Tunisi capitale dei call center

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8 Aprile 2021

Un mondo senza diritti, un mare di profitti

Leila resta in silenzio qualche secondo, guadagna tempo prima di iniziare a recitare lo script che conosce a memoria: – Sono Juliette e la chiamo per proporle un cofanetto di prodotti di …”.

Non fa in tempo a finire la frase che la donna riaggancia. Il Mediterraneo le divide. Leila è tunisina, lunghi capelli neri le ricadono sul capo, mentre gli occhi penetranti sono messi in evidenza dalla linea di kajal nero. Parla arabo, francese e inglese; è appena uscita dall’Università di Lettere e da un paio di mesi lavora nel campo del telemarketing per un azienda di cosmetica svizzera.

“Psicologicamente è frustrante, esco con le orecchie che mi fischiano. Ho iniziato a soffrire d’insonnia per quelli che mi sbattono il telefono in faccia –  la voce le si incrina, forse per rabbia, forse per malcelata rassegnazione. Mi pagano settecento dinari al mese, meno di duecentocinquanta euro.”

Tunisi popolo dei call center? Avamposto offshore del proletariato cognitivo? Attualmente sono quasi quattrocento i call-center presenti nella capitale, fra le sedi delle multinazionali della comunicazione e le società locali che puntano al mercato europeo.

Nelle zone industriali di Charghia e Lac troviamo le multinazionali del marketing come la francese Teleperformance, l’americana Concentrix, Nexus Contact Center – con sedi in Tunisia e Romania, ma clienti nei Paesi francofoni e in Italia -, accanto a società nazionali come PhoneAct e Tricom.

Il centro invece pullula di microcentri, spesso informali, ospitati nei palazzoni in stile liberty del primo novecento, accanto a società di medie dimensioni – nella zona di Montplaisir – dove il grigio delle costruzioni dall’estetica fordista arriva a stingere finanche il cielo.

PhoneAct è solo uno dei molti esempi: fra i principali operatori del Maghreb, impiega seicento persone e vanta fra i suoi clienti società del calibro di Renault, Samsung e Manpower.

Come altri gruppi di grandi dimensioni presenti a Tunisi, copre un ampio ventaglio di attività fra cui i pagamenti a distanza, il servizio post-vendita via telefono, email e chat, il telemarketing e i sondaggi sulla soddisfazione della clientela. Forse dovremmo chiamarla gig economy, ma a Tunisi questa frangia della post-modernità raccoglie il rassegnato entusiasmo dei giovani disoccupati, il 36% del totale. Soprattutto perché i salari offerti dalle multinazionali, per quanto bassi, restano concorrenziali: un impiegato all’anagrafe guadagna settecentocinquanta dinari al mese.

Sembra quindi che non vi sia diplomato o laureato senza un passato nei call center. Basta un francese perfetto o la conoscenza di altre lingue – inglese e italiano in primis – per trovare facilmente lavoro. Lo stress da performance nei grandi open space e le possibilità di carriera limitate fanno sì che il turn-over sia costante. Come nei Mac Donald.

Sui siti online dei gruppi leader  constatiamo quanto queste aziende investano nella costruzione di un’immagine di marca vincente.

Teleperformance millanta possibilità di carriera in un ambiente giovane e dinamico, vantandosi di essere “il leader mondiale della gestione dell’esperienza cliente multicanale”.

Presente nel Paese dal 2000 impiega seimila persone nei cinque call center di Tunisi e Sousse. La multinazionale è stata certificata Best Place to Work n Tunisia nel 2019 e classificata Best employer per la seconda volta consecutiva, oltre ad aver ricevuto il Label Aon Hewitt Global Best Employers nel 2018.

Ma parlando con i dipendenti all’uscita, oltre i cancelli di TP, i distinguo si moltiplicano.

 

 

“Dovevo restare tre mesi e invece sono già diciotto.” Amine ha ventotto anni, la pelle abbronzata e qualche capello bianco che lo fa sembrare più vecchio. “Qui non si fa carriera, si lavora per settecento dinari al mese perché non si ha scelta”.

Amine fa un part-time di ventotto ore la settimana, quattro giorni sette ore di fila. È un consigliere tecnico per SFR, il terzo fra i grandi operatori telefonici sul mercato francese che come altri ha deciso di esternalizzare i servizi post vendita.

