Processi e colpevoli

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11 Giugno 2021

La quarta puntata di “Quell’ultimo sentiero”, il reportage di Beatrice Spazzali, scelto nel 2020 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo

La quarta puntata di “Quell’ultimo sentiero”, il reportage di Beatrice Spazzali, scelto nel 2020 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo.

 

La Val Rosandra, al confine tra Italia e Slovenia, è la porta di passaggio della rotta balcanica sull’Europa occidentale. Gli aspri sentieri carsici oggi meta di escursioni in mezzo alla natura vengono attraversati silenziosamente da decine e decine di profughi, testimoniando vecchie e nuove migrazioni iscritte nella memoria delle comunità locali ma disperse in quella dei più. Cosa rappresenta l’anima di questa terra di confine? Quell’ultimo sentiero di Beatrice Spazzali è uno dei due reportage scelti a Festivaletteratura 2020 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo per essere sviluppati a puntate sul sito del Festival e qui. In questa prima puntata, quattro lapidi nel piccolo cimitero di San Antonio in Bosco riportano indietro le lancette della storia al 1973, quando il destino di un gruppo di giovani clandestini cambiò per sempre in una fredda notte d’autunno.

 

4 puntata.

Ritrovamenti

di Beatrice Spazzali

Quando i Carabinieri trovarono Traore che camminava lungo Strada della Rosandra lo fermarono per interrogarlo. Volevano chiarire perché si trovasse lì e quale era stato il suo effettivo ruolo nel viaggio degli altri Africani. 

All’epoca dei fatti, Traore aveva 31 anni e da sette viveva a Parigi con un regolare libretto di lavoro rilasciato dal governo francese. Aveva detto di essere arrivato a Zagabria dalla Francia per incontrarsi con alcuni connazionali e aiutarli ad arrivare in Francia. In effetti le cose erano andate più o meno in quel modo.

 

Traore aveva detto di essere arrivato a Zagabria il 12 ottobre, ma in realtà era arrivato in Jugoslavia già a fine settembre, come testimoniato dal biglietto aereo  Parigi-Zagabria del 27 settembre trovato nella camera dell’albergo Roma doveva aveva soggiornato a Trieste. Erano stati trovati anche altri appunti su date, itinerari e punti di riferimento della frontiera italiana e francese, indirizzi riguardanti cittadini del Mali e della Jugoslavia. Documenti che facevano presupporre che Traore si fosse preparato al viaggio e che avesse studiato il tragitto tra Jugoslavia e Italia attentamente per prepararsi all’attraversamento delle due frontiere. C’erano anche l’indirizzo del locale “Da Rosina” a Castel d’Appio, vicino Ventimiglia – che i Carabinieri di Ventimiglia avevano accertato essere un punto di riferimento di molti migranti clandestini prima di dirigersi verso la Francia – e un biglietto con su scritto il nome di Lorenzo La Rocca, un floricoltore della zona.

Traore aveva anche parlato di un compenso che avrebbe dovuto ricevere una volta portato in Francia il gruppo, che secondo le testimonianze dei superstiti si aggirava intorno ai 250.000 franchi da pagare all’arrivo in Francia. Considerati questi elementi, Traore era stato fermato e accusato di omissione di soccorso, di frode in emigrazione e di triplice omicidio colposo per aver provocato la morte dei suoi tre compagni.

 

Traore non era l’unico coinvolto nelle indagini. Il tentativo di passaggio del confine avvenuto tra il 21 e il 22 ottobre, circa una decina di giorni dopo gli sfortunati fatti del 13 ottobre, si era concluso con il fermo da parte della polizia jugoslava della maggior parte dei migranti e delle loro guide. Si trattava degli Italiani Giancarlo Pittavino, di Torino ma residente in Francia; Lorenzo La Rocca, lo stesso floricoltore di Ventimiglia il cui nome era segnato su un biglietto trovato nella stanza d’albergo di Traore; Francesco Facciolo, anche lui di Ventimiglia; e Carmelo Facciolo, fratello di Francesco. I primi tre erano stati fermati in Jugoslavia e portati in carcere a Capodistria, mentre Carmelo Facciolo era stato fermato nel territorio italiano vicino a Fernetti e quindi portato nel carcere di Trieste. Carmelo Facciolo era stato sorpreso mentre aspettava con un furgone rosso targato Imperia utilizzato di solito per il trasporto dei fiori, ma che questa volta era stato allestito per ospitare dei passeggeri. Anche in questo caso, gli Italiani erano stati accusati di aver organizzato l’espatrio clandestino dei migranti, un reato per il quale in Jugoslavia era prevista una pena dai 3 mesi ai 5 anni di carcere.

L’ex casello ferroviario di Sant’Antonio in Bosco.

L’attenzione sollevata dagli eventi dell’ottobre 1973, fece apparire all’improvviso più frequenti quei transiti che in realtà nei mesi precedenti si erano moltiplicati con costanza confondendosi con i turisti dell’estate. Un’inchiesta pubblicata nelle settimane successive su Il Meridiano di Trieste racconta alcune vicende simili che avevano riguardato il traffico di manodopera turca avvenuto con una certa frequenza nei dodici anni precedenti, riportando alla luce una realtà non solo di transito, ma piuttosto permanente. Furgoncini partiti da Istanbul e diretti in Germania venivano spesso fermati nei pressi della stazione di Trieste con su 10-15 Turchi stipati al loro interno, a portarli oltre il confine erano di solito ex contrabbandieri. Un uomo che ha avuto a che fare con la giustizia proprio per via di questo traffico aveva ammesso candidamente al giornalista di averne accompagnati almeno mille. Per i Turchi c’era un’organizzazione, ma secondo lui anche per gli Africani doveva esserci, perché era così che funzionava, pagare era la regola. 

Anche per Pittavino, uno dei tre italiani in carcere a Capodistria, un’organizzazione c’era. Lui e i suoi compagno però ne avevano conosciuto quello che ritenevano essere solo una pedina, un esecutore che era entrato in contatto con loro a Ventimiglia e che gli aveva chiesto se erano disposti a portare dei suoi connazionali al confine francese. Probabilmente si trattava di Traore.

 

Ancora oggi il traffico dei migranti avviene attraverso un modus operandi comune e diffuso. Innanzitutto, quando si parla di traffico si fa riferimento a una situazione in cui tra trafficanti, chiamati in questi casi smugglers, e migranti si instaura un rapporto che si potrebbe definire di tipo commerciale. 

Il traffico avviene con la consapevolezza del migrante che, non potendo entrare in un altro paese legalmente e incapace di attraversare il confine (spesso i confini, perché ne attraversano più di uno) clandestinamente, si rivolge ai trafficanti per usufruire dei servizi messi a disposizione in cambio di un certo compenso. I servizi che i trafficanti offrono sono diversi, dalla contraffazione dei documenti, al trasporto oltre la frontiera a piedi o a bordo di mezzi. 

Un recente report redatto da Global Initiative Against Transnational Organized Crime afferma che i Balcani occidentali sono un crocevia per attività e traffici illeciti sin dagli anni ’70 e che nel 2020 solo il traffico di migranti nell’area ha avuto un valore 50 milioni di euro. Sarebbe normale aspettarsi che a causa della pandemia le attività siano diminuite, invece proprio a causa del Covid-19 il valore del traffico è aumentato. Questo perché le varie dichiarazioni di emergenza e la chiusura delle frontiere hanno contribuito a creare emergenze umanitarie in certe zone e limitato la libertà di movimento all’interno e tra i paesi, incentivando il traffico clandestino.

Per i migranti affidarsi a questi traffici è pericoloso perché c’è il rischio di essere scoperti e catturati dalla Polizia di frontiera, che in alcuni casi ha una certa reputazione per picchiare i migranti fermati e derubarli. Ma possono anche essere vittime di estorsioni, rapimenti e ricatti. Un altro rischio arriva dal fatto che spesso i passeur che trasportano i migranti guidano in modo incauto per la fretta di arrivare a destinazione e la paura di essere fermati e possono causare degli incidenti. Come anche rilevato dalle Nazioni Unite, a rischiare di più sono sempre i migranti stessi.

 

I destini di Traore e degli altri Africani si erano intrecciati diversi mesi prima, quando il viaggio del gruppo era incominciato. Le persone che avevano già intrapreso quello stesso viaggio prima di loro erano molte e questo in Mali si sapeva. Così come si sapeva che per lasciare il Mali non c’era bisogno di rivolgersi a nessuno, perché c’erano degli autocarri che molto frequentemente attraversavano il Sahara offrendo servizi di trasporto fino in Algeria a chi era intenzionato a partire. Si sapeva anche che in Algeria – un po’ come in Jugoslavia – le autorità non ostacolavano in alcun modo questi movimenti. Ed era ben noto che ad Algeri sarebbe stato piuttosto facile incontrare persone in grado di dare indicazioni su come proseguire il viaggio verso l’Europa, o farsi imprestare o mandare dei soldi da parenti e conoscenti già in Francia, e questo convinceva a partire forse anche quelli con meno nozioni geografiche e linguistiche. 

 

Danfanga Tidia, uno dei sopravvissuti alla notte del 12 ottobre, era proprio uno dei tanti che una volta raggiunta Algeri si era trovato in difficoltà su come proseguire il viaggio perché non aveva una chiara idea dell’itinerario da fare. A questo punto pare che una persona del gruppo con il quale attendeva si fosse messa in contattato con Traore affinché li aiutasse. Lo conosceva perché era originaria dello stesso paese e sapeva che da diversi anni abitava in Francia. Qualche altro testimone aveva detto che era stato il fratello di uno del gruppo a metterli in contatto. Ad ogni modo, Traore aveva mandato una lettera di risposta, che venne letta al gruppo da un uomo che si presentò nell’albergo dove alloggiavano. Conteneva le indicazioni su come proseguire fino  Zagabria, dove lui li avrebbe aspettati. Una volta arrivati in Jugoslavia, avevano chiesto al tassista che li aveva caricati fuori dall’aeroporto di Zagabria di portarli all’albergo “dei negri”, come gli avevano suggerito di fare ad Algeri altri migranti che sapevano dell’esistenza di questo albergo che ospitava soprattutto loro connazionali, a testimonianza ancora una volta di quanto questi flussi fossero regolari. Qui avevano incontrato Traore e avevano iniziato il loro tentativo di attraversamento.

Il Piccolo del 25 ottobre 1973.

Va precisato che le varie tappe e i percorsi non sono state così lineari. Le persone che avrebbero poi cercato di attraversare il confine anche in gruppi piuttosto numerosi erano partite dal Mali alla spicciolata, in gruppi più piccoli che poi si erano uniti ad altri, o in gruppi diversi che poi si erano divisi. Qualcuno aveva provato ad attraversare il confine per conto proprio, altri che avevano trovato i soldi per il viaggio erano andati avanti. Insomma, una situazione complessa di via vai e tentativi e di settimane di attesa. Ad esempio Dafanga Tidia e un altro compagno si erano muniti di visto italiano ed erano riusciti a raggiungere in treno addirittura la frontiera francese, dover però erano stati respinti. Avevano quindi deciso di tornare a Zagabria perché sapevano che avrebbero potuto incontrare altri connazionali e infatti incontrarono il gruppo con il quale avrebbero poi attraversato il confine guidati da Traore.

 

È probabile che Traore abbia avuto un coinvolgimento anche nel passaggio del secondo gruppo. I tre Italiani fermati a Capodistria avevano infatti detto di aver conosciuto un ragazzo Africano a inizio ottobre a Ventimiglia, che gli aveva chiesto di portare un gruppo di suoi connazionali da Trieste a Milano per una somma pari a 40 mila lire a persona. E tra gli effetti personali di Traore era stato trovato un biglietto con il nome di Lorenzo La Rocca e altri appunti che potevano testimoniare il suo passaggio nella zona di Ventimiglia.

Un’altra versione che conferma in parte questi fatti arriva proprio da un Africano del gruppo, Sangare Ntik, che era riuscito a scappare quando la polizia Jugoslava aveva iniziato a sparare in aria. Sembra che Traore avesse incontrato anche questo gruppo a Zagabria, nel solito albergo dove soggiornavano da diversi giorni. Non è chiaro se si fosse messo in contatto con loro precedentemente o se li avesse incontrati quando era andato a prendere l’altro gruppo, il primo a passare. Ad ogni modo li aveva avvisati che avrebbero dovuto aspettare una certa “guida bianca”, un Europeo che parlava francese e che li avrebbe aiutati ad attraversare il confine. 

 

Dopo il fermo di Traore, l’istruttoria del processo si era protratta lentamente nei mesi successivi anche a causa della poca collaborazione da parte dell’Autorità Giudiziaria jugoslava e del conseguente ritardo nel rispondere alle richieste. A febbraio del ‘74 non era stata ancora evasa una richiesta del novembre ‘73 essenziale per chiarire i dettagli relativi all’esistenza della possibile organizzazione clandestina che operava a livello internazionale. Traore intanto era ancora in carcere e attraverso l’avvocato che gli era stato assegnato aveva chiesto di essere rimesso in libertà. Inizialmente la richiesta era stata respinta, in seguito invece gli avevano concesso la libertà provvisoria con l’obbligo di presentarsi all’ufficio stranieri della questura di Trieste una volta ogni due giorni. Nel suo periodo di libertà, Traore era stato accolto nel campo profughi di Padriciano. A maggio però chiese che l’obbligo di restare a Trieste venisse revocato poiché il campo profughi non lo poteva più ospitare e lui non aveva i mezzi per vivere da qualche altra parte. Anche questo obbligo venne revocato, ma venne richiesto di indicare un domicilio in Italia dove far recapitare notifiche e avvisi, che venne identificato nello studio del suo avvocato. Dopo un po’ Traore lasciò l’Italia, probabilmente tornò in Francia.

 

Il processo andò avanti in contumacia, quindi senza la presenza fisica di Traore. Attraverso le indagini erano stati raccolti elementi sufficienti a provare l’esistenza di una vera e propria organizzazione illegale che si occupava di emigrazione e del passaggio clandestino di migranti Africani, nella quale erano coinvolti anche i quattro cittadini Italiani. I tre detenuti a Capodistria vennero processati e condannati alcuni a 5 mesi e altri a 3 anni di carcere. Per quanto riguarda l’Italia, il magistrato Coassin, che aveva seguito le indagini, aveva ammesso che si trattava di una situazione difficile a causa della mancanza di norme specifiche e di leggi ad hoc. Il fenomeno era anche favorito dalla mancanza di norme che regolavano l’immigrazione e di procedure regolari per il reclutamento dei lavoratori esteri.

 

Anche negli ultimi anni ci sono state delle indagini per cercare di contrastare l’immigrazione clandestina e le notizie riguardanti l’arresto di qualche passeur sono piuttosto frequenti. Tra luglio 2019 e novembre 2020, una lunga indagine svolta dalla Polizia slovena in collaborazione con quella italiana ha portato alla denuncia di dodici persone coinvolte nel trasporto di 108 migranti dall’Asia e Africa attraverso la rotta balcanica.

In particolare, tra giugno e ottobre 2019, in Italia hanno avuto luogo otto episodi in occasione dei quali la Polizia di Frontiera ha intercettato oltre 31 immigrati nelle zone boschive tra Trieste e Gorizia. Anche in questo caso, i membri dell’organizzazione – in alcuni casi in attesa di ottenere protezione internazionale – hanno svolto diversi ruoli come organizzare la partenza dei migranti, cercare luoghi dove sostare, trovare i canali per comunicare conferma dell’arrivo a destinazione e riscuotere il pagamento dovuto.

 

Il processo si concluse con la condanna di Traore a tre anni di carcere. A Traore venne riconosciuta la colpa per quanto accaduto. In particolare, il suo comportamento venne definito estremamente negligente e imprudente, poiché aveva tutte le capacità per prevedere i rischi a cui stava sottoponendo le persone che guidava e che si erano affidate a lui ciecamente. Invece, per l’accusa Traore si era fatto guidare solo dalla possibilità del guadagno e non si era fermato nemmeno davanti alle condizioni metereologiche avverse o alla difficoltà degli altri, probabilmente per paura di essere fermato e di non riuscire a portare a termine il compito. Una colpa quindi che pesava soprattutto sul piano umano.

Parte della sentenza contro Traore

Il processo durò circa un anno e si basò sulle prove raccolte sui luoghi dei fatti e sulle testimonianze di coloro che vi avevano assistito. Sembra però che l’aspetto più internazionale, più grande e importante della vicenda che poteva portare a chiarimenti sull’esistenza di un’organizzazione che si muoveva a livello internazionale, non sia stato approfondito. In questo in parte ha pesato la non collaborazione della Jugoslavia, tant’è che l’Autorità Giudiziaria italiana aveva proceduto con lo stralcio degli atti che vedevano imputati Traore e gli Italiani fermati a Capodistria nel reato di frode in emigrazione, proprio per poter andare avanti con il processo a Traore. 

La fine del processo aveva portato con sé la verità accertata dai giudici, non per forza la verità in termini assoluti, anche perché tanti elementi sono rimasti in sospeso. Alla fine di questa storia resta forse una sola certezza, che senza i giusti canali per aiutare i profughi, di queste storie ce ne saranno ancora parecchie.

Testo e foto di Beatrice Spazzali. Nell'immagine di copertina, la veduta della Val Rosandra.