India, infanzia negata

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10 Marzo 2020

Un progetto di clown terapia in un paese con dati terribili di abbandono minorile

Le Nazioni Unite definiscono “orfano” un bambino che ha perso uno o entrambi i genitori. L’India ospita 31 milioni di bambini orfani, secondo i dati più aggiornati dell’Unicef, ma nel subcontinente indiano molti bimbi senza cura parentale, però, sono stati abbandonati da uno o entrambi i genitori in vita.

Qualcuno preferisce nascondersi dietro le parole e dire che sono stati persi. Persi nelle stazioni dei treni o dei bus dove centinaia di migliaia di persone si accalcano, persi come il protagonista del film Lion, il piccolo Saroo, dimenticato da un fratello poco più grande di lui, proprio sulla panchina di una stazione ferroviaria.

Persi, abbandonati o che vivono in strada, come Balraj, che indossa un cappello da Babbo Natale, è seduto sul ciglio della strada e vende nime, radici di liquirizia, a poche rupie, nell’alba nebbiosa di Varanasi.

Sembra avere cinque, massimo sei anni, poi scopriamo che in realtà ne ha sette, ma con uno sviluppo ritardato. Passa le giornate così, in attesa che qualcuno, nel via vai delle persone che si recano alla puja delle sei e mezza, l’adorazione delle divinità, gli compri qualche bastoncino.

Balraj, bambino sulla strada o della strada? Secondo l’UNICEF, infatti, in India i bambini di strada si dividono in due categorie: i bambini sulla strada e i bambini della strada. I bambini “della strada” sono bambini senza casa che vivono e dormono per strada nelle aree urbane. Sono soli e non hanno la supervisione o la cura dei genitori. Alcuni vivono con altri adulti senza fissa dimora. I bambini “sulla strada” si guadagnano da vivere attraverso la strada chiedendo l’elemosina, ricevono soldi proprio grazie alla “qualifica” di bambini di strada. Questi ritornano a casa la sera e sono in contatto con le loro.

La distinzione è molto importante perché i bambini “della strada” hanno delle carenze affettive e psicologiche dovute alla mancanza delle famiglie. Il profilo dei bambini di strada varia anche in base alla città e alle regioni.

La maggioranza dei bambini di strada sono maschi. L’età del 40% dei bambini di strada è tra gli 11 e i 15 anni mentre l’altro 33% è tra i 6 e i 10 anni. Uno studio dimostra che la maggioranza (88.9%) dei bambini vive in strada con i loro genitori o i loro parenti.

Varanasi, la città sacra indiana per eccellenza, è anche stata la prima tappa della trentesima missione indiana di Dottor Clown Italia, partita da Vicenza per un tour de force di migliaia di chilometri, tredici voli, sette città per cercare di raggiungere il maggior numero di strutture, orfanotrofi, ospedali e scuole indiani in cui portare la clownerie, la medicina del sorriso.

Leader del gruppo e veterano dell’India, Evaristo Arnaldi, medico odontoiatra di Vicenza e presidente di Dottor Clown Italia, che ormai molti anni fa, dopo l’esame di Psicologia medica e aver visto i primi clown dell’ospedale Sacco di Milano, si rese conto che c’era un gap incolmabile tra paziente e dottore e che bisognava ridurlo.

Grazie a Patch Adams, che ha personalmente conosciuto e poi portato in Italia, ha scoperto la “clown-terapia” come intervento di affiancamento alle cure tradizionali, che riesce a superare la visione del paziente come soggetto malato, valorizzando una concezione più umana, specie quando si tratta di bambini.

“Il clown di corsia altro non è che il mezzo con cui, attraverso situazioni comiche, il piccolo paziente scaccia le proprie paure e viene distratto – spiega – fortunatamente c’è stato un giorno in cui qualcuno ha intuito che i “pagliacci” dovevano uscire dai circhi per andare a visitare i luoghi della sofferenza”.

I suoi primi viaggi in India l’hanno portato a conoscere in particolare la realtà dell’orfanotrofio di Vijayawada, nello stato dell’Andhra Pradesh, una struttura gestita da Care & Share onlus di Venezia, con, all’epoca, circa 4mila bambini.

Nacquero così le prime missioni di odontoiatri italiani e assistenti alla poltrona per la riduzione delle patologie dentali dei bambini e istruire il personale locale all’educazione all’igiene orale. Oltre alla pratica medica, però, Arnaldi esercitava con successo anche quella di clown, entrando un po’ alla volta, con il suo naso rosso, nel cuore dei bimbi.

In particolare in quello di alcuni di loro, come Raj, Arun, Bobby, che quando lo conobbero erano poco più che bambini e videro il loro mondo trasformarsi, riuscendo, grazie alla magia, ad evadere dalle mura alle volte troppo strette dell’orfanotrofio.

“Evaristo è una persona generosa, che mantiene le promesse e ci ha dato fiducia, ricordo che faceva entrare noi bambini in camera e guardare e toccare le sue cose, nessuno faceva così con noi, poi ci prendeva e ci portava al cinema, ci faceva uscire e per noi era importante” – racconta Raj, adesso 25 anni, che ha accompagnato il gruppo nella missione indiana e che a tre-quattro anni è stato portato al Care & Share da una zia dopo che era stato abbandonato dalla madre, uscita di casa dicendo: “Esco a comprare qualcosa” e  mai più tornata.

Raj è stato letteralmente folgorato dagli spettacoli che faceva Arnaldi, al punto da voler diventare clown egli stesso, così, venuto in Italia in affidamento, ha potuto seguire dei corsi di formazione ed ha poi aperto in India un’associazione tutta sua, Kittry Kittry Clown India, che sta raccogliendo numerosi giovani appassionati.

Il sogno di Raj è quello di poter diventare un professionista, al pari dei grandi clown internazionali, e vorrebbe seguire i corsi della scuola di mimo a Parigi.  Giocoliere, acrobata, mago, mimo: Raj sicuramente incarna per molti bambini indiani che lo vedono all’opera, l’esempio di chi ce l’ha fatta, di chi ha saputo riscattarsi da una situazione di abbandono e miseria. Già, ma per tutti gli altri? Qual è il loro destino? C’è chi ha la fortuna di essere adottato, chi invece ha un padrino una madrina, qualcuno che paga le spese per gli studi, magari fino all’università, ma in molti altri casi, specie se parliamo di minori con disabilità fisica o mentale, il futuro si profila oscuro, drammatico.

E l’India lascia nell’animo il senso della drammaticità, ma anche dell’intensità e dell’emozione, un crogiolo di forme, sapori, origini, odori, colori, abbracci ed abbandoni. Lo dice bene Susheela Kurian, dottoressa di 63 anni, per 15 medico nell’orfanotrofio Care & Share: “Ogni volta che mi sento depressa per la situazione indiana, mi ricordo anche della nostra immensa resilienza. Avevo, ho questa fede nella società indiana, che essendo così complessa, non cede facilmente agli estremismi. La straordinaria molteplicità tra gli indiani, questa assenza di omogeneità è qualcosa che non si dà via facilmente, e questa è una grande forza”.