Risponde a quanti vogliono recidere un contratto, riattivare un router a distanza o, semplicemente lamentarsi del collegamento. La pressione è costante. “A volte – afferma – sento il cervello andare in tilt e smetto di rispondere. Resto a fissare lo schermo del computer qualche minuto, poi ricomincio.” Al collo porta il badge aziendale, di un fucsia scintillante come il logo di TP.

Mentre parliamo un uomo sulla settantina si avvicina zoppicando. Amine gli porge un dinaro e il vecchio ringrazia rivolgendosi al cielo, Hamdoullah, – grazie a Dio. Ma a Tunisi – continua Amine – noi giovani restiamo “nickel”, brillanti come l’acciaio inossidabile. Quando parla, adesso, gli brillano gli occhi e uno sguardo sbarazzino e un po’ infantile emerge sotto le ciglia folte.

“Forse qualcuno ti dirà il contrario, che a TP si guadagna più della media ed è un impiego a lungo termine. Ma io, vedi, nella vita avrei voluto fare altro. Sono tecnico del suono, ma qui è difficile trovare finanche uno stage. Allora nei weekend faccio il dj – ripete, mentre apre le spalle e alza lo sguardo – TP, inshallah – sarà solo un passaggio.”

HP, la nota marca di computer, ha scelto di creare una filiale in Tunisia anziché affidarsi all’outsourcing. Alla sede tunisina, in un palazzone enorme di vetro e acciaio nella zona industriale di El Ghazela, sono assegnate le funzioni di marketing e post-vendita. Si passa il badge per entrare e si lavora in un plateau con numerose postazioni, pc moderni e l’onnipresenza delle vetrate come in un panopticon.

I dipendenti offrono assistenza tecnica in inglese, italiano e francese. Se non riuscite a collegare la stampante a Milano, e decidete di chiedere assistenza telefonica, è probabile che vi rispondano da qui. Attraverso i centralini HP fa una prima scrematura delle chiamate e garantisce ad un costo molto basso il servizio post-vendita. Una scelta simile è stata fatta da Lycamobile, che gestisce da Tunisi la “relazione cliente” sui mercati italiano e spagnolo.

Secondo l’economista Abdeljelil Bedoui, presidente del Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali, si è esacerbata la forbice fra le dinamiche produttive e le dinamiche del mercato del lavoro, per cui a fronte di un numero sempre più alto di laureati i posti di lavoro creati sono spesso precari e scarsamente qualificati.

“Si dovrebbe optare per un modello alternativo, superando la legge 93 sugli investimenti che sancisce la neutralità dello Stato e l’abbandono di politiche di settore.”

Difficile dire perché la Tunisia sia diventato il paese dei call center, ma senza dubbio l’indifferenza dello stato rispetto alla tipologia di investimenti, stretto fra la morsa di un alto tasso di disoccupazione e il forte indebitamento estero, vi ha contribuito.

“Dovremmo chiederci dove si inserisce la Tunisia nella divisione internazionale del lavoro – prosegue Bedoui -, se attrae le multinazionali solo per il basso costo della forza lavoro, fra l’altro non giustificato da uno scarto di produttività rispetto ai paesi europei”. “Nei call center il know how tecnologico è basso, per cui i capitali investiti sono ammortizzabili in breve tempo. Questo accentua la competizione fra Paesi e la precarietà dei lavoratori, poiché è facile chiudere una sede e riaprire altrove.”

Per attrarre investimenti esteri, nella giungla della concorrenza globale, lo stato tunisino esonera le imprese dall’imposizione fiscale per dieci anni. Simili sgravi, in un Paese fortemente indebitato, dicono della fame di lavoro.

Negli scorsi mesi, dal quattordici gennaio, anniversario della rivoluzione che dieci anni fa rovesciò il regime di Ben Ali, la capitale è stato lo scenario di violente proteste, nei quartieri popolari del centro e nell’enorme banlieue di Ettadhamem – solidarietà in arabo – che somiglia a Scampia per i palazzoni dormitorio, disoccupazione e microcriminalità.

In un mondo globale che sfrutta le potenzialità dei territori,  i call center di Tunisi, come i mini job e la gig economy dell’Occidente, fanno da cuscinetto contro un malessere crescente, dando però solo temporaneo respiro a molti giovani che vedono soffocato il loro desiderio di farcela.