiva prima dell’arrivo del corteo.

Le forze dell’ordine hanno cercato di disperdere la contromanifestazione non autorizzata e a quel punto la maggior parte dei presenti se n’è andata, fatta eccezione per i gruppi antagonisti, una trentina di persone nel complesso, che hanno opposto resistenza allo sgombero, scatenando momenti di tensione e beccandosi qualche manganellata. Alcuni antagonisti si sono anche scontrati con i manifestanti, ma alla fine la manifestazione si è svolta regolarmente.

Uno scorcio di Piazza della Libertà e dei palazzi che la circondano. Foto di Beatrice Spazzali.

Le associazioni attive in quella piazza e sul territorio della città sono diverse. Tra le prime in ordine di tempo c’è il Consorzio Italiano di Solidarietà – Ufficio Rifugiati Onlus, più noto come ICS, che dal 1998 si impegna a favore di richiedenti asilo, rifugiati e persone titolari di protezione sussidiaria o umanitaria a Trieste e più in generale in tutto il Friuli Venezia Giulia. Le radici dell’associazione nascono durante le guerre jugoslave, quando nel 1993 aveva iniziato a promuovere e coordinare sul territorio italiano una rete non governativa di accoglienza per i profughi in fuga dalle aree coinvolte nei conflitti. Nel decennio successivo viene sperimentata con buoni risultati e la distribuzione capillare dei rifugiati all’interno del tessuto urbano, finché lo SPRAR (Sistema di Protezione dei Rifugiati e Richiedenti Asilo) viene istituzionalizzato come sistema di accoglienza a livello nazionale dalla legge n. 189 del 2002.

Per molti anni, la gestione dell’accoglienza a Trieste si è basata su una modalità di accoglienza capillare e diffusa, resa possibile dalla collaborazione tra Prefettura, municipalità e associazionismo. Ma il “Modello-Trieste”, dimostratosi un esperimento sociale ed economico efficace, è stato messo in difficoltà e portato quasi al collasso dal Decreto Sicurezza voluto dall’ex Ministro degli Interni Matteo Salvini nel 2018. Secondo Gianfranco Schiavone, il presidente di ICS, alcuni contrasti erano iniziati già nel 2016, quando la nuova amministrazione comunale aveva fatto maggiore opposizione alle attività dell’associazione e, negli anni successivi, i tagli voluti dal Comune e dal Viminale hanno portato alla perdita di posti di lavoro nel settore e all’impossibilità delle associazioni a partecipare ai bandi di gara, sia a causa dell’insostenibilità economica che della non condivisione del nuovo modello di accoglienza imposto dal sistema.

Uno scorcio del Silos. Foto di Beatrice Spazzali.

Con l’accoglienza diffusa i richiedenti vengono destinati ad appartamenti dislocati nei vari quartieri della città che in genere ospitano 5-6 persone raggruppate in base a elementi come la nazionalità, il luogo di origine, l’età e l’eventuale rete famigliare. Gli appartamenti sono affittati dai privati alle associazioni stesse, un sistema meno oneroso rispetto a ricorrere a grandi centri governativi. L’accoglienza diffusa richiede anche l’impiego di meno personale, infatti le associazioni assegnano un operatore specializzato ogni dieci persone, circa uno ogni due appartamenti, che fa da punto di riferimento per i richiedenti e media eventuali attriti con il condominio o il quartiere di destinazione.

L’obiettivo dichiarato è combattere la marginalità e i richiedenti vengono anche coinvolti in attività come corsi di formazione professionale e linguistici, integrazione abitativa e lavorativa e mediazione culturale. In questo modo viene offerta la possibilità di avere contatti quotidiani e costanti con i vicini di casa e con la vita ordinaria cittadina. L’articolo “Sostare ai margini. Richiedenti asilo tra confinamento e accoglienza diffusa” di Roberta Altin pubblicato nel dicembre 2019 sulla rivista di antropologia culturale ANUAC cita tra gli effetti positivi registrati nel corso del tempo principalmente il calo della criminalità, l’utilizzo di appartamenti vuoti e un ritorno economico grazie ai fondi utilizzati dalle associazioni locali e rimessi in circolo dagli stessi rifugiati.
Se l’esperimento è riuscito, forse è perché sono state sfruttate anche le precedenti esperienze storiche. Il territorio di Trieste, nel corso del tempo, si è confrontato in modo anticipato con la gestione delle migrazioni forzate e di massa, con quasi 300.000 esuli italiani sfollati dall’Istria e dalla Dalmazia. Nella prima fase di accoglienza, molti sfollati furono accolti in punti di raccolta urbani, come il Silos, e in caserme o campi improvvisati sull’altopiano carsico a Padriciano, Prosecco e Opicina, prima di ottenere una casa grazie a un piano di edilizia popolare. Quando qualche anno fa c’è stata un’impennata di arrivi dalla rotta balcanica, alcuni di questi spazi sono stati riconvertiti per la prima accoglienza o come luoghi di transito e ricovero abusivo, soprattutto per quei profughi in soprannumero o in attesa di un’altra sistemazione in modo meno urgente. L’ex campo profughi di Padriciano era stato utilizzato anche per ospitare i sopravvissuti della vicenda del 1973, in attesa di essere ascoltati dalle autorità per ricostruire la storia. Mentre erano lì, il parroco della chiesa di S. Rita e Andrea aveva avviato una raccolta di indumenti tra le famiglie della zona, una gara di solidarietà molto sentita che ha permesso di donare una serie di abiti insolitamente eleganti che i ragazzi avevano indossato nei giorni successivi.

Il Silos dall’esterno, separato dalle grate metalliche. Foto di Beatrice Spazzali.

Il Silos è un edificio a pochi passi dalla stazione ferroviaria la cui imponenza la si percepisce ancora oggi, realizzato a metà Ottocento in mattoni e calcestruzzo e nato come deposito delle granaglie sotto l’impero Austro-ungarico, ma nel corso dei suoi 150 anni di vita si è abituato ad accogliere soprattutto persone. Il complesso è formato da due lunghi corpi paralleli su più piani, la cui lunghezza era un tempo scandita da finestre e porte ad arco che oggi sono dei varchi vuoti. Ora, in mezzo oggi c’è un prato e dall’alto si notano le tracce sottili di due sentieri probabilmente lasciati da un passaggio di persone da un’ala all’altra del complesso che in qualche momento è stato frequente. Una volta invece, nel mezzo passavano i binari percorsi dai treni merci. Da quegli stessi binari, ormai rimossi, nel dicembre 1943 partì il primo treno diretto ad Auschwitz e in seguito altri, ricordati da una targa affissa sulla facciata dell’edificio che guarda il lato della stazione. I nazisti lo utilizzarono come punto di appoggio per smistare ebrei in partenza dalla Risiera al campo di concentramento nella Polonia occupata.

Il Silos oggi è un rudere abbandonato circondato da reti metalliche per impedire che le persone ci entrino, una volta invece nel prato nel in mezzo c’erano le corde del bucato con su appesi i panni ad asciugare al sole dei profughi provenienti dall’Istria e dalla Dalmazia che qui furono accolti. Alcuni filmati d’epoca immortalano scene di vita quotidiana, con bambini che saltano la corda come se si trovassero in un nel giardino di casa qualunque.

Il prato cresciuto tra i due edifici, dove una volta passavano i binari ferroviari. Foto di Beatrice Spazzali.

Le reti metalliche sono state messe qualche anno fa. Prima l’edificio era separato dall’area ferroviaria da una semplice transenna di legno, ma qualcuno le scavalca lo stesso e periodicamente si popola di migranti in attesa di capire come proseguire il loro viaggio e, altrettanto periodicamente, questo posto torna al centro delle polemiche e delle proteste, testimoniando a seconda delle inclinazioni la tragedia umanitaria in corso, o la situazione di illegalità e la necessità di espulsione

La facciata deteriorata del Silos. Foto di Beatrice Spazzali.

Nella zona al pianterreno ogni tanto compaiono capanne fatte di cartoni e teli di plastica, dalle maglie della rete si intravedono vestiti abbandonati e rifiuti. Chi si ferma qui lo fa con l’intenzione di fare una sosta in vista del viaggio che è ancora da intraprendere. Un hub di un mondo di viaggi sommersi.

Testo e foto di Beatrice Spazzali. L'articolo è tratto da Il Piccolo del 14 ottobre 1973. © Tutti i diritti riservati